BENEDETTO D'ISERNIA
Le non molte notizie che abbiamo intorno a B. delineano il quadro di una esistenza vissuta all'ombra di Federico II e della sua politica. Nato a Isernia sullo scorcio del sec. XII, B. studia diritto a Bologna, dove, a quanto sembra, consegue il dottorato nel 1221, avendo per maestri Ugolino e Iacopo Baldovini, e dove ascolta Azzone e Bagarotto. Poco dopo la laurea viene chiamato da Federico nello Studio napoletano, appena aperto (1224). Dal 1231 affianca l'attività di professore a quella di consulente dei maestri giustizieri ed è egli stesso iudex magne imperialis curie nel 1223, a Sulmona, insieme a Enrico di Morra (v.). In un momento non definito, ma anteriore al 1234, è giudice della 'terra' di Aversa, secondo la sua stessa testimonianza (Olomouc, Statni okresni Archiv, C.O. 40, c. 164ra-b). Inoltre è presente nelle Curie generali di Melfi (agosto 1231) e Foggia (maggio 1240), collabora con la commissione che sta preparando il Liber Constitutionum e redige i successivi aggiornamenti. Nel 1232 è documentata la sua partecipazione, con Pier della Vigna, all'ambasceria che l'imperatore invia a Gregorio IX ad Anagni per trattare la delicata questione politico-diplomatica connessa con il problema costituito dalle turbolente città lombarde. Nel 1240 è di nuovo nel Regnum e chiede e ottiene da Federico la conferma dei privilegi del monastero di S. Maria d'Isernia.
Tra il 1241 e il 1250, per un numero d'anni non precisabile con certezza, soggiorna a S. Gimignano, che aveva da poco sposato la causa ghibellina, forse al seguito di Pandolfo di Fasanella (v.) e Federico di Antiochia (v.), rappresentanti dello Svevo in Toscana. Durante questa permanenza B. prosegue l'insegnamento, spiegando il Digestum Vetus nell'ambito di una schola che a lui faceva capo e dalla quale esce qualche giurista di rilievo, come Giovanni Fagioli. Quando, dopo la morte dell'imperatore, nel 1251 il vescovo di Arezzo occupa il centro toscano e ne scaccia la fazione filoimperiale, il professore meridionale è costretto a lasciare la sua sede e a tornare a Napoli, da dove, nel 1252, viene trasferito a Salerno con tutto lo Studio, per ordine di Corrado, a causa delle difficili condizioni politiche.
Per gli anni successivi manca ogni notizia ed è probabile che la morte sia seguita poco dopo.
L'elevata qualità intellettuale e la fama di B. hanno consentito la sopravvivenza di una cospicua mole di materiali esegetici, solo parzialmente noti e studiati dalla storiografia. Non tenteremo, dunque, in questa sede, la ricostruzione d'insieme di una ricca personalità scientifica, limitandoci a sottolineare alcuni aspetti che servono a collocarla nel quadro dei suoi rapporti con Federico II.
L'attività esplicativa del Corpus è documentata, in modo più o meno completo, intorno a quasi tutte le sue parti. Si conoscono glosse e lecturae sul DigestumVetus e sul Codex, che erano oggetto dell'insegnamento ordinario, ma non mancano brani riferibili a lezioni extraordinariae. In tutti i casi, il chiarimento è attuato con la puntuale spiegazione della legge o delle singole parole in essa contenute e, talvolta, è condotto attraverso l'esame della Glossa accursiana che l'accompagna.
A questo si affianca il metodo della trattazione monografica, in cui la materia è analizzata e sistemata per mezzo di summulae, composte di distinctiones o di raccolte di quaestiones. L'ampio uso di tali generi serve ad affrontare i problemi posti dalla molteplicità di fattispecie non espressamente previste dalla compilazione giustinianea. Ciò ha fatto ritenere che B. conduca un'operazione decisamente segnata dall'intento di "far servire alla pratica l'insegnamento del corpus iuris" (Meijers, 1924, p. XXXVI). A noi pare, invece, che il giurista rimanga sempre entro i confini, tracciati dai glossatori, di una visione onnicomprensiva e organica del Corpus. Per quanto è dato vedere, egli non si di-scosta dal tradizionale orientamento che vede i testi romani, complessivamente considerati, come esaustivi del mondo del diritto, utilizzabili dall'interprete per trarne i contenuti riposti e con essi regolare la realtà. La scarsa presenza di quaestiones de facto e di quaestiones statutorum è indicativa in tal senso e serve a differenziare B. da altri maestri contemporanei.
Il problema posto dalle legislazioni particolari non era eludibile e comunque anche B. vi dedica la sua attenzione nella Lectura composta a S. Gimignano. In verità, il dottore meridionale non si occupa del fondamento della consuetudo loci o della fonte da cui promana. La validità è data per presupposta, ciò di cui si discute sono i rapporti con lo ius commune.
Per B. non solo va applicata la consuetudine praeterlegem, ma anche quella contra legem. Pertanto, anche nel caso di manifesto contrasto col diritto romano, la consuetudine tollit legem e al giurista non è possibile rifiutare l'applicazione della disposizione locale. L'attività dell'interpretazione è dunque circoscritta allo ius commune, al tentativo di comporne le interne contraddizioni, rinunciando a ogni possibilità di raccordo tra esso e lo iusproprium.
