CRAXI, Benedetto detto Bettino
Nacque a Milano il 24 febbraio 1934 da Vittorio e Maria Ferrari.
Vittorio, originario di Messina, dopo la laurea in giurisprudenza, era emigrato nel capoluogo lombardo. Qui conobbe e sposò Maria Ferrari, una ragazza trasferitasi in città da un paese agricolo delle vicinanze, Sant'Angelo Lodigiano. Dopo Bettino, nacquero Antonio, nel 1936, e Rosilde, nel 1940. Iscritto alla scuola elementare del collegio Edmondo De Amicis di Cantù, il giovane Craxi visse in una famiglia da sempre impegnata in politica. Il padre aprì uno studio legale a Milano, prima in via Chiossetto, poi in via Podgora, e fu membro dell’esecutivo lombardo clandestino del Partito socialista di unità proletaria (PSIUP). L’attività politica militante dell’avvocato Vittorio era iniziata nel 1941. Per il suo studio passarono Sandro Pertini, Lelio Basso, Ferdinando Targetti, Corrado Bonfantini, comandante delle brigate Matteotti e protagonista dell'esperienza partigiana della zona libera dell'Ossola, ma anche antifascisti democristiani, come Galileo Vercesi e Luigi Meda. Dopo la guerra venne nominato viceprefetto, con Riccardo Lombardi prefetto e Antonio Greppi, altro socialista, sindaco.
Il passaggio dal momento eroico della Resistenza alla politica con i suoi confronti e scontri ideologici e anche i suoi intrighi fu vissuto da Bettino proprio attraverso le esperienze del padre. Il 6 febbraio 1946, Vittorio venne nominato prefetto di seconda classe a Como. Il suo impegno prevalente, anche in seguito, fu tuttavia speso a favore del partito. Dopo circa due anni, con la ripresa della lotta elettorale, partecipò per il PSI alle elezioni del 1948. Il figlio aderì con entusiasmo alla campagna elettorale. Le elezioni non andarono bene per Vittorio. Subito apparve chiaro che il PCI era riuscito ad approfittare dell’alleanza del fronte democratico popolare. Bettino comprese allora la volontà egemonica del PCI, ma seppe valutarne anche la superiorità come partito organizzato di massa.
Dopo aver frequentato il ginnasio e il liceo Carducci, a diciotto anni, Craxi si iscrisse quasi contemporaneamente alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano e al partito. Fu Gino Ottini, vecchio combattente socialista della guerra di Spagna e, poi, esule a Mosca, a spingerlo a iscriversi. Gli diedero la prima tessera, nel 1952, i compagni della sezione di Lambrate. Iniziò a far politica anche all’Università, dove fondò il nucleo universitario socialista ed entrò nel gruppo di Università nuova, aderente al Centro universitario democratico italiano (CUDI), organizzazione degli studenti di sinistra che partecipava all’attività dell'Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana (UNURI). A partire dalla metà degli anni Cinquanta, Craxi, impegnato intensamente nelle organizzazioni politiche universitarie, iniziò a viaggiare soprattutto nei Paesi dell’Europa dell’Est. In particolare, Praga divenne per lui un osservatorio per conoscere il mondo comunista. Ad aprirgli gli occhi fu Carlo Ripa di Meana, allora giovane funzionario comunista dell’Unione internazionale studenti (UIS). A Praga, oltre che con Ripa di Meana, strinse amicizia con Jiří Pelikan, presidente dell’UIS e figura emergente del comunismo critico cecoslovacco.
Craxi aderì, poi, all’Unione goliardica italiana (UGI), associazione di ispirazione liberal-democratica animata da giovani come Marco Pannella, Franco Roccella, Paolo Ungari e Lino Jannuzzi. Eletto consigliere nazionale dell’UGI nel 1956 a Perugia, entrò a far parte dei ‘sette prìncipi della goliardia’. Fu poi, fra 1958 e 1959, vicepresidente di Gianni Faustini nella giunta nazionale dell’UNURI, che avviò una significativa collaborazione con gli studenti cattolici dell’Intesa universitaria. Una coalizione tra comunisti, radicali e socialisti di sinistra lo mise tuttavia in minoranza al congresso dell’UNURI di Rimini nel 1960, inducendolo a tornare al lavoro di partito.
Un impegno costante per il PSI di Milano, Craxi aveva iniziato a fornirlo da tempo. Alla federazione di via Valpetrosa, all’angolo di piazza San Sepolcro, conobbe Guido Mazzali, il suo maestro. Figura di grande prestigio politico e autorevolezza nel partito nazionale, Mazzali era il capo riconosciuto degli ‘autonomisti’ milanesi. Padre della pubblicità italiana (suo fu lo slogan, inventato negli anni Trenta e popolare per decenni, «chi beve birra campa cent’anni»), grande giornalista e propagandista politico, Mazzali continuò a inventare slogans che avrebbero accompagnato la storia del Paese: «il vento del Nord» e l’«apertura a sinistra» furono fra questi. Deputato, segretario della federazione di Milano e direttore dell’Avanti!, Mazzali ebbe fra i suoi più stretti collaboratori Antonio Natali, altro dirigente che agevolò notevolmente la carriera del giovane Craxi.
Tra 1959 e 1960, dopo il congresso di Napoli, Mazzali e Giovanni Mosca decisero di dare a Craxi un posto nel partito. Venne così trasferito, come responsabile di zona, a Sesto San Giovanni, con uno stipendio di quarantamila lire al mese. La responsabilità di Craxi si sarebbe estesa, oltre che a Sesto, ad altri grandi comuni della cintura metropolitana, come Cormano, Cinisello Balsamo e Presso, terre d’immigrati, dove esplosero i fenomeni delle cosiddette «coree», i quartieri riempiti dai meridionali emigrati alla ricerca di un lavoro. Sesto, definita anche la ‘Stalingrado d’Italia’ per la forte presenza operaia comunista, si rivelò un territorio difficile per il giovane militante socialista, ma già anticomunista.
Nel 1960 Craxi sposò Anna Moncini, con la quale ebbe due figli: Stefania, nata il 25 ottobre dello stesso anno, e Vittorio, detto Bobo, nato il 6 agosto 1964.
