Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un filo biografico fornito dallo stesso Croce, e che traduce in atto la sua definizione dello studio della storia come storia contemporanea ripercorre le tappe fondamentali della sua vicenda culturale. Nella fase giovanile prevale l’impegno teoretico alla costruzione del Sistema, ispirato a una riforma dell’hegelismo, e che vede associati i nomi di Croce e Gentile. Nella fase matura emerge in primo piano l’opera di storico, non disgiunta da un crescente impegno etico-politico nelle file dell’antifascismo liberale. Nella fase senile viene in luce la costante autocritica del filosofo, che non si limita agli aspetti pragmatici, ma coinvolge la visione teoretica di fondo.
La formazione e il primo sistema
“L’individuo è poca cosa per sé, fuori del tutto”: così Benedetto Croce introduce la propria autobiografia intellettuale, alle soglie della Grande Guerra (Contributo alla critica di me stesso, 1915). Non era semplice understatement il suo, ma intima persuasione filosofica, innervata nello spiritualismo idealistico della sua prima stagione culturale. Abruzzese di nascita (Pescasseroli, 1866) e napoletano di formazione, il giovane studioso, appassionato di studi storici ed eruditi, si converte precocemente alla filosofia, dopo la lettura della Scienza nuova di Giambattista Vico. Ugualmente distante dallo spiritualismo cattolico (educato in un collegio di sacerdoti si congeda adolescente, con un distacco senza drammi, dalla religione) e dal positivismo allora dominante (frequenta con scarso interesse le lezioni universitarie, se si eccettuano le lezioni di morale di Antonio Labriola, e non conclude mai gli studi di giurisprudenza, a cui si era avviato), trova un approdo solido nel ripensamento personale dell’eredità romantica e germanica, ancora viva nella tradizione dell’hegelismo napoletano di Augusto Vera e Bertrando Spaventa. All’epopea risorgimentale e agli uomini della Destra storica Croce si rifarà anche in seguito, non solo per i legami familiari (nipote di Silvio Spaventa, viene accolto nella sua casa dopo la tragedia familiare del terremoto di Casamicciola del 1883, che lo lascia orfano dei genitori e di una sorella), ma anche per la profonda convinzione liberale, sia pure temperata da un conservatorismo di fondo.
Fin dal primo scritto teorico, La storia ricondotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), entra in polemica con il positivismo di Pasquale Villari, negando che la conoscenza storica sia mera conoscenza di fatti, e affermando il valore inventivo della immaginazione nella conoscenza dell’individuale. Ma è soprattutto nel capolavoro giovanile, L’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (edita nel 1902, ma che rielabora una precedente Memoria accademica del 1900) che Croce sistematizza la propria visione filosofica. Pur non ostile alle scienze naturali, ma critico semmai dello scientismo positivistico, egli è specialmente interessato a una fondazione delle scienze dello spirito, di cui sottolinea l’essenziale storicità e il carattere dialettico. Lo Spirito (sinonimo di mondo storico-culturale) è caratterizzato da unità nella distinzione. L’arte (intuizione del particolare), la filosofia (conoscenza dell’universale logico), l’economia (volizione del particolare) e la morale (volizione dell’universale) sono i momenti fondamentali dello Spirito. Tra loro non sussiste opposizione (interna se mai agli aspetti così distinti, astrattamente considerati: bello/brutto; vero/ falso; utile/disutile; buono/malvagio), ma reciproca autonomia e implicazione. Il momento che precede (l’arte rispetto alla filosofia, l’economia rispetto alla morale ecc.) è l’antecedente logico e la materia del momento successivo, ma ciascun momento vive anche separatamente dagli altri, considerato nella propria formalità e distinzione. In particolare, l’arte va riconosciuta nel proprio autonomo valore formale ed espressivo, e non subordinata a considerazioni di natura extraestetica o contenutistica. Analogamente l’economia (nella quale il giovane Croce fa rientrare anche il diritto e la politica) non va sottoposta ad astratte valutazioni moralistiche, ma riconosciuta nel proprio ruolo autonomo, integralmente “mondano” e immanentistico. Al completamento del proprio sistema Croce lavorerà intensamente nel primo decennio del secolo, con la pubblicazione dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (1905) e della Filosofia della pratica (1908).
