GIUSTINIANI, Benedetto
, Nacque a Chio, isola egea soggetta alla Repubblica di Genova, il 5 luglio 1554 da Giuseppe di Benedetto, del ramo de Nigro, e Girolama Giustiniani del ramo Recanelli. Era il figlio maggiore di una prole che si accrebbe nei successivi dieci anni di tre femmine e di un maschio, Vincenzo.
Nel gennaio 1569 il G. e il padre lasciarono Chio, conquistata dai Turchi nel 1566, e ripararono in Italia, prima a Venezia, poi a Genova e infine a Roma, dove nel giro di qualche mese furono raggiunti dal resto della famiglia.
Dalle memorie conservate nell'archivio familiare si evince che l'abbandono dell'isola - su cui i Giustiniani e altre famiglie consorziate sotto il medesimo nome esercitavano da secoli una sorta di governo derivante dal monopolio del commercio (la Maona) - fu possibile solo ricorrendo a mezzi monetari e diplomatici, tra cui l'intercessione del re di Francia. Il viaggio segnò, comunque, il "principio di tutte le nostre richezze" (Arch. di Stato di Roma, Archivio Giustiniani, b. 103, Memoria del cardinal Benedetto Giustiniani). A Roma, infatti, i Giustiniani contavano appoggi importanti nel mondo finanziario e curiale, tra i quali il fratello della madre del G., Vincenzo, generale dei domenicani e, dal 1570, cardinale.
Ben presto il G. prese la risoluzione di "lassa[re] il pensier di attender a negotij et ressol[se] di attender alle lettere" (ibid.). La decisione fu fortemente osteggiata "per più di dui anni" dal padre, che emergeva come facoltoso banchiere e nel 1572 avrebbe preso in appalto, per 60.000 scudi, le entrate del Patrimonio. Il G. compì gli studi in scuole pubbliche e nel 1573 entrò nell'Università di Perugia prima e di Padova poi, dove nel 1576 ottenne le insegne dottorali; il 15 apr. 1577 si laureò inutroque iure anche a Genova.
La memoria autobiografica, che colloca la laurea nel giugno 1578, consente di ricostruire la crescita e la maturazione del G.: per gli anni universitari si evocano, a più riprese, le "inimicitie con periculo di scandali et solevationi di studio, rumori et perturbationi di animo"; i sentimenti di "melanconia" che lo resero "quasi desperato et risoluto di lassar le lettere et farsi cavaglier di Malta" (1577); le cattive compagnie e le intemperanze che a ridosso del dottorato gli fecero correre "periculo di esser banditi et in disgratia quasi del padre et zio". La conclusione degli studi, "con molta satisfattione et honore", portò con sé la scelta del futuro: se per un breve momento il G. si dilettò col "pensiero di pigliar moglie" (ibid.), entro pochi mesi il destino religioso e curiale, sulle orme dell'illustre zio, era deciso.
Ritornato a Roma all'inizio del 1579, il G. fu tra i referendari delle due Segnature; nel 1582 acquistò l'ufficio di abbreviatore di Parco Maggiore, quindi quello di giudice delle Confidenze. Il papa, Gregorio XIII, gli conferì i benefici dello zio Vincenzo, morto in quell'anno.
L'affermazione dei Giustiniani sulla scena romana, sapientemente orchestrata dal padre del G. attraverso gli investimenti finanziari e le alleanze matrimoniali con famiglie romane e fiorentine (Monaldeschi, Massimo e Bandini) ebbe un primo risultato di grande rilievo nel 1585. In maggio, infatti, dopo aver fatto arrestare il tesoriere generale Rodolfo Bonfiglioli (o Bonfioli), Sisto V rese venale quell'ufficio e il G., divenuto chierico camerale, lo acquistò per 50.000 scudi. Contemporaneamente detenne la Collettoria generale degli spogli, ufficio che gli consentiva di rivendicare i redditi di qualunque genere provenienti da benefici ecclesiastici vacanti. Tra la fine del 1586 e il marzo del 1587 il G. cedette l'incarico di tesoriere a Guido Pepoli per 72.000 scudi.