Il primo momento politico di rilevanza nazionale a cui Craxi partecipò fu quello dell'amministrazione di centro-sinistra a Milano. Nel capoluogo lombardo, infatti, dopo aver superato non poche opposizioni soprattutto da parte della Confindustria e dei settori più conservatori del clero, si giunse al primo esperimento di quella formula politica. La nuova giunta diede subito un segnale importante, affidando l'esercizio delle linee metropolitane all'Azienda trasporti milanesi (ATM); fu così chiara l'opposizione alla Edison, importante società privata che fino a quel momento aveva controllato la rete. La scelta preannunciò la dura lotta che con la stessa società fu ingaggiata in occasione della nazionalizzazione elettrica (Milano, Archivio storico civico, Verbali di seduta del Consiglio comunale, 29 marzo, 5 aprile e 27 luglio 1961). Craxi fu assessore in quella giunta. Il sindaco, Gino Cassinis, venne considerato un efficiente gentiluomo prestato alla politica. Vicesindaco fu Luigi Meda, vecchio parlamentare, figlio di Filippo, fondatore a Milano del Partito popolare di don Luigi Sturzo. Da assessore Craxi iniziò a conoscere sia il potere, sia la macchina amministrativa. Fu prima all’Economato e poi all’Assistenza. La forza raggiunta, sia in città come amministratore, sia nel controllo del PSI milanese, divenne palese nel maggio 1968, quando fu eletto deputato nel collegio Milano-Pavia, risultando secondo nelle preferenze solo a Pietro Nenni, accanto al quale era schierato nella geografia interna del partito.
Il suo quartier generale a Roma fu l’Hotel Raphael, a due passi da piazza Navona, proprietà dell’amico Spartaco Vannoni, uscito dal PCI ai tempi dell’invasione dell’Ungheria insieme a Eugenio Reale, del quale era stato collaboratore a Varsavia. L’amico più caro divenne Rino Formica, ex sindaco di Bari, senatore di prima nomina. Craxi e Formica formarono il primo nucleo del craxismo romano. A loro, di tanto in tanto, si aggiungeva Lelio Lagorio, di origine fiorentina e primo presidente della Regione Toscana dal 1970 al 1978. Craxi non perse comunque i contatti con il gruppo milanese. Per qualche tempo conservò le sue cariche nella federazione di Milano, poi instaurò la cadenza di un incontro settimanale con gli esponenti a lui più vicini.
Durante i primi anni Settanta, Craxi maturò una nuova idea dell'autonomismo, che trovò sensibili molti giovani esponenti presenti sul piano locale. L’autonomismo di Craxi – vale a dire l’autonomia dal PCI, ma anche dalla DC – se in qualche modo confermava un atteggiamento che il leader milanese aveva sempre avuto, iniziava a essere rappresentativo anche di un nuovo modo di sentire dell’intero partito. In fondo, già prima del comitato centrale svoltosi all'hotel Midas di Roma nel luglio 1976 in cui Craxi divenne segretario del PSI, esisteva una classe dirigente, di nuova generazione, che avvertiva la necessità di una svolta. Le esperienze vissute a livello locale, a partire dalla metà degli anni Sessanta, di formare giunte sia con il PCI che con la DC avevano fornito l’esempio di come il PSI potesse utilizzare anche nel governo centrale una maggiore libertà di manovra.
Le elezioni politiche del 1976 portarono il PSI a una svolta generazionale. Il forte calo mise in discussione la segreteria di Francesco De Martino. Alla vigilia del comitato centrale di luglio, era questa l’immagine fornita da Giampaolo Pansa: «Un partito vecchio come politica, e vecchio per il suo modo di stare nella società e nell’area della sinistra. Federazioni lottizzate fra le correnti e paralizzate nella lotta fra le correnti, dove il principale lavoro politico dei dirigenti diventa quello di sorvegliarsi l’un l’altro e di ‘marcarsi’ a vicenda. Sezioni degradate a terminali clientelari di questo o di quel ‘big’. Il dominio dei ‘signori delle tessere’ che esige, come corrispettivo, un corpo di militanti ridotti a ‘yes-men’, ‘militanti-signorsì’. Una struttura chiusa, fatta solo per respingere quasi tutte le offerte di aiuto, intellettuale e anche di impegno, che possano venire dall’area socialista» (Corriere della Sera, 13 luglio 1976). Sulle correnti, qualche tempo prima, era stato molto radicale lo stesso Craxi. «La degenerazione dell'organizzazione delle correnti», disse, aveva assunto aspetti intollerabili. Si trattava di partiti dentro il partito, «in più casi privi di ogni giustificazione politica», di una frantumazione che serviva interessi di gruppo, carriere personali, retti «da procedure di fatto illegali, dispotiche, corruttrici». Insomma, le correnti non sembravano ormai motivate da ragioni politiche, ma divise da ragioni «di ben altra origine» (Milano, Archivio Fondazione Craxi, sez. I, s. 1, scat. 1, f. UA2). Al Midas tutti si ritrovarono quindi sulla necessità di passare a una terza fase dell’autonomismo. Di quell'avviso furono sia gli ‘autonomisti’, sia i ‘lombardiani’. Ma furono anche i ‘demartiniani’ a cambiare le proprie posizioni e a modificare l’assetto del partito. Pertanto, il 16 luglio 1976 Craxi fu eletto segretario nel contesto di nuovi equilibri.
Tra il 16 marzo e il 27 agosto 1978, il rapimento di Aldo Moro e la condotta politica del PSI a favore di una trattativa, l’elezione a presidente della Repubblica di Sandro Pertini e la riproposizione del socialismo liberale con uno scritto pubblicato da L'Espresso in risposta a una intervista a Enrico Berlinguer, che giudicava positivamente la figura di Lenin, proiettarono la figura di Craxi tra i massimi leader della politica nazionale. Da quel momento il segretario socialista rafforzò sia il controllo sul partito, sia l'autonomismo nei confronti della DC e del PCI. La fine di ogni possibilità di un ritorno a governi che potessero vedere insieme il PCI e la DC nella maggioranza e le nuove condizioni internazionali che sconsigliavano sempre più tale possibilità, favorirono il riavvicinamento tra PSI e DC.
A quel punto, aumentarono per Craxi le possibilità di diventare presidente del Consiglio. Dopo le elezioni del giugno 1983, il 21 luglio, ebbe l’incarico. Il 4 agosto presentò al presidente della Repubblica Pertini la lista dei ministri che vedeva la presenza di Giulio Andreotti agli Affari esteri e Arnaldo Forlani alla vicepresidenza. Oscar Luigi Scalfaro era all'Interno, Bruno Visentini alle Finanze, Giovanni Spadolini alla Difesa, mentre Giuliano Amato ricopriva la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Tuttavia, il governo, presentato alla Camera il 9 agosto, nasceva soprattutto grazie a una forte alleanza tra Craxi e Andreotti.