In questa fase della propria attività, che trae particolare efficacia per un rinnovamento della cultura italiana dalla fondazione della rivista “La Critica” (1903), è decisivo il sodalizio con Giovanni Gentile, ben presto associato alla direzione della collana di Classici della filosofia moderna di Giovanni Laterza, l’editore delle opere di Croce. È Gentile a indirizzare Croce all’approfondimento della filosofia hegeliana (Saggio sullo Hegel, 1906), allontanandolo dall’herbartismo e dal marxismo di Labriola. Ma fin dalle origini vi sono profonde differenze tra i due capofila di quello che verrà presto battezzato come “neoidealismo ” italiano. Li divide il giudizio sul materialismo storico di Marx, al quale Croce negherà sempre valore filosofico, riducendolo a “canone storico” utile alla rilevazione del fattore economico nell’evoluzione delle società, mentre Gentile ne valorizza l’aspetto di “filosofia della storia” e ne ripensa (in chiave idealistica) il concetto di “prassi”. Ma li divide soprattutto la preparazione e l’attitudine filosofica di fondo: più speculativa e teologizzante quella di Gentile, più concreta e pragmatica quella di Croce. Quando Gentile inizia a elaborare un proprio sistema teoretico, cui pone il nome di “Attualismo”, Croce esprime le sue riserve, nei confronti di quello che gli pare un ritorno alla metafisica speculativa, che sacrifica l’esigenza della Distinzione, a scapito di un’accentuazione quasi “mistica” dell’Unità. Ma le riserve sfociano in aperto dissenso e si aggravano, per le diverse valutazioni di fronte alla guerra, prodromo delle divergenti opzioni politiche del dopoguerra.
Tra due guerre
Nominato senatore nel 1910, Croce attraversa senza scosse e con una fondamentale adesione, gli anni finali dell’età giolittiana, ma è profondamente turbato dalla crisi europea insorta con la guerra mondiale, di cui scruta (in uno spirito non dissimile da quello di altri intellettuali dell’epoca, come Julien Benda), le cause spirituali profonde, identificate nel nazionalismo e nel materialismo. Contrario all’ingresso in guerra dell’Italia, vi si sottomette da ultimo per fedeltà patriottica e monarchica, ma non cessa di manifestare le proprie perplessità e un atteggiamento più propenso alla tesi neutraliste, nelle Pagine sulla guerra, ripubblicate nel dopoguerra (1928). Entrato a far parte dell’ultimo governo Giolitti (1920) come ministro della Pubblica Istruzione, non può dare seguito all’ampia riforma della scuola, da lui progettata, a causa della crisi che ne segue e che porta in breve tempo all’instaurazione del governo di Mussolini. A differenza di Gentile, che si schiera apertamente con il fascismo, divenendone in breve giro di tempo uno dei maggiori ideologi, Croce manifesta da subito le proprie riserve, improntate alla rigida difesa dei principi della democrazia liberale. Dopo l’omicidio di Matteotti smette di frequentare l’aula del Senato e con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti (1925), che risponde polemicamente all’opposto Manifesto degli intellettuali fascisti, stilato da Gentile, diventa l’esponente culturale più in vista della opposizione al regime di Mussolini.
Già nell’opera scritta negli anni di guerra, e che riassume tutto il suo itinerario filosofico giovanile, Teoria e storia della storiografia (1917), Croce esprime il suo netto orientamento contrario alla filosofia intesa come speculazione pura (che gli sembra riaffiorare in Gentile) e riformula meglio la propria posizione, nei termini di uno “storicismo assoluto”. Non solo vi è circolarità di sviluppo tra filosofia e storia della filosofia (come affermato concordemente da Croce e Gentile nella prima fase), ma la filosofia deve diventare “metodologia della storia” e abbandonare ogni residuo di misticismo e di metafisica. In questo spirito, che Antonio Gramsci interpreterà come complementare e polemico nei confronti del marxismo, Croce si dedica, negli anni tra le due guerre, a un’imponente attività storiografica: Storia del Regno di Napoli (1925); Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928); Storia dell’età barocca in Italia (1929); Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). In queste opere (e specialmente nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa) si affaccia una parziale autocritica nei riguardi della giovanile battaglia neoidealistica, di cui si constata l’insufficienza a creare un solido baluardo “etico-politico”, contro le derive irrazionalistiche e materialistiche del fascismo e dell’imperialismo. Mentre ne esce confermata la tesi che interpreta la storia moderna come progresso “nell’idea di libertà” e viene confermato il suo fondamentale ottimismo, che concepisce la storia non come “trapasso dal male al bene, ma dal bene al meglio”.