L'ambiziosa politica economica di Sisto V, che intendeva assicurare alla Chiesa crescenti risorse monetarie, trovò nei Giustiniani gli interlocutori in grado di rendere effettivi i progetti papali. Giuseppe fu tra i principali artefici della manovra economico-finanziaria sistina, basata sulla vendita degli uffici e la crescita del debito pubblico, riuscendo ad acquistare, insieme con il banchiere genovese Giovanni Agostino Pinelli e il portoghese J. Lopez, la metà dei "luoghi" di Monte pontifici. L'ascesa del figlio ecclesiastico fu, dunque, il giusto riconoscimento riservato dal pontefice al sostegno del banchiere. Sisto V, infatti, il 16 dic. 1586 elevava il G. al cardinalato, dopo aver premiato, esattamente un anno prima, un rappresentante della famiglia Pinelli, Domenico.
Il 14 genn. 1587 il papa assegnò al G. il titolo di S. Giorgio al Velabro, che negli anni seguenti fu mutato in quello di S. Agata dei Goti (11 sett. 1587), di S. Maria in Cosmedin (20 marzo 1589), di S. Marcello (7 genn. 1591, titolo presbiteriale) e di S. Prisca (1599). Il G. sarebbe poi divenuto cardinale vescovo di Palestrina (4 giugno 1611), di Sabina (16 sett. 1615) e di Porto (3 ag. 1620).
Durante il pontificato di Sisto V il G. non ebbe impegni di rilievo, al di là delle cariche rivestite nell'amministrazione economica, dove comunque imperava la volontà del papa. Nell'agosto 1585, ancor prima di divenire cardinale e in qualità di tesoriere generale, il G. prese parte alla congregazione incaricata di valutare i progetti per l'innalzamento dell'obelisco in piazza S. Pietro, alla quale erano stati assegnati anche i cardinali Pier Donato Cesi, Filippo Guastavillani, Ferdinando de' Medici e Francesco Sforza, altri tre prelati e alcuni esperti. La commissione scelse il piano proposto da Bartolomeo Ammannati, ma Sisto V impose Domenico Fontana. Nel 1587 il G. fu inserito nella Sacra Consulta, l'organo responsabile dei rapporti con le istituzioni periferiche dello Stato pontificio, guidata dal cardinale nipote Alessandro Peretti, detto il cardinale Montalto. Nel gennaio 1588, il papa trasformò la Consulta in una congregazione stabile presieduta dal Montalto e composta dal G. e dai cardinali Girolamo Della Rovere, D. Pinelli, Antonio Maria Gallo. Sisto V, inoltre, istituì una congregazione deputata alla Stamperia vaticana e vi nominò i cardinali Scipione Gonzaga, Costanzo Sarnano, François de Joyeuse, Antonio Carafa, responsabile della Biblioteca, e il G. in qualità di prefetto.
La congregazione avrebbe dovuto sovrintendere alla tipografia, voluta dal papa nell'aprile 1587 e affidata allo stampatore friulano Domenico Basa per realizzare edizioni della Bibbia, collezioni di decretali, atti conciliari, testi dei dottori della Chiesa, in latino e in volgare. Sempre nel 1588, insieme con i cardinali Giulio Antonio Santori, Scipione Lancellotti e Giovan Battista Castagna, il G. fece parte della congregazione cui fu affidata la valutazione dei chierici regolari minori, Ordine fondato da Francesco e Fabrizio Caracciolo e da Giovanni Agostino Adorno e approvato dal papa in luglio a seguito delle conclusioni raggiunte dalla commissione cardinalizia e dei buoni uffici del cardinale Montalto.
A metà dell'ottobre 1589 il cardinale camerlengo Enrico Caetani partì da Roma, inviato in missione diplomatica in Francia nella delicata fase segnata dall'assassinio di Enrico III, e il G., che era suo vice dal 1587, fu chiamato a sostituirlo. Nel concistoro generale del 30 marzo 1590, seguito alla notizia della vittoria degli ugonotti a Ivry sulle truppe della Lega guidate dal duca di Mayenne, il G. fu tra i pochi membri del Sacro Collegio a contrastare il piano di intervento militare delle truppe pontificie a fianco dei cattolici francesi, insieme con la Spagna. Egli "giudicava le cose di Francia, piuttosto passioni di Stato che di religione" e pertanto prospettò che ci "si armasse, ma senza muoversi" (Négotiations, p. 115).
Si trattò di una posizione di minoranza, condivisa con Giovanni Evangelista Pallotta, sulla quale avevano forse influito le gravi ripercussioni sul mondo finanziario romano, specie di origine fiorentina, della recente "guerra dei tre Enrichi", che nel 1588 aveva costretto i Giustiniani a intervenire in aiuto del banco dei congiunti Bandini.