Nei primi tre mesi il presidente del Consiglio si dedicò alla politica estera. Appena nominato, Craxi trovò sul suo tavolo la delicata questione degli euromissili, che, dopo lunghi negoziati, andavano ormai installati. Nonostante le pressioni e le preoccupazioni americane, Craxi promise che si sarebbe trattato «per tutto il tempo necessario». Alla fine cercò un buon canale di comunicazione con gli Stati Uniti per trovare una soluzione che tenesse conto della complessa posizione italiana. Fu Jurij Andropov, segretario generale del PCUS e presidente del Presidium del Soviet supremo dell'URSS, a compiere un passo direttamente con Craxi. Gli era infatti parso d’intravedere una divergenza tra gli italiani e gli americani su modi, tempi e contenuti delle trattative Est-Ovest e, in fondo, aveva ragione. I primi Cruise arrivarono comunque in Italia.
L'attività del governo fu intensa soprattutto nei primi due anni. Nei primi mesi del 1984 si verificò un conflitto tra il ministero, la componente comunista della CGIL e il PCI sulla contingenza. Dopo lunghe trattative con le parti sociali per le misure antinflazionistiche, si giunse soltanto a un accordo parziale. Lo scontro fu particolarmente duro sulla riduzione di tre punti della scala mobile. Il Consiglio dei ministri varò un decreto-legge in base al quale alla fine di febbraio i lavoratori avrebbero dovuto rinunciare a un parziale aumento della contingenza, e, a fine maggio, a un altro scatto. Dopo quasi un mese di battaglie procedurali, di scontri e di ostruzionismo comunista, il Senato, il 23 marzo, rinnovò la fiducia al governo Craxi e contemporaneamente approvò il decreto sulla scala mobile che passava così alla Camera per il voto definitivo. Il giorno dopo si svolse a Roma una delle più importanti manifestazioni operaie del secondo dopoguerra. In base ai dati della Questura, la CGIL e il PCI riuscirono a portare in piazza 500 mila persone, secondo la stessa CGIL un milione.
La questione del costo del lavoro mise parzialmente in ombra un altro provvedimento approvato in quegli stessi giorni. Il 18 febbraio fu firmato il nuovo Concordato fra lo Stato e la Chiesa cattolica. Almeno da un punto di vista formale (nella sostanza molti dei cambiamenti erano già avvenuti in pratica, o erano stati imposti da pronunciamenti della Corte costituzionale, o da leggi di riforma varate negli ultimi anni), la portata delle novità contenute nel nuovo testo erano importanti. Vi si prendeva atto formalmente della caduta del principio della religione cattolica «come sola religione dello Stato italiano» (Accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, Protocollo addizionale, 1984, http://www.governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/accordo_indice.html#2, 24 dicembre 2014). Lo Stato rinunziava a ogni residua pretesa di controllo politico o amministrativo della vita interna alla Chiesa: non chiedeva più il giuramento dei vescovi, non esigeva più che le nomine episcopali gli venissero prenotificate. La Chiesa rinunciava a pretendere dallo Stato prestazioni da ‘braccio secolare’. Accettava che l’insegnamento religioso nelle scuole venisse impartito soltanto a chi ne faceva richiesta. Non si opponeva alla nuova disciplina degli enti ecclesiastici, che avrebbe sottoposto al regime fiscale ordinario le loro attività non riconducibili a «finalità di culto o di religione» (ibid.). Non avrebbe obiettato alla decisione dello Stato di considerare la sue sentenze di nullità matrimoniale alla stregua di quelle emesse da un qualsiasi Stato estero.
Tra il 1984 e il 1985 vi fu poi una battaglia politica intorno alla riforma fiscale promossa dal ministro Visentini, che mirava a colpire l’evasione fiscale delle piccole imprese, nel settore della distribuzione e dell’artigianato. Furono stabiliti dei coefficienti determinati, il criterio delle valutazioni induttive, l’obbligo della registrazione contabile. «Fino ad alcuni anni fa – scrisse Eugenio Scalfari – le imposte in questo Paese si pagavano soltanto su una modesta frazione del reddito guadagnato. Ciò era vero per tutti i gruppi sociali e per tutte le categorie professionali. Evadevano gli imprenditori, i proprietari di immobili e di terreni, i commercianti, i professionisti e anche i lavoratori dipendenti» (I difficili destini del nodo Visentini, in la Repubblica, 11 novembre 1984). Con l’introduzione della ritenuta d’acconto, introdotta proprio da Visentini, i lavoratori dipendenti erano stati il primo gruppo sociale a sopportare un carico fiscale proporzionale alle entrate. «Il Fisco – continuava Scalfari –, ovviamente non è un meccanismo astratto e impersonale. Il Fisco è parte di un sistema politico, agito da forze politiche. Nell’Italia di questi anni, il Fisco ha colpito categorie sindacalmente forti ma politicamente deboli ed ha protetto categorie policamente fortissime, esentandole di fatto dall’adempimento del dovere tributario» (ibid.). Per cui, in quei mesi il governo Craxi dovette subire l’urto di forti gruppi d’interessi. Alla fine, il decreto-legge Visentini sull’iva e sull’irpef fu approvato e «un passo avanti» fu compiuto verso «una maggiore equità fiscale e sociale» (ibid.).
Il 16 ottobre 1984 tre pretori di Torino, Roma e Pescara oscurarono gli schermi Fininvest di Silvio Berlusconi. La legge non consentiva infatti alle reti private di trasmettere su scala nazionale. Berlusconi aveva aggirato il provvedimento, registrando il palinsesto e spedendo i nastri alle tv locali. A quel punto ci fu l'intervento di Craxi. Il 20 ottobre il Consiglio dei ministri approvò il decreto sulle tv private che legalizzò in via provvisoria l'interconnessione funzionale, cioè l'invio alle tv locali del palinsesto Fininvest. Il Parlamento non approvò, tuttavia, il decreto. Dopo il rischio corso di un nuovo oscuramento da parte dei pretori e un nuovo intervento di Craxi, che in modo molto duro trasmise un comunicato contrario in tal senso, si giunse a un accordo con la sinistra democristiana e il PCI. Un nuovo decreto aumentò i poteri del direttore generale della RAI – allora Biagio Agnes, vicino a Ciriaco De Mita – e assegnò il telegiornale e la direzione della terza rete RAI ai comunisti, oltre a legalizzare le modalità attuate dalle tv private. Il decreto fu convertito in legge il 4 febbraio 1985.