Gli anni senili
La tendenza, in coerenza con la propria visione di fondo della storia, a considerare il fascismo come semplice “parentesi” (paragonabile all’irruzione improvvisa di elementi irrazionali e barbarici, come “l’invasione degli Hyksos” negli antichi imperi mesopotamici) in una vicenda di progresso – destinata a constatare una positiva eredità liberale, nel continuum della storia mondiale – gli verrà rimproverata come una ingenuità o come una voluta reticenza dalla cultura marxista, negli anni del secondo dopoguerra. Come pure la sua definizione di “liberalismo” come idea sovrastorica, che non si identifica con il “liberismo” (in quanto sua concreta traduzione economica), ma alla cui attuazione concorrono anzi sia i fautori che i detrattori, tanto i moderati quanto i rivoluzionari, parrà troppo “metafisica” agli stessi prosecutori ideali del suo storicismo, quali Federico Chabod. Tornato alla vita politica come presidente del Partito Liberale e ministro senza portafoglio nell’ultimo ministero Badoglio e nel primo ministero Bonomi (1944), la concluderà sostanzialmente con la partecipazione ai lavori dell’Assemblea Costituente e la conferma a senatore nella prima legislatura repubblicana).
Gli ultimi anni della vita di Croce (che si spegne a Napoli, nel 1952) sono caratterizzati da un progressivo isolamento, nel mutato clima della filosofia e della cultura italiana. Già negli anni culminanti della Resistenza, molti dei suoi allievi migliori, come lo storico Adolfo Omodeo, si orientano verso l’azionismo democratico. Ancora più polemici sono i rapporti con Guido Calogero, dal cui antifascismo lo separa non tanto il discepolato gentiliano, ma la scelta a favore del liberal-socialismo. La sua intransigenza liberale verrà sovente fraintesa come conservatorismo e la sua influenza sulla cultura italiana verrà presto oscurata da nuovi orientamenti filosofici: marxismo, esistenzialismo, neopositivismo. Tuttavia Croce non abbandona mai, anche negli anni senili, la sua lucida attività di pensiero.
Nel volume Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952) è accennata una revisione della sua interpretazione della dialettica, che ne accentua gli elementi oppositivi, sia pure risolti nella categoria del “vitale”, che riprende il giovanile concetto dell’Utile. Già nell’opera della maturità, La storia come pensiero e come azione (1938), che riprende con accenti nuovi i temi di Teoria e storia della storiografia, la dialettica spirituale non viene ridotta alla pacifica distinzione tra spirito teoretico e pratico, ma coinvolta in una dramma etico, in cui la storia si presenta giudicata due volte: come pensiero e come azione. E nelle sue tarde riflessioni il dramma si ripete, come opposizione tra la natura, o una “vitalità cruda e verde” irriducibile a spirito, e la volontà sempre reiterata dello spirito di negare in sé l’irrazionale, che come un’ombra sempre lo accompagna. Con ciò Croce ribadisce il proprio ruolo di testimone della contemporaneità, la sottomissione etica dell’individualità al tutto storico che solo è in grado di giustificarla.
La fortuna dell’Estetica crociana
Tra le opere di Croce, quella che ha avuto maggiore risonanza, non solo in ambito italiano, ma europeo (particolarmente nei paesi di lingua anglosassone e ispanica, meno in quelli di lingua tedesca e francese) è certamente l’Estetica. Radicata nella tradizione critica di De Sanctis e in quella storicistica di Vico, l’opera di Croce, che inaugura anche simbolicamente il Novecento, ha immediata risonanza nella cultura italiana, sia quella militante delle riviste fiorentine (dalla “Voce” a “Leonardo”), sia quella accademica, in cui si forma (dopo una breve resistenza) una diffusa corrente idealistica, che si rifà (non senza differenziazioni interne, anche vivacemente polemiche) ora a Croce, ora a Gentile. Più volte verrà rimproverato ai crociani di aver fossilizzato entro formule rigide il dettato dell’Estetica, e si contrapporrà lo spirito inquieto e perennemente aperto alle integrazioni e alle revisioni di Croce, a quello dogmatico dei seguaci. Il merito indiscutibile dell’estetica crociana sta nell’affermazione del valore autonomo dell’arte, irriducibile alle altre forme dello spirito, sia pratico sia teoretico. In quanto “intuizione del particolare”, essa costituisce una forma di conoscenza distinta dalla filosofia. In quanto espressione sorgiva (“aurorale”) del sentimento intimo dell’artista creatore, essa si identifica con il linguaggio, nel suo strato primordiale e universale. Altre tesi dell’estetica crociana – come la negazione del “bello naturale” o la sottovalutazione della “tecnica”, in quanto mezzo servile e ausiliario per la traduzione dell’“opera d’arte interna” in “opera d’arte esterna”, o la stessa distinzione di “poesia” e “non poesia”, di cui farà le spese il giudizio su Leopardi – appaiono più deboli, ma sono ampiamente motivate dalla reazione a una tradizione critica e stilistica legata alla distinzione in generi, al filologismo e alla retorica. Croce del resto torna più volte sulle proprie dottrine, precisandole e adattandole al concreto lavoro di critica e di poetica, in cui si rivela sovente maestro (indimenticato rimane il suo studio su Ariosto).