Il 30 genn. 1591 Gregorio XIV nominò il G. legato della Marca d'Ancona e il 19 luglio ne estese la giurisdizione anche alla città di Ascoli. Giunto a Macerata alla fine di febbraio senza celebrazioni solenni, per salvaguardare le finanze cittadine il 28 aprile il G. promulgò un bando generale per l'ordine pubblico.
Il G. si trovava nel mezzo di una situazione in cui il succedersi delle sedi vacanti tra il 1590 e il 1592 e la concomitante carestia, particolarmente gravosa nell'area del Piceno, avevano acuito il fenomeno del banditismo.
Dall'autunno del 1590 si erano moltiplicati i tentativi dei banditi di entrare nella Marca attraverso il Regno di Napoli e la Campagna romana, e durante l'estate le scorrerie si intensificarono. In agosto, il castellano di Civitella del Tronto, la fortezza di confine con il Regno di Napoli, scriveva allarmato al cardinale, invitandolo a prendere contro i banditi - ma anche contro la popolazione locale che sembrava solidale con loro - "espediente con qualche essorbitante et terribile dimostratione" come "dissabidar Monte Calvo, Monte Acuto e Pietralta insieme con queste montagne di Regno, et mette[re] alla città di Ascoli una briglia che li faccia stare in pensiero" (Arch. di Stato di Roma, Archivio Giustiniani, b. 103, 8 ag. 1591).
I provvedimenti decisi dal G. al fine di spezzare il sostegno che la società locale forniva ai banditi, tali "che il nome suo lo temono horrendamente questi ladri" (ibid., 29 sett. 1591), non trovarono rispondenza immediata oltre confine. Ma soprattutto si aprì la polemica con uno dei responsabili vicereali della lotta al banditismo, Carlo Spinelli, intorno al riparo dei banditi nel Regno e all'ingresso di Marco Sciarra nella Marca alla fine di settembre.
In ottobre, infatti, Spinelli accusava il G., al momento a Roma per il conclave che avrebbe eletto Innocenzo IX, di avere millantato la cacciata dei banditi dallo Stato pontificio, di avere affrontato presso il Tronto gli uomini di Marco Sciarra con un esercito cospicuo ma senza risultato di sorta, e di essere pavido, come il suo vice. Alle recriminazioni il G. rispondeva, all'inizio di dicembre, con un puntuale memoriale con cui sconfessava tutte le affermazioni dello Spinelli, ribadendo l'efficacia degli uomini e dei mezzi impiegati e ammettendo che, solo dopo la sua partenza per Roma, i banditi avevano scorrazzato per la Marca e l'esercito si era sbandato (ibid., 3 dic. 1591).
Maturava in Curia l'idea di reclutare i banditi tra le truppe da inviare in Francia contro gli ugonotti e di combattere le bande opponendo alle ribelli quelle conquistate alla fedeltà al papa. Tuttavia il G., già ostile alla partecipazione pontificia alla guerra antiugonotta, in linea con lo schieramento filofrancese, rivelava al cardinale Antonio Maria Salviati, responsabile della politica contro il banditismo, il proprio scetticismo per entrambe le soluzioni e, da parte sua, concludeva: "se havesse trecento corsi e cento archibugieri a cavallo, cinquanta lancie non vorrei più star ad intendere tanti trattamenti […] gli vorrei dar dentro e operarci liberar questo paese, senza star a trattar con simil genti con poca riputatione" (Polverini Fosi, p. 183).
Nel 1592, la posizione antispagnola del G. si espresse nell'opposizione, insieme con i cardinali Montalto, Giovan Francesco Morosini e Francesco Sforza, alla candidatura del cardinale Ludovico Madruzzo, nel corso del conclave che avrebbe eletto Clemente VIII Aldobrandini. Sotto il pontificato di questo si accentuò il ruolo curiale del G. e quello finanziario della sua famiglia: nel 1598 anche l'ambasciatore veneziano Giovanni Dolfin sottolineava questo rapporto di confidenza, e lo stretto legame con il cardinale Montalto, tratteggiando il profilo del G.: "pretende non volere essere dominato d'alcuno; è d'ingegno vivo, entrante, e molto offizioso, e vuole che si tenga conto di lui" (Le relazioni, X, p. 485).
Nel 1593, su ordine del papa, il G. affiancò il cardinale legato dell'Umbria, D. Pinelli, nell'incarico di provvedere all'Università di Perugia e, sulla base di quanto costui aveva stabilito nel 1591, fu approntato un provvedimento di carattere organizzativo e disciplinare che il pontefice promulgò il 17 marzo. Il G. fu, inoltre, ascritto alla congregazione del Concilio.