Nell'agosto dello stesso anno venne poi approvata la legge proposta dal sottosegretario repubblicano Giuseppe Galasso, che introdusse a livello normativo una serie di tutele sui beni paesaggistici e ambientali. In particolare, la legge Galasso si preoccupò di classificare le bellezze naturalistiche in base alle loro caratteristiche peculiari suddividendole per classi morfologiche. L'azione di tutela all'interno delle aree individuate di fatto non escluse l'attività edificatoria, ma le sottopose all'approvazione degli enti preposti alla tutela, nonché al ministero dei Beni culturali e ambientali.
Lunedì 7 ottobre 1985 iniziava la vicenda dell'«Achille Lauro», una turbonave da crociera italiana posta sotto sequestro da un gruppo terroristico al largo del tratto di mare tra Alessandria e Porto Said. Su richiesta del governo italiano, scattava un piano di emergenza in Egitto: veniva costituito un centro operativo a Porto Said, sotto la responsabilità diretta del primo ministro Ali Lutfi e sotto il controllo dello stesso presidente Hosni Mubarak. Nel frattempo, da Tunisi, l’OLP dichiarava la sua totale estraneità e si dissociava dal dirottamento, condannandolo come atto di sabotaggio agli sforzi di pace. Di lì a poco, le agenzie diffondevano la dura riprovazione del governo siriano e anche di alcuni gruppi e frazioni della dissidenza palestinese. Considerata l’analoga condanna espressa dai paesi arabi, il governo aveva così ottenuto l’assoluto isolamento politico dei terroristi. Nel frattempo, però, si diffusero notizie gravi, anche se incontrollate, circa l'assassinio di due cittadini americani. L'ambasciatore Maxwell Rabb informò Craxi della decisione di avviare un’azione militare e chiese che gli Stati Uniti potessero compierla da soli. Craxi osservò, allora, «che la nave era una nave italiana» e lo informò «che il Governo italiano aveva sin dal primo momento considerato la possibilità di un intervento militare in caso di assoluta necessità, e che allo scopo aveva già predisposto gli uomini ed i mezzi» (Craxi, 2007, p. 323). Il governo egiziano manifestò la sua massima disponibilità a esercitare ogni utile e possibile influenza. Da parte italiana, si convenne su una linea pragmatica di approccio con i dirottatori che evitasse inutili tragedie. Il governo veniva poi informato da Yasser Arafat che il rilascio della nave con tutti i passeggeri sani e salvi sarebbe avvenuto senza alcuna contropartita. Successivamente però si apprese dell'assassinio del cittadino americano disabile di religione ebraica Leon Klinghoffer, ucciso e gettato fuori bordo.
Il 10 ottobre si seppe che aerei militari americani avevano intercettato un aereo civile egiziano, sul quale il governo degli Stati Uniti riteneva vi fossero i quattro palestinesi responsabili del dirottamento. Si consentiva, quindi, l'atterraggio a Sigonella. Appena atterrato, il boeing egiziano fu posto sotto il controllo di cinquanta militari italiani. Dai C 141 discesero altrettanti soldati americani in assetto di guerra che circondarono a loro volta i militari italiani. Gli statunitensi avevano l’ordine di «prelevare i terroristi». Si infittirono a quel punto i contatti diplomatici. Il segretario di Stato George Shultz parlò con il ministro degli Affati esteri Andreotti, mentre il segretario della Difesa Caspar Weinberger sentì il suo corrispettivo Spadolini. Alcune ore dopo, nel corso della notte, lo stesso presidente Ronald Reagan telefonò a Craxi prospettandogli la volontà di trasferire sul territorio americano gli assassini di Klinghoffer. Craxi, oppose la tesi che i reati, essendo stati commessi in acque internazionali su una nave italiana, «dovevano essere configurati come atti criminosi perpetrati in territorio italiano» (ibid., p. 327). Alla richiesta del presidente Reagan di arrestare i due dirigenti palestinesi segnalati a bordo del medesimo aereo, Craxi rispose che erano necessari degli accertamenti. Subito dopo ordinò che i quattro dirottatori fossero presi in custodia, mentre i due dirigenti palestinesi avrebbero dovuto essere trattenuti solo come testimoni, per poter acquisire elementi utili al procedimento giudiziario sul dirottamento dell'«Achille Lauro». Il governo egiziano compiva quindi un passo ufficiale per il rilascio immediato dell’aereo con tutti i suoi passeggeri, a esclusione dei responsabili del dirottamento. Terminata la procedura di identificazione dei terroristi, il procuratore della Repubblica di Siracusa ritenne esaurite le esigenze della magistratura e dichiarò che l’aereo era libero di lasciare Sigonella. Da quel momento veniva a mancare la necessaria base legale per trattenere ulteriormente il velivolo dell’Egypt Air e i suoi passeggeri, a eccezione dei terroristi già assicurati alla custodia italiana. Di fronte alla richiesta americana di arrestare anche Muhammad Zaydan, noto con il nome di battaglia di ‘Abu Abbas’, leader del Fronte di liberazione della Palestina (FLP) coinvolto nell'organizzazione del dirottamento, il governo italiano oppose un netto rifiuto.
In occasione del dibattito sulla fiducia al governo, Craxi affrontò i temi di politica internazionale connessi al processo di pace nel Medio Oriente nel quadro dei principi e degli obiettivi generali della politica estera italiana, affermando in particolare la legittimità della lotta per l’indipendenza nazionale palestinese e la necessità della restituzione, da parte dello Stato di Israele, dei territori occupati nei precedenti conflitti. La vicenda dell’«Achille Lauro», come i discorsi pronunziati nel novembre 1985, ribadirono i capisaldi della politica estera craxiana: «lealtà atlantica, ma vissuta senza complessi di inferiorità, europeismo fermo e risoluto, politica mediterranea e, in particolare, intervento nella crisi mediorientale, cooperazione per lo sviluppo» (Di Nolfo, 2003, p. 11). Questi aspetti furono sempre accompagnati da una forte percezione dell’identità nazionale che si distaccava decisamente non solo dalla tradizionale politica estera seguita dai socialisti, ma soprattutto da una visione anticapitalistica dell’internazionalismo. Nei discorsi pronunciati alla Camera, Craxi riprese i temi della presenza mediterranea dell’Italia e dei rapporti con gli Stati Uniti per chiarire i limiti entro i quali la reciproca solidarietà era definita. La crisi dell’«Achille Lauro» mostrò, in particolare, la sua concezione dei rapporti con la potenza egemone. Vi era «un indirizzo chiaramente occidentale nelle cose che contano, nelle scelte da non rinviare – come quella a favore degli euromissili –, nei confini precisi fra occidente e oriente», ma anche il rifiuto di una «imbelle passività americana» nel Mediterraneo (Milano, Archivio Fondazione Craxi, sez. I, s. 9, scat. 2,f. UA40).