Tali posizioni scaturiscono da una visione del rapporto tra il Corpus e le leggi particolari regolato da un sistema di fonti concorrenti, secondo l'idea che gli statutarii vogliono imporre ai doctores iuris e spesso impongono a iudices e advocati, più facilmente condizionabili per la natura 'pratica' dell'attività che esercitano. Non è dunque un caso che B. dichiari di far suo il parere di advocati quando accetta l'altra statuizione regolarmente presente nelle normative locali: il divieto di interpretazione dello statuto. Una concezione così riduttiva del ruolo dell'interprete farebbe supporre che il corso sangimignanese venga tenuto in un momento e in un luogo in cui assai forte è la capacità di pressione esercitata sui legumprofessores dalle istituzioni cittadine.
Nulla di tutto questo è, invece, ricavabile dalle notizie che possediamo sul centro toscano negli anni tra il 1240 e il 1250.
Il comune non è soggetto a un potere 'tirannico' o illegittimo, i podestà si alternano e si succedono regolarmente, la presenza nella zona dei rappresentanti del dominusmundi garantisce la fedeltà alla politica fridericiana e, al contempo, la correttezza dei magistrati locali.
Inoltre, nel 1245 Pandolfo di Fasanella impone l'inserimento nella raccolta statutaria di tutte le disposizioni imperiali, e, quattro anni dopo, Federico di Antiochia ordina che i podestà siano sciolti dall'osservanza delle norme cittadine che contrastano con gli interessi o gli ordini di Federico II.
Difficilmente potrebbero trovarsi condizioni più favorevoli perché l'esegeta del diritto romano ‒ che è diritto dell'Impero ‒ ne affermi la prevalenza sulle consuetudini, o, almeno, teorizzi l'interpretabilità degli Statuta alla luce dello iuscommune. In questo quadro, la posizione di B. sarebbe incomprensibile se non la riferissimo al modello fridericiano.
Nella città toscana il professore dello Studio di Napoli porta con sé l'esperienza maturata nei lunghi anni trascorsi a contatto con lo Svevo. Chi, come B., ha partecipato alla redazione o alla preparazione del Liber Constitutionum deve necessariamente riflettere nell'insegnamento idee assorbite ed elaborate nel corso di una vicenda tanto rilevante e significativa.
È innegabile che il maestro, a S. Gimignano, tenga presente la condizione giuridica della terra d'origine. Quando afferma che "consuetudini non possumus obviare" (ibid., p. 16) e ribadisce che la consuetudine tollit legem, lo fa con espresso riferimento alla realtà meridionale. La consuetudine che vince la legge è quella della prassi giudiziaria in uso nel Mezzogiorno e la deroga è operata dal diritto del Regno rispetto al diritto romano. È questo il modello che viene generalizzato, dilatandolo sino a comprendere la possibilità che anche lo statutum cittadino, in materie del tutto diverse da quelle regolate dalla consuetudine del Regno, possa prevalere sullo iuscommune.
Il modello, fatto proprio dal giurista, può essere trasferito nel comune toscano in forza della realtà in cui B. opera. Gli elementi che, a prima vista, sembravano doverlo portare ad affermare la prevalenza del diritto comune rispetto alla normativa particolare, lo inducono invece a discostarsi dagli altri dottori che su tale postulato ‒ in altri luoghi ‒ costruivano le proprie fortune politiche ed economiche. I ricordati provvedimenti di Pandolfo di Fasanella e Federico di Antiochia rendono gli statuti di S. Gimignano non dissimili dalle consuetudinesapprobatae del Regno che, secondo la graduazione della Puritatem, prevalgono sul diritto romano. Inoltre, neanche per B. tale prevalenza assume il significato di una svalutazione dello ius commune. L'effettiva dimensione che il giurista attribuisce all'operazione è chiarita dal divieto dell'interpretatioiudicis, che mostra come il ragionamento non investa tutto il diritto, ma si limiti alla sola fase processuale. Il legum doctor che ha collaborato all'attività normativa dell'imperatore non vuole e non può negare la forza costruttiva del diritto romano, ma accetta e condivide la preoccupazione di Federico che il giudice si trasformi in legislatore violando i principi giuridici e l'autorità della supremamaiestas.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 6 sin. 3; Olomouc, Statni okresni Archiv, C.O. 40. L. Pecori, Storia della terra di San Gimignano, Firenze 1853 (riprod. anast. Roma 1975); E.M. Meijers, Iuris interpretes saec. XIII, Neapoli 1924; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I-VIII, Firenze 1956-1968, s.v. San Gimignano; II, pp. 431, 492 n. 4; I. Walter, Benedetto d'Isernia, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 432-433; G. D'Amelio, Indagini sulla transazione nella dottrina intermedia, con un'appendice sulla scuola di Napoli, Milano 1972, pp. 147-149, 156; F. Martino, Una ignota lettura toscana di Benedetto d'Isernia, "Quaderni Catanesi di Studi Classici e Medievali", 7, 1985, nr. 14, pp. 433-445; Id., Federico II: il legislatore e gli interpreti, Milano 1988. G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, Frankfurt a.M. 1972, s.v.; Id., Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani, ivi 1985, s.v.