Nel 1594 il padre del G. raggiunse il vertice della carriera per un banchiere pontificio subentrando a Giovanni Battista Ubertini nell'ufficio di depositario generale, responsabile operativo dei pagamenti della Camera apostolica. Clemente VIII, infatti, lo aveva preferito ai Capponi, pur sostenuti dal nipote Giovanni Francesco Aldobrandini. Tuttavia, l'anno seguente il banco corse il rischio di fallire e il G. dovette adoperarsi con ogni mezzo per scongiurare il pericolo della bancarotta "fac[endo] venire contanti da fuora" (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1063, c. 134).
Alla fine del 1596, insieme con Flaminio Piatti, Silvio Antoniano, Girolamo Pamphili, il G. entrò nella commissione cardinalizia formata, su sollecitazione di Filippo II, per dirimere la vertenza tra il cardinale Federico Borromeo e le autorità secolari di Milano sorta attorno a questioni di cerimoniale e ai bandi sulla coltivazione del riso. Come viceprotettore del Regno di Francia (1593-94 e 1596-98), il G. sostenne la politica filofrancese di Clemente VIII, il quale, concessa nel 1595 l'assoluzione a Enrico IV, nel 1597-98 cercò un'intesa con il sovrano per bilanciare l'opposizione spagnola alla devoluzione del Ducato di Ferrara.
Nel novembre 1597, con la notizia della morte di Alfonso II d'Este e la decisione di Clemente VIII di procedere alla conquista di Ferrara, il G. entrò a far parte della congregazione di diciannove cardinali incaricata di organizzare le operazioni e presieduta da Bartolomeo Cesi. Contemporaneamente, alla famiglia del cardinale il papa chiese il maggiore contributo al finanziamento della campagna militare e il banco Giustiniani, insieme con quello dei Doni, corrispose circa 400.000 scudi. Alla fine del 1598 il G. accompagnò Clemente VIII nella solenne presa di possesso di Ferrara. In tale occasione fu nominato prefetto della congregazione per i Vescovi e regolari e contribuì alla stesura di un progetto di concordia tra il cardinale Borromeo e il governatore di Milano che, tuttavia, fu respinto dai consiglieri legali delle due parti.
Nell'agosto-settembre 1599 il G. esaminò la validità del matrimonio tra Enrico IV e Margherita di Valois. L'ambasciatore francese Brulard de Sillery, inviato appositamente dal sovrano, in luglio aveva esposto ufficialmente al papa la causa e Clemente VIII - che già in febbraio aveva ordinato al nunzio Gaspare Silingardi di non affrontare l'argomento e di fare in modo "di tenere indietro simil negotio con spaventarli et con tirar in lungo" (Hauptinstruktionen, p. 591) -, istituì una congregazione, presieduta dal cardinale de' Medici e formata, in aggiunta al G., dai cardinali Camillo Borghese, Lorenzo Bianchetti, Pompeo Arrigoni e Alfonso Visconti, dall'uditore della Sacra Rota Giovan Battista Pamphili e dal gesuita e penitenziere Benedetto Giustiniani. Il consesso si riunì il 31 agosto e dieci giorni più tardi decretò del tutto accettabili le ragioni a favore della nullità, rimettendo la causa in partibus. In questo torno di tempo, il cardinale F. de Joyeuse, in partenza per la Francia per istruire la causa insieme con il nunzio Gaspare Silingardi e al prelato d'origine italiana Orazio del Monte, invitò il G. ad assumere la viceprotezione della Francia, ma egli respinse l'offerta, come aveva fatto anche il cardinale Ottavio Acquaviva.
Il contributo del G. fu prova della sua adesione allo schieramento filofrancese e della devozione ai granduchi di Toscana: l'annullamento del matrimonio dei reali di Francia fu infatti il presupposto per le nozze tra Enrico IV e Maria de' Medici.
Segno del legame con i Medici fu pure la protezione dei vallombrosani, assunta dal G. verso la fine del secolo. Nel 1601 inviò presso l'abbazia Giovanni Leonardi, il fondatore dei chierici regolari della Madre di Dio, per studiare l'attuazione della riforma e in seguito procurò ai monaci, intercedendo presso il cardinale Bartolomeo Cesi, la chiesa romana di S. Maria in Portico.
Il 9 genn. 1600 morì il padre del G., che lasciò ai figli maschi tutti i beni in comune.