Un simile rapporto con gli Stati Uniti venne confermato dalle vicende della primavera dell’anno successivo. Nell’aprile 1986, gli americani arrivarono quasi a una guerra con la Libia. In particolare, organizzarono il 15 aprile un bombardamento che aveva come intento quello di eliminare Mu'ammar Gheddafi o di rovesciarne il regime. A questa azione si giunse dopo gli attentati su un aereo TWA in volo il 2 aprile da Roma ad Atene e dopo lo scoppio di una bomba in una discoteca di Berlino. La CIA accertò la matrice libica delle stragi. L’azione americana fu preceduta da una richiesta nei confronti degli alleati europei, compresa l’Italia, di poter usufruire delle basi per gli aerei da utilizzare nell’attacco. Pur avendo un buon rapporto personale con Reagan, Craxi non gli concesse l'uso delle basi; da qui l’ostilità di una parte dell’amministrazione repubblicana nei suoi confronti. Anche in quell'occasione fu soprattutto il consigliere per la Sicurezza nazionale John Poindexter a spingere per un intervento drastico, lo stesso che in occasione della vicenda dell’«Achille Lauro» avrebbe voluto un intervento militare americano. A proposito di quell’intervento, lo stesso 15 aprile, Craxi chiarì in Parlamento la sua posizione di totale disaccordo nei confronti dell’iniziativa statunitense. A suo avviso, tali azioni militari, «lungi dal debellare il terrorismo internazionale», rischiavano «di provocare l’ulteriore esplosione del fanatismo, degli estremismi, delle azioni criminali e suicide» (Craxi, 2006, p. 67). Craxi lamentò, inoltre, la noncuranza mostrata dal governo americano nei confronti sia della posizione contraria assunta dall’Europa, sia del «valore della partnership euro-americana di fronte alle grandi questioni» (ibid., p. 69).
Con la fine del 1985, terminò la fase propositiva del governo presieduto da Craxi. A partire dal nuovo anno, gli equilibri interni alla coalizione mutarono, e con essi aumentarono le pressioni e le resistenze, alla ricerca di una nuova distribuzione delle cariche e delle risorse politiche. In particolare, mutò il peso della DC nella coalizione di pentapartito e mutarono i rapporti di forza interni allo stesso partito di maggioranza. La presidenza Craxi era stata possibile in un momento di debolezza della DC, trovatasi in difficoltà nei confronti del suo stesso elettorato. La nomina a segretario di De Mita, avvenuta nel maggio 1982, non produsse immediatamente una svolta: ci vollero più di tre anni affinché si giungesse a nuovi assetti di potere. La forza ormai acquisita dal segretario, tra la fine del 1985 e i primi mesi del nuovo anno, e definitivamente sancita dal congresso del maggio 1986, consentì, di fatto, ai democristiani di aspirare nuovamente alla guida del governo. Da quel momento si aprì una lotta tra il segretario della DC e il segretario del PSI che avrebbe logorato ed esaurito la ragioni che avevano permesso la permanenza del leader socialista alla presidenza del Consiglio fino a quel momento. La crisi definitiva giunse solamente nel marzo del 1987, ma i primi sintomi iniziarono ad avvertirsi già nella primavera del 1986, con il dibattito sull’alternanza a Palazzo Chigi tra DC e PSI, e in occasione della messa in minoranza del governo nella votazione alla Camera sulla legge di finanza locale con l’apporto di un numero consistente di franchi tiratori. Dopo l’inevitabile crisi di governo e la formazione del secondo governo Craxi, varato il 1° agosto 1986, continuarono i contrasti. Si arrivò così alla crisi definitiva e allo scioglimento delle Camere.
Un punto sul quale Craxi riuscì ancora a incidere fu quello della governabilità. A parte le riforme sui regolamenti parlamentari, la modifica più rilevante fu la soppressione del voto per scrutinio segreto, sostituito dal voto palese. Su quel tema, Craxi era già intervenuto nella VIII legislatura, quando, il 24 ottobre 1980, aveva definito urgente l'abolizione del voto segreto in occasione del dibattito parlamentare sul primo governo Forlani. Ribadì le sue posizioni nel corso della discussione sulla fiducia, il 20 aprile 1988. L'abolizione fu approvata a scrutinio segreto alla Camera nella seduta del 13 ottobre 1988 con 323 voti a favore, appena sette voti più del quorum necessario.
Il quarantaquattresimo congresso del PSI svoltosi a Rimini dal 31 marzo al 5 aprile 1987 confermò Craxi segretario con il 93,25% dei voti. Fu un'autentica acclamazione, accompagnata da un culto del capo ormai inarrestabile, da un «'bettinismo' – scrisse Massimo L. Salvadori – di stile plebiscitario [...] diventato una caratteristica largamente presente nel partito socialista» (Alla corte di re Craxi, in La Stampa, 4 aprile 1987). La scenografia di quel congresso amplificò tale immagine. Sui contenuti si confrontarono i ministerialisti, favorevoli al proseguimento dell'alleanza con la DC, e i movimentisti, fautori di un maggiore collegamento con la società civile. Si manifestò inoltre la sinistra di Claudio Signorile, favorevole a un dialogo con il PCI. Craxi si schierò con i primi. Anche il congresso milanese del maggio 1989 confermò una scenografia spettacolare. Nei capannoni dell'ex Ansaldo furono costruite due piramidi, ricoperte di schermi televisivi. L'allestimento dell'iniziativa fu quasi l'argomento principale dei commenti. Il congresso sembrò un'occasione autocelebrativa, quasi un pretesto per procurarsi pubblicità grazie alla stampa e alla televisione. Nei fatti, in quei giorni si giunse a un accordo con Andreotti e Forlani in previsione del prossimo governo e dell'elezione del presidente della Repubblica.
