GENTILE (Gentile Pevere), Benedetto
Nacque circa nel 1490, probabilmente a Genova, da Giovanni, signore di Capocorso, e da Mariettina (o Marcellina) Cebà di Domenico.
I Pevere, famiglia di dignità consolare dall'inizio del XIII secolo, e presente dallo stesso periodo a Bonifacio in Corsica, fu ascritta alla consorteria dei Gentile nel 1309, contemporaneamente al ramo Avocati-Avogari, col quale condivise feudi e signorie in Corsica fino alla metà del XV secolo, quando i Pevere si orientarono su attività finanziarie nel Banco di S. Giorgio (e poi sui mercati spagnoli) o su carriere ecclesiastiche di prestigio in Corsica e in Terraferma.
All'inizio del Cinquecento, nonostante i Gentile fossero una delle famiglie di più antica nobiltà, il ramo Pevere in Genova sembra essersi molto assottigliato, e mostra la tendenza a matrimoni con esponenti dei populares. Anche il G. sembrava avviato alla carriera ecclesiastica e, lontano dall'abituale cursus honorum politico-finanziario dei ceti dirigenti della Repubblica genovese, avrebbe trascorso a Roma la giovinezza come chierico di Camera presso la corte pontificia. Fino a quando, ritornato a Genova in data imprecisata, interrotta la carriera ecclesiastica agli ordini minori, vi sposò Benedettina Fieschi, figlia di Paride e nipote di molti Fieschi potenti in ambito diplomatico ed ecclesiastico, tra cui Ettore, Giovanni Ambrogio e il cardinale Niccolò. Proprio questo matrimonio sembra offrire la chiave di lettura della inopinata elezione ducale del G., avvenuta il 4 genn. 1547, due giorni dopo la fallita congiura di Gian Luigi Fieschi.
Paride Fieschi, rimasto estraneo alla politica armata dei suoi potenti cugini, garantiva attraverso il nome e i legami parentali il sostegno di parte della famiglia ad Andrea Doria nel momento in cui l'ammiraglio decideva la radicale distruzione della famiglia e delle proprietà di Gian Luigi. Se la scelta del G. come doge fu senza dubbio voluta dal Doria e dai suoi alleati per disporre di un uomo politicamente innocuo, forse facile ai compromessi e "placido ingenio praestantique vir prudentia" (Bonfadio, p. 384), altri dati non sciolgono qualche perplessità di ordine biografico. La moglie era infatti sicuramente vedova di Giacomo Spinola di Antonio dal 1522. Come riferiscono gli annalisti Casoni, Canale e altri (ma soprattutto come riferiva l'ambasciatore spagnolo al suo governo nella lettera del 6 genn. 1547), il matrimonio fu celebrato alcuni giorni prima dell'elezione ducale. Considerando la data delle nozze, i due figli del G., Giovanni e Francesco - entrambi citati nel testamento stilato dal G. il 20 giugno 1550, il primo come chierico romano e il secondo padre di tre figli e già defunto -, sarebbero nati illegittimi nel periodo romano.
Comunque l'elezione ducale del G. sembra tanto più straordinaria in quanto egli non aveva avuto alcun precedente incarico nella Repubblica e, addirittura, non era registrato nel Libro della nobiltà al momento della riorganizzazione degli "alberghi" del 1528: il suo nome verrà aggiunto sotto quello del pronipote Francesco (di Annibale di Francesco), con l'indicazione "olim Dux Reip.cae". Certo all'elezione voluta dal Doria (i manuali del Senato registrano per il G. una esigua maggioranza di 35 voti) contribuì la certezza di fare scelta gradita alla Spagna, che era ovviamente allarmata dalle implicazioni filofrancesi della congiura fieschina. E infatti, nella citata lettera-relazione del gennaio 1547 sugli accadimenti genovesi, l'ambasciatore Gómez Suárez de Figueroa rassicurava la corte di Madrid sul G., definendolo "un buon servitore di Sua Maestà". Sotto il dogato del G., dunque, il Doria poté prima operare la repressione antifieschina e poi la normalizzazione dei nuovi equilibri in seno alla classe di governo, garantendo contemporaneamente rispetto al potente alleato spagnolo e piena sovranità alla Repubblica, tanto che, nonostante le pressioni del Figueroa e soprattutto del governatore di Milano Ferrante Gonzaga, il governo genovese riuscì a eludere il progetto della costruzione della fortezza di Pietraminuta, nella quale la Spagna avrebbe voluto collocare un presidio al comando di Agostino Spinola.