Gli Avvisi sottolinearono come al minore, Vincenzo, fosse stato dato l'arredo del palazzo di S. Luigi de' Francesi "in ricompensa di quello che si è speso per il signor Cardinale a tirarlo avanti" (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1068, c. 32r). La ricchezza del defunto banchiere, stimata pari a 500.000 scudi, sarebbe stata, infatti, "molto maggiore se si [fosse considerato] quel che ha speso in cumprar offitij che vacarono quando fu fatto il figlio cardinale" (ibid., c. 27v). Tuttavia, Giuseppe Giustiniani con equità aveva valutato a titolo di dono la Tesoreria e gli altri debiti contratti con lui dal figlio e aveva destinato al minore un legato altrettanto generoso. In due concordie, del 1601 e del 1604, i due fratelli si ripartirono i titoli di credito, le depositerie dei Monti, le proprietà immobiliari. Al G. spettarono il palazzo di famiglia, acquistato nel 1590, e la vigna fuori porta Flaminia al Muro Torto; a Vincenzo, invece, toccarono il feudo e il castello di Bassano di Sutri (oggi Bassano Romano), venduto al padre dagli Anguillara nel 1595, e altre case cittadine.
Nel primo conclave del 1605 il G. appoggiò la candidatura di Cesare Baronio, che era stata proposta in funzione antispagnola dal cardinale nipote Aldobrandini, consapevole della decisa avversione della Spagna. L'impossibilità di far prevalere Baronio, però, convinse i cardinali filofrancesi e Aldobrandini ad appoggiare il cardinale Alessandro de' Medici (Leone XI). Nel secondo conclave di quell'anno, il G. offrì il suo voto al genovese Antonio Maria Sauli e in seguito, falliti i tentativi di eleggere Roberto Bellarmino e Francesco Blandrate, egli propose con Montalto la candidatura di Baronio in un momento in cui stava per prevalere, con il sostegno di Aldobrandini, il cardinale Domenico Tosco. In tal modo si creò una situazione di stallo, superata dall'accordo tra il nipote di Clemente VIII e Montalto sulla persona di Camillo Borghese (Paolo V).
Nel settembre 1605 il G. entrò nella congregazione istituita "pro sublevando erario" (la congregazione del Sollievo) composta da diciannove cardinali sotto la presidenza del cardinale Pinelli. La congregazione fu ridotta un anno più tardi a tre cardinali e il G. fu nominato a presiedere la Legazione di Bologna il 25 sett. 1606, in un momento segnato dall'interdetto papale lanciato alla Repubblica di Venezia.
A Bologna, dove arrivò la sera del 7 novembre, il G. dovette affrontare innanzitutto il problema dell'approvvigionamento di grano. Il G. si dimostrò all'altezza dell'impegno e il cardinale nipote Scipione Borghese, lodando la tempestività dei rifornimenti nel gennaio 1607, riferiva la convinzione di Paolo V secondo cui "nella provisione del grano et nel resto […] quello che possa fare persona al mondo farà V. S. Ill.ma per la sua industria et prudenza" (Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Bologna, 184, c. 42). Il G. sfruttò, infatti, i rapporti con il granduca di Toscana per assicurare alla città il fabbisogno di cereali e dedicò al problema annonario nel suo complesso molta parte della sua fitta opera di legislazione.
In particolare egli adottò, quale primo provvedimento, una tariffa calmierata, indipendente dalle congiunture agricole ed economiche, che regolò i processi produttivi e il sistema annonario. Altrettanto impegno profuse nella gestione dell'ordine pubblico. Le misure legislative riguardarono il divieto di portare armi, di frequentare le osterie per gli uomini sposati, la proibizione del gioco; emanò inoltre norme sull'espulsione di vagabondi e forestieri. Le sue misure culminarono nel gennaio 1608 in un bando generale, più volte reiterato e i cui accenti di severità impressionarono la cittadinanza, e nella riforma della procedura, pubblicata nel settembre dello stesso anno. All'intensa attività normativa si accompagnò la recrudescenza delle pene e nei cinque anni del suo mandato la Cronaca di P.E. Aldrovandi ricorda che furono messe a morte oltre cinquanta persone per crimini contro il patrimonio o la persona. La repressione dei reati e la lotta al banditismo furono condotte in accordo con il duca di Mantova (novembre 1608), con il granduca di Toscana e con Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza.