Due anni dopo, l'appuntamento con il referendum promosso dal democristiano Mario Segni, primo firmatario del ‘manifesto dei 31’ che raccoglieva trasversalmente esponenti del mondo economico e sindacale, della cultura e della politica, allo scopo di abrogare le preferenze plurime nella legge elettorale proporzionale allora vigente, si rivelò una forte sconfitta per Craxi. Di fatto, la consultazione divenne per gli italiani un'occasione per contestare lo strapotere dei partiti. Il leader socialista sottovalutò un tale sentimento e spinse per l'astensione. Perse la scommessa, in quanto il 9 giugno 1991 al voto si recarono il 62,5% degli aventi diritto con una percentuale di favorevoli del 95,6%. Il risultato fu letto dai commentatori come una vera e propria sconfitta di Craxi, costretto ad ammettere che in democrazia valeva la regola della maggioranza. Tuttavia, sia Signorile che il suo delfino Claudio Martelli avvertirono che nell'opinione pubblica qualcosa era cambiato. Il dissenso del primo si confermò al congresso straordinario di Bari svoltosi alla fine di giugno 1991, dove gli interventi di entrambi furono applauditi. Ai suoi oppositori interni Craxi concesse il rilancio della prospettiva dell'‘unità socialista’, che si sarebbe dovuta concretizzare al congresso del 1992, appuntamento destinato a sfumare.
In realtà, a partire dal 1987, pur di fronte agli innegabili successi ottenuti dal proprio leader, nel PSI iniziarono a manifestarsi alcune preoccupazioni relative proprio allo stato e al futuro del partito. Si aveva la sensazione che la carica acquisita a partire dal 1976 si fosse progressivamente affievolita. Allarmava, in particolar modo, il divario tra la popolarità di Craxi e quella del partito socialista. C’era chi vedeva il pericolo delle clientele e del voto di scambio e chi rilanciava il modello del partito aperto, «strutturato a rete, ricco di nuclei aziendali, di club, di associazioni professionali» (L. Pellicani, Il ruolo del Psi, in Mondoperaio, marzo 1987). Nell’insieme, il partito appariva svuotato e, sicuramente, inadeguato rispetto alle ambizioni di Craxi. «Il partito – secondo Giusi La Ganga – in quegli anni era cambiato sul piano generazionale e su quello comportamentale» (intervista dell’autore a La Ganga, Torino, 11 settembre 2006). Per Martelli, invece, «il PSI era cambiato molto già prima della segreteria Craxi. Anche se, la lunga coabitazione con la DC durante gli anni di governo ne accentuò la tendenza ministerialista» (intervista dell’autore a Martelli, Roma, 13 giugno 2006). Secondo Valdo Spini, il problema divenne quello di non essere riusciti ad adeguare il partito alle nuove realtà. Craxi, insomma, lo aveva portato a essere un partito «leaderistico», non riuscendo poi a trasformare la struttura centrale e periferica, che si sarebbe dovuta poggiare maggiormente sulla rappresentatività di deputati e senatori. Craxi privilegiò, in qualche modo, coloro che partendo dal partito erano riusciti a conquistarsi posizioni di potere (enti, unità sanitarie locali, ospedali), pensando di giovarsi delle divisioni periferiche. Alla trasformazione strutturale corrispose, infine, anche una trasformazione culturale. Cambiarono il vissuto e la pratica del partito (intervista dell’autore a Spini, Roma, 7 giugno 2006). Un cambiamento, a partire dalla fine del governo, si determinò anche nella politica. Craxi apparve nell’azione meno dinamico rispetto agli anni precedenti. E anche il partito sembrò sedersi in uno stato di attesa. Il PSI che fin dal 1979 aveva sottolineato la necessità di una grande riforma in contrapposizione alla DC andreottiana, che forse più di qualunque altra aveva dimostrato resistenze al cambiamento, dal 1989 in poi stabilì un’alleanza organica proprio con Andreotti, Forlani e Antonio Gava. All’interno della stessa DC, in particolare per iniziativa di Segni, accadeva invece che ci si concentrasse nuovamente proprio su quei temi istituzionali ed elettorali che Craxi, per primo, aveva sottolineato come necessari per la modernizzazione del Paese. Al contrario, il leader socialista abbandonò quasi tutti quei temi, tranne l'obiettivo dell’elezione diretta del capo dello Stato, che però apparve sempre più funzionale a un’operazione di potere personale.
Le dinamiche che si misero in moto a partire dai primi mesi del 1992 andarono ben oltre i termini di un'inchiesta giudiziaria. Se infatti furono soprattutto le indagini condotte dalla procura del tribunale di Milano a innescare un’azione che avrebbe portato alla scomparsa di gran parte dei partiti che avevano governato il Paese dalla fine della seconda guerra mondiale, fu il clima culturale e politico, che grazie a quelle inchieste prese forza, a delegittimare e abbattere un’intera classe politica. La cronaca e il commento degli avvenimenti, condotto in una progressione serrata dai mass media, andò ad alimentare e a rivelare vieppiù quel dissenso già operante all’interno di sempre più ampi settori dell’opinione pubblica. I circuiti comunicativi propri delle élites intellettuali finirono per associarsi a molti filoni della cultura politica di ampi strati della piccola e media borghesia e del ceto operaio, sia orientati a sinistra sia attratti da una crescente nebulosa di destra dai caratteri vecchi (post e afascisti) e nuovi (leghisti, e di lì a poco forzisti). La «questione morale», da tema dominante di alcuni gruppi di intellettuali e politici, divenne riferimento per una condanna prodotta da più ampi settori della società civile, e rilanciata da un processo massmediatico messo in moto attraverso giornali di diverse tendenze politiche e trasmissioni televisive dei canali sia pubblici che privati appartenenti all'universo Fininvest. In particolare, accanto a L'Indipendente diretto da Vittorio Feltri, il quotidiano la Repubblica divenne un riferimento costante per quei tanti che ritennero necessaria una moralizzazione del sistema politico italiano.
Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente socialista del più grande istituto assistenziale per anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio, venne arrestato dai carabinieri del nucleo operativo con l’accusa di concussione. La notizia apparve sui giornali il giorno dopo. Chiesa fu presentato come vicino a Bobo Craxi, segretario cittadino del PSI, e come esponente, in passato, della corrente del popolare ex sindaco socialista – allora ministro – Carlo Tognoli. Il giornale di Scalfari subito sembrò insistere sul fatto che si trattasse di un politico legato all'entourage craxiano. E subito si sottolinearono le reazioni dei socialisti milanesi tendenti a separare l’immagine di Chiesa da quella dell’intero partito. L'episodio fu anche immediatamente contestualizzato in una cornice narrativa – ‘l’Italia degli scandali’ – che rimandava ad abitudini operanti da tempo e da tempo condannate dal giornale. Era come se la notizia stessa finisse per confermare quanto già si sapeva.