Nei primi mesi del dogato del G., il Doria procedette dunque contro i Fieschi e gli altri congiurati che, capeggiati da Girolamo Fieschi, si erano trincerati nel loro castello di Montoggio. Il 24 giugno 1547, dopo la cruenta fine di un assedio di cinque mesi, il G. deliberava la distribuzione ai poveri e all'ospedale di Pammatone delle scorte granarie requisite nel castello dei Fieschi. Ma certo ancora più utile al Doria fu, tra il 1547 e il 1548, la condiscendenza del G. alla riforma costituzionale chiamata del "garibetto" che, attraverso il nuovo sistema di elezione dei componenti del Maggiore e del Minor Consiglio, nonché del doge stesso e delle altre magistrature supreme, tornava a garantire il controllo politico alla cosiddetta "nobiltà vecchia", vanificando l'accresciuto rafforzamento numerico ed economico della "nuova". Il nuovo indirizzo oligarchico sanzionato dalla riforma, benché andasse oltre le preoccupazioni di stabilità politica alimentate dalla congiura fieschina, in quel momento riuscì a congelare i conflitti nobiliari e offrì alla Spagna la principale garanzia in cambio della sua rinuncia a presidiare militarmente lo Stato genovese.
In una Genova "pacificata" il G. poté accogliere nel luglio 1548 Massimiliano d'Asburgo, imbarcatosi a Genova per la Spagna per celebrarvi le nozze con la figlia di Carlo V, Maria, e, a fine novembre, il futuro Filippo II. In particolare la visita di quest'ultimo fu l'occasione di festeggiamenti trionfali, anche se Filippo, come già Massimiliano, era stato ospite personale nel palazzo di Fassolo del Doria, che lo aveva trasportato da Barcellona a Genova sulle sue galee. Nella circostanza il G., scortato dal Senato e dall'alto clero (tra cui i cardinali G. Doria e I. Cibo, giunti a Genova per l'occasione) scese al porto per accogliere Filippo con orazione solenne. Filippo sarebbe ripartito alla volta di Milano l'11 dic. 1548, pochi giorni prima che il G. concludesse il dogato.
In seguito il G. non ricoprì alcuna altra carica di governo; continuò a risiedere a Genova fino alla morte e provvide a sottoscrivere azioni nel Banco di S. Giorgio (3000 "luoghi") e per la costruzione di un ponte sul Polcevera, nonché per fidecommissi a favore di vari nipoti. Il ponte, costato poi 20.000 lire, fu costruito a 12 arcate, secondo il volere del G., nel punto in cui il figlio Francesco aveva trovato la morte qualche anno prima, mentre cercava di guadare il fiume in piena con carrozza e bagagli: così ricordava la lapide fatta collocare nel 1552 dal G., che fece costruire sul ponte anche una cappelletta alla Madonna, con lo stemma proprio e quello della moglie.
Il G. morì a Genova il 3 febbr. 1555 e volle essere deposto nella cappella sepolcrale dei genitori nella chiesa benedettina di S. Benigno, che aveva fatto restaurare per sé e per la moglie.
Quest'ultima, tuttavia, cui il G. aveva affidato il controllo sugli esecutori del suo complesso testamento, preferì poi essere sepolta nella chiesa di S. Maria di Coronata, da lei ampiamente beneficata. Quanto al testamento e alla sfortunata discendenza del G., l'eredità (o almeno i 3000 luoghi del Banco di S. Giorgio) fu spartita tra il nipote Michelangelo, figlio del fratello del G., Paolo, e i figli e discendenti, legittimi e naturali, del defunto figlio Francesco. Michelangelo sposò una Doria, Pellegrina di Giorgio, ed ebbe come figli un Benedetto, primo ammesso alla rendita testamentaria, e un legittimato Giovan Paolo, dalla burrascosa discendenza, con fratricidi e assassinî. Il figlio del G., Francesco, aveva lasciato quattro figli: Benedetto (poi sposo a Caterina Valdettaro, senza prole), Clemenza, Annibale e Giovan Andrea; gli ultimi due furono legittimati e con prole a loro volta legittimata e ascritta alla nobiltà, nonostante unioni con donne non nobili.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Manoscritti, 491, c. 146; 494, c. 115; G. Bonfadio, Annali di Genova, Brescia 1759, pp. 384 s.; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, II, Genova 1800, pp. 186, 218, 221; M.G. Canale, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1874, p. 237; Documenti hispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, in Atti della Soc. ligure di storia patria, VIII (1868), 1, p. 32; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, II, Genova 1913, p. 204; L.M. Levati, Dogi biennali, I, Genova 1930, pp. 53-57 (con bibl.); G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Genova 1965, p. 227; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, p. 41.