Dagli aneddoti relativi alla legazione, si evince la volontà del G. di verificare personalmente l'osservanza degli ordini e l'integrità dei suoi uomini con mezzi anche d'effetto, venati di un certo gusto per la teatralità. Non mancarono, pertanto, giudizi di critica al legato e ai suoi provvedimenti legislativi, considerati poco rispettosi del contesto politico locale nell'apportare modifiche alle leggi vigenti, e allo stile eccessivamente severo e sbrigativo del suo governo. Di tali sentimenti rimane traccia in alcune lettere in cui si ammonisce il G. "che si guardi la vita perché si è trattato e si tratta di farli come è stato fatto al re di Francia" (Arch. di Stato di Roma, Arch. Giustiniani, b. 103, 5 ag. 1610). Nell'autunno del 1609 Paolo V aveva confermato la legazione, ma fu desiderio del G. ritornare a Roma. Egli temeva "di perdere l'antianità, la quale è stata sempre stimata et procurata dai cardinali assenti essere causa publica et ottenuta come si vede nel card.l Morone quando andò al Concilio et nel card.l Bellay" (ibid., 18 febbr. 1611), e forse non gradiva una così prolungata assenza da Roma, del tutto inusuale nella sua carriera di Curia. Il 5 ag. 1611 il G. fu richiamato formalmente e sostituito da Maffeo Barberini, sebbene fosse stata intenzione del papa e del cardinale Borghese "non solo che continuasse questo altro anno, ma anche rifermarlo per altro triennio" (ibid., 7 luglio 1611).
A Bologna, nel 1611, il G. era intervenuto contro il frate domenicano Tommaso Caccini che aveva voluto inscenare una campagna denigratoria contro Galileo Galilei e "lo fece ricantare a forza di birri una simile scappata fatta in pergamo" (Ed. naz… Galilei, XII, p. 127). L'episodio tornò alla ribalta nel gennaio del 1615, quando il frate, che durante la predicazione dell'Avvento aveva colto l'occasione per confutare la tesi copernicana della rotazione terrestre e l'inconciliabilità con il Libro di Giosuè, divulgò la lettera di Galilei a Benedetto Castello e presentò accuse che aprirono la strada al primo processo contro lo scienziato. In questo frangente il G. intervenne a contenere le ambiziose intemperanze del frate e "trattò di quella scappata che fece a Bologna, et ve lo dico del certo; et si reputa haverli fatto un grandissimo servizio a quietar[lo]" (ibid., XII, p. 418).
Nel marzo 1617 Paolo V elevò a congregazione religiosa gli scolopi e il G., che dal 1609 aveva sostituito Ludovico Torres quale cardinal protettore di Giuseppe Calasanzio e dei suoi uomini, peraltro già favoriti dal Baronio e da Silvio Antoniano, presiedette nella cappella del palazzo di famiglia alla vestizione e nel 1618 ricevette i voti solenni; in seguito assicurò loro, con l'aiuto del cardinale Scipione Lancellotti, la residenza di palazzo Torres. Nell'agosto 1618 il G. entrò a far parte della congregazione incaricata di affrontare il problema della prigionia del cardinale Melchiorre Klesl.
Il prelato, che era stato consigliere dell'imperatore Mattia e si era distinto per l'atteggiamento rigoroso nelle questioni religiose, ma anche per i modi scostanti, aveva ceduto a una politica moderata nei confronti dei protestanti e soprattutto nella questione della successione imperiale aveva dimostrato grande ambiguità, procrastinando la riunione della Dieta elettorale, sicché Ferdinando di Boemia e Massimiliano di Baviera ne avevano deciso l'arresto alla fine di luglio.
Durante il conclave del gennaio 1621 il G. sperò di essere eletto pontefice e soffrì dell'opposizione dei cardinali genovesi Domenico Rivalora e Giacomo Serra.
Il G. morì a Roma il 27 marzo 1621 e fu inumato in S. Maria sopra Minerva, nella cappella di famiglia presso il sepolcro del padre. Al fratello lasciò tutti i suoi beni, sensibilmente diminuiti, secondo Theodor Amayden, rispetto a quanto aveva ricevuto dal genitore. Egli stesso, d'altronde, nel testamento rimarcò di aver "speso più di cento trentamila scudi in la corte et scapitato il mio patrimonio" (Roma, Arch. stor. Capitolino, Arch. Urbano, Sez. I, vol. 331, c. 249).
Il rapporto del G. con l'arte, oltre a essere frutto della sua personale passione, fu veicolato e diversificato dai vari ruoli che egli si trovò a svolgere nel contesto politico-religioso romano tra la fine del Cinquecento e i primi due decenni del Seicento. I suoi interventi apparentemente più convenzionali sono quelli connessi con il suo status di cardinale e di titolare, in successione, delle chiese di S. Giorgio al Velabro, S. Marcello e, soprattutto, dal 1599 sino al 1611, S. Prisca.
Di là dagli interventi ordinari di manutenzione e ripristino, fu in S. Prisca, sollecitato dalla coincidenza con l'anno santo del 1600, che il G. si fece promotore di una massiccia campagna di ristrutturazione e di decorazione artistica. Quell'attività portò, a opera del suo architetto di fiducia Carlo Lambardi, alla realizzazione della nuova facciata e a una complessiva risistemazione dell'area presbiteriale, e produsse gli estesi arredi pittorici che ancora oggi si possono apprezzare all'interno dell'edificio.
Sull'altare maggiore fu collocata la pala con il Battesimo della santa, dipinta da Domenico Cresti detto il Passignano, mentre lungo le pareti della navata centrale (Angeli e santi con strumenti della Passione), del presbiterio (Episodi del martirio di s. Prisca), dell'abside e della cripta (Storie di s. Pietro) fu all'opera Anastagio Fontebuoni, allievo del Passignano e pittore assiduamente impegnato dal Giustiniani. L'opera fu eseguita con l'intervento piuttosto ingente di aiuti, fra i quali è stata riconosciuta la mano di Antonio Tempesta (anch'egli protetto e spesso utilizzato dal G.), e si è ipotizzata la presenza di altri artisti fiorentini attivi a Roma, quali Matteo Rosselli, Nicodemo Ferrucci, Fabrizio Boschi o Filippo Tarchiani. Si trattò di un intervento massiccio, organico e coerente dal punto di vista iconografico, funzionale e perfino stilistico, che allineò due significativi esponenti della scuola pittorica fiorentina, l'opera dei quali presentava un certo grado di parentela sotto il profilo del linguaggio pittorico.
Del resto quel giro di anni, in concomitanza con il lungo e attivo papato di Clemente VIII Aldobrandini (coadiuvato dal cardinale fiorentino Alessandro de' Medici), segnò una congiuntura decisamente propizia per gli artisti toscani a Roma, che si videro assegnare diverse e importanti commissioni religiose. Nel 1599 infatti lo stesso Fontebuoni ebbe dal cardinale Pompeo Arrigoni l'incarico di realizzare gli affreschi del catino absidale di S. Balbina; fra il 1601 e il 1603 furono eseguiti gli affreschi del transetto e dell'abside di S. Vitale da Andrea Commodi e Agostino Ciampelli, quest'ultimo impegnato da Alessandro de' Medici anche nell'abside di S. Maria in Trastevere. Di particolare rilevanza fu la decorazione pittorica della cappella di S. Gerolamo nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, per le pareti della quale, nel 1599, giunsero a Roma da Firenze tre pale firmate da Santi di Tito, Ludovico Cardi detto il Cigoli e dallo stesso Passignano, attivo a S. Prisca.
I nuovi arredi pittorici voluti per la chiesa di S. Prisca, dunque, mostrano il G., proprio all'inizio del nuovo secolo, partecipe di orientamenti artistici affermati, e al contempo denunciano scelte, per quel che riguarda le opere di destinazione pubblica, aggiornate ma assai caute quanto ad apertura modernista.
Dalle opere commissionate trapela inoltre il rispetto di quei principî generali di chiarezza iconografica e compositiva, fedeltà storica al dettato delle fonti, messa in evidenza dei nodi cultuali salienti, sottolineatura degli aspetti capaci di catturare l'emozione dello spettatore che in epoca postridentina definirono un criterio di massima per le opere pubbliche di soggetto religioso, sulla convenienza e adeguatezza del quale venne affermandosi un generale consenso.
Dai lavori del G. in S. Prisca emerge, infine, il suo impegno (anche questo affidato all'architetto Lambardi) volto al ripristino, definibile come parafilologico, delle vestigia della preesistente chiesa paleocristiana, segnatamente la confessione, con l'altare che la tradizione voleva impiegato dall'apostolo Pietro per le funzioni religiose.
Questa iniziativa si accordava con la tendenza al recupero delle memorie e dei documenti della Chiesa primitiva e - in parallelo con le monumentali ricerche archeologiche di ecclesiastici eruditi come Alonso Chacon, Antonio Bosio, Cesare Baronio e Federico Borromeo - alla riproposizione e alla valorizzazione dei contenuti di esemplarità e purezza a essa connaturati. Tale composita azione di salvaguardia, restauro e attualizzazione implicava un intento moralizzatore combinato con uno sforzo di definizione di valori, nonché una funzionalità catechetico-pastorale. Essa cominciò a definirsi negli anni Ottanta del XVI secolo, con i restauri condotti in S. Maria in Trastevere dal cardinale Marco Sittico Altemps, seguiti dalle ristrutturazioni promosse da Federico Borromeo in S. Nicola in Carcere al principio dell'ultimo decennio del Cinquecento, per giungere ai radicali interventi di sistemazione voluti dal Baronio nella chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo (che versava in condizioni conservative drammatiche quando il cardinale, nel 1596, ne aveva assunto la titolarità), e all'imponente restauro di S. Cecilia, patrocinato da Paolo Camillo Sfondrati.
Fra il 1606 e il 1611 il G. fu legato pontificio a Bologna. Grazie al contatto diretto con le opere e con i pittori della scuola bolognese, nel momento della sua massima ed eccezionale fioritura, il G. ebbe l'opportunità di allargare le sue conoscenze e competenze artistiche e di dare slancio alla sua vena di collezionista e committente.
L'elenco contenuto nell'Entrata della guardaroba del G., redatto senza soluzione di continuità fra il 1600 e il 1611 circa per mano di diversi segretari, e l'inventario post mortem dei suoi beni, stilato il 31 marzo 1621, registrano in effetti una quantità ingente di dipinti bolognesi e la presenza sostanzialmente completa dei più grandi pittori contemporanei formatisi in quella città: i tre maggiori Carracci, il Mastelletta (Giovanni Andrea Donducci), Guido Reni, Bartolomeo Schedoni, Francesco Albani, il Domenichino (Domenico Zampieri), Giovanni Lanfranco, oltre a maestri più antichi come Francesco Francia (Francesco Raibolini), Girolamo da Cotignola (Girolamo Marchesi), Innocenzo da Imola e Pellegrino Tibaldi, e alcuni dei più significativi pittori ferraresi come Garofalo (Benvenuto Tisi), Dosso e Battista Dossi (Giovanni e Battista Luteri) e il Parmigianino (Francesco Mazzola).
Dei cinque anni trascorsi dal G. a Bologna, forniscono rapidi ma saporosi ragguagli i resoconti, non meno bene informati che liberi, compilati da Carlo Cesare Malvasia nella sua celebre raccolta di biografie di pittori, Felsina pittrice. Il G. è citato la prima volta a proposito di Francesco Francia, pittore per il quale egli nutriva una predilezione tanto decisa da spingerlo a sottrarre dal monastero della Misericordia, poco fuori città, un suo dipinto raffigurante S. Sebastiano, e sostituirlo con una modesta copia fatta realizzare a bella posta (I, p. 49). Recentemente è stato proposto il riconoscimento dell'opera nell'inventario del 1621, che documenta la presenza di altri otto dipinti assegnati al Francia: si tratta di un'ipotesi che, stante la laconicità e genericità del riferimento ("un quadro senza cornice di San Bastiano frezzato"), necessita di ulteriori conferme. All'interesse del G. per il Francia fa di nuovo allusione Malvasia in un passo della vita di Alessandro Tiarini (II, p. 139), allorquando racconta che il G. aveva l'abitudine di far ritoccare ("aggiustare a suo capriccio") dallo stesso Tiarini le Madonne del Perugino (Pietro Vannucci) e del Francia che acquistava per la sua collezione: un'informazione che, se veritiera, illuminerebbe la natura controversa del "gusto dei primitivi" da parte dei collezionisti all'inizio del XVII secolo.
Le indicazioni di Malvasia fanno emergere un altro aspetto poco documentato dell'attenzione per l'arte da parte del G., quella rivolta ai disegni, un genere la cui attrattiva, rispetto ai dipinti, si esercitava su un mercato assai ristretto e selezionato. Nelle note biografiche dedicate a Tiburzio Passerotti, infatti, si afferma che questi aveva venduto al G., per 6000 lire, una raccolta dei "più singolari disegni de' più valentuomini" (I, p. 188). Ancora Malvasia testimonia dei rapporti diretti, e piuttosto confidenziali, del G. con Denys Calvaert (I, pp. 200 s.) e del suo attivo e particolare interesse per la pittura accesamente realista di Lorenzo Garbieri (II, pp. 211, 215 s.).
Il riferimento al lungo soggiorno bolognese può suggerire un ruolo del G