Nei primi giorni di marzo la Repubblica informava che l’inchiesta condotta dai magistrati milanesi si stava «allargando». I titoli e i termini adoperati mettevano il lettore in una condizione di aspettativa. I fatti sembravano succedersi secondo una progressione serrata e inevitabile. «A trenta giorni dalle elezioni – si scriveva –, l’inchiesta esplosa dopo l’arresto di Mario Chiesa, il presidente della Baggina con conti correnti da miliardario, sta facendo salire la febbre in città: i politici temono nuove comunicazioni giudiziarie, gli avvocati annunciano querele e smentite, i carabinieri del nucleo operativo continuano, com’è successo ieri pomeriggio, nuove perquisizioni e acquisizioni di documenti» (P. Colaprico - L. Fazzo, Diciotto anni di tangenti nel mirino dei magistrati, in la Repubblica, 6 marzo 1992). Antonio Di Pietro, il magistrato descritto come il vero e principale protagonista dell’inchiesta, «secondo indiscrezioni, stava radiografando diciotto anni di tangenti» (ibid.). Si individuavano «nuovi accusatori»: molti imprenditori avevano cominciato a presentarsi spontaneamente, mentre altri erano stati chiamati dai magistrati «messi da qualche informatore sulla pista giusta» (ibid.).
Intanto, il 5 e 6 aprile 1992 si svolsero le elezioni politiche. Rispetto alle consultazioni del 1987, la DC perse il 5,4% dei voti, raggiungendo il 28,9% e 202 seggi alla Camera contro i 234 della volta precedente. Il PSI perse l’1%, ottenendo il 13,3%. Il Partito democratico della sinistra (PDS) ottenne il 16,6% rispetto al 26,6% conquistato dal PCI nelle consultazioni politiche precedenti. La Lega riportò il 9,4%, cioè, l’8,7% in più rispetto al 1987. La Repubblica presentò questi risultati con un titolo a caratteri cubitali: È crollato il Muro Dc. Il voto di protesta ha punito anche Craxi. E il Quadripartito è in minoranza. Il titolo dell’editoriale del direttore era: Nomenklatura licenziata. Il 28 aprile il quotidiano di Scalfari uscì con un altro titolo in evidenza: Chiesa fa i nomi. Nell’articolo di cronaca era riportato il seguente atteggiamento di Chiesa: «Di fronte alle insistenze dei magistrati, l’imputato ha perso la calma più di una volta: ‘Dovete piantarla di rompermi i coglioni con quel nome!’». Il giorno dopo si poteva leggere: «Lo ‘scandalo Chiesa’ si allarga a macchia d’olio: sono già quindici i mandati di cattura. E le indagini riservano nuovi clamorosi sviluppi». Il 3 maggio fu data in prima pagina la notizia degli avvisi di garanzia ai due ex sindaci Paolo Pillitteri e Tognoli. Si apriva così la «questione Craxi». «Il potere socialista di Milano è colpito al cuore. (...) Ma non è solo il potere socialista di Milano ad essere colpito. Con Tognoli e Pillitteri si arriva in realtà al centro del sistema, al centro di quella ‘concussione ambientale’ descritta dagli inquirenti milanesi, che ha nella sede nazionale del Psi e nella segreteria politica di quel partito i suoi massimi referenti. Con Tognoli e Pillitteri si arriva a Bettino Craxi» (E. Scalfari, E adesso è aperta la questione Craxi, in la Repubblica, 3 maggio 1992). Le notizie si susseguivano quasi secondo una logica prevista, contribuendo a destabilizzare un mondo politico già frastornato.
Chiesa rivelò una pratica politica che si poteva forse ipotizzare in senso generico, ma che nessuno avrebbe potuto immaginare così diffusa e da ritenersi quasi prassi consolidata e normale. Si trattava di una modalità corruttiva ammessa dallo stesso Craxi nel discorso sulla fiducia al governo Amato pronunciato il 3 luglio 1992 alla Camera fra gli applausi canzonatori dei leghisti e il silenzio attonito del resto del Parlamento. «Tutti sanno – affermò – che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale» (Craxi, 2007, p. 480). Il giorno seguente, giudicando l'analisi «impietosa e ineccepibile», Giulio Anselmi riconobbe l'importanza dell'intervento che, pur non indicando soluzioni precise, aveva affrontato con onestà intellettuale «la vera questione politica» (Terapia d'urto, in Corriere della Sera, 4 luglio 1992).
Dopo l’omicidio del magistrato Giovanni Falcone avvenuto il 23 maggio e l’elezione, a due giorni di distanza, di Scalfaro a presidente della Repubblica, «esplose il caso Craxi». Con un titolo simile uscì la Repubblica del 4 giugno. In un interrogatorio – scriveva il quotidiano – Chiesa aveva raccontato «che Craxi gli avrebbe chiesto di ‘sostenere’ la campagna elettorale di suo figlio Bobo in cambio di protezione e incarichi politici» e che lui «si sarebbe sdebitato garantendo voti e finanziamenti» (P. Colaprico - L. Fazzo, ‘Bettino, se tu mi aiuti...’, in la Repubblica, 4 giugno 1992). Nonostante arrivasse, anche se in ritardo, una precisazione di Chiesa sul fatto che «nessun patto» era avvenuto tra lui e il leader socialista e che lo stesso Di Pietro avesse aggiunto che nulla di penalmente rilevante esisteva a carico di Craxi, la notizia, di fatto, passò sull’onda di una forte carica scandalistica sfavorevole al segretario del PSI (S. Bonsanti, E per Craxi s'allontana la guida del governo, ibid.).
A nulla servirono le difese del leader. Ormai la gravità delle rivelazioni e gli effetti prodotti dalla mediatizzazione dello scandalo, a volte anche implicita e indiretta, non erano più contrastabili. In un tale contesto, le accuse dirette al segretario socialistadirettamente dai magistrati inquirenti giunsero senza suscitare sensibili sorprese. «L’avviso di garanzia a Craxi – commentò Gianni Baget Bozzo – era da tempo nell’aria: si capiva che quello era il punto di arrivo dell’inchiesta milanese» (G. Baget Bozzo, Ma Craxi non è che l’inizio, in la Repubblica, 18 dicembre 1992). Era il 15 dicembre 1992.
Di fronte a una situazione ormai irrimediabile, il 26 gennaio 1993, i ‘quarantenni’ del partito, organizzati da poco come Alleanza riformista, promossero la manifestazione nazionale Uscire dalla crisi. Costruire il futuro. Ad aprire la manifestazione fu il presidente della Regione Emilia-Romagna, Enrico Boselli. Il 31 gennaio il gruppo che all'assemblea nazionale di fine novembre, dove il PSI si era diviso in tre dopo diversi lustri di unanimismo, aveva votato la mozione Spini, promosse un'assise aperta. Craxi si dimise da segretario l'11 febbraio 1993, dopo le rivelazioni sul ‘conto protezione’ che coinvolsero, insieme allo stesso Craxi, il suo ex delfino Martelli nell'accusa di bancarotta fraudolenta. Martelli, in quel momento in lizza per succedergli come segretario, alla notizia dell'avviso di garanzia, si dimise dal governo e dal PSI.
La prima condanna a Craxi giunse molto presto. Il 12 novembre 1996 la Corte di cassazione confermò la sentenza d'appello che aveva inflitto all'ex segretario socialista cinque anni e sei mesi di carcere sul caso ENI-SAI per una tangente di diciassette miliardi relativa alla joint-venture mai conclusa fra le due società. Craxi venne riconosciuto colpevole del reato di corruzione. Per i giudici, dietro l'accordo che avrebbe dovuto portare la SAI a realizzare un affare da centinaia di miliardi, c'era stato un consistente passaggio di denaro in nero. «Padrini» politici dell'accordo furono ritenuti Craxi e il segretario amministrativo della DC Severino Citaristi, anch'egli condannato. Una seconda conferma della Cassazione giunse nel 1998 a proposito delle tangenti versate per la Metropolitana Milanese. Il 1° ottobre 1999 si giunse alla condanna in appello per le tangenti relative al caso Enimont. Sul finanziamento illecito al PSI del 1981 che erano passate dall'Eni, attraverso il Banco Ambrosiano e il ‘conto protezione’, sulla banca svizzera UBS la Cassazione decise invece l'annullamento della sentenza d'appello emessa il 7 giugno 1997. Per le tangenti ENEL, infine, si giunse solo al primo grado di giudizio. Il reato di finanziamento illecito commesso nel caso All Iberian cadde in prescrizione. Comunque, dopo aver partecipato a fine 1993 all’udienza sul ‘caso Enimont’, Craxi decise di «autoesiliarsi» ad Hammamet nei primi mesi del 1994.
In Tunisia si dedicò alla pubblicistica e alla memorialistica. Ritornò sul finanziamento alla politica, sulla fine dei partiti, sul ‘caso Moro’, sulla sua vicenda giudiziaria, sulla scelta di andare in Tunisia, su Tangentopoli e scrisse sulla vicenda politica di Berlusconi, sulla politica della ‘Seconda Repubblica’, su Romano Prodi, sulle tentate riforme istituzionali, su Massimo D'Alema, su Amato, su molti esponenti politici succedutisi dopo il 1992, sui magistrati milanesi. Dopo una lunga e sofferta malattia, si spense il 19 gennaio 2000.
Le ultime vicende personali e politico-giudiziarie di Craxi sono rimaste a lungo centrali nel dibattito pubblico italiano, marcando fortemente gli immaginari e le culture, sia politiche sia antipolitiche, che hanno accompagnato la fine contraddittoria della 'Repubblica dei partiti' e la definizione lenta e tortuosa di un nuovo assetto politico e istituzionale tuttora in corso.
All'interno di una vasta produzione si segnalano: Socialismo da Santiago a Praga, Milano 1976; Lotta politica, Milano 1978; L'Internazionale socialista, a cura di C. Accardi, Milano 1979; Un passo avanti, Milano 1981; Il progresso italiano, I-II, Milano 1985-89; Cresce l'Italia, Milano 1987; Pagine di storia della libertà, Firenze 1990; Il rinnovamento socialista, Venezia 1991; Quattro anni di governo, Milano 1998; Fax dall'esilio, a cura di F. Ranucci, Roma 2001; Le urne e le toghe. Promemoria per il ministro della Giustizia, Roma 2002; Il socialismo di Craxi. Relazioni e documenti dei congressi socialisti 1978-1991, a cura di U. Finetti, Milano 2003; Pace nel Mediterraneo, a cura di S. Craxi, Venezia 2006; Passione garibaldina, Venezia 2007; Discorsi parlamentari 1969-1993, a cura di G. Acquaviva, Roma-Bari 2007; Io parlo, e continuerò a parlare. Note e appunti sull'Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Milano, 2014.
Milano, Archivio storico civico, Verbali di seduta del Consiglio comunale, novembre 1960 - dicembre 1967; Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Gabinetto, f. 455. u; Firenze, Archivio Fondazione Turati, Organizzazioni politiche; Roma, Archivio Fondazione Nenni, Carteggi; Ibid., Archivio Fondazione Craxi (su cui è possibile consultare: Inventario dell'Archivio Craxi, a cura di G. Volpi - L. Musci - C. Saggioro - E. Fiorletta, Milano 2008); Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, 1968-2000, ad ind.; G.P. Shultz, Turmoil and Triumph. My Years as Secretary of State, New York 1993, ad ind.; R. Reagan, The Reagan Diaries, edited by D. Brinkley, New York 2007, ad ind. Inoltre: G. Galli, Benedetto Bettino, Milano 1982; A. Ghirelli, L'effetto Craxi, Milano 1982; G. Martinet, Les Italiens, Paris 1990; M. Andreoli, Andavamo in piazza Duomo, Milano 1993, pp. 54-60; L. Cafagna, Una strana disfatta. La parabola dell'autonomismo socialista, Venezia 1996, pp. 117-151; L. Lagorio, L'ultima sfida. Gli euromissili, Firenze 1998; A. Mastropaolo, Antipolitica all'origine della crisi italiana, Napoli 2000, pp. 63-69, 129-139; U. Intini, Craxi. Una storia socialista, Roma 2000; La politica estera italiana negli anni Ottanta, a cura di E. Di Nolfo, Manduria-Bari-Roma 2003; S. Colarizi - M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Roma-Bari 2006; S. Fiorini, Il potere a Milano. Prove generali di centrosinistra (1959-1961), Milano 2006; La grande riforma del Concordato, a cura di S. Acquaviva, Venezia 2006; Bettino Craxi, il socialismo europeo e il sistema internazionale, a cura di A. Spiri, Venezia 2006; L. Musella, Craxi, Roma 2007; Moro - Craxi. Fermezza e trattativa trent'anni dopo, a cura di G. Acquaviva - L. Covatta, Venezia 2009; La ‘grande riforma’ di Craxi, a cura di G. Acquaviva - L. Covatta, Venezia 2010; Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, a cura di G. Acquaviva - M. Gervasoni, Venezia 2012; A. Spiri, La svolta socialista, Soveria Mannelli 2012; L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia (1993), Venezia 20122, pp. 105-124, 137-141; S. Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), Roma 2013, ad ind.; Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983-1987), a cura di G. Acquaviva - L. Covatta, Venezia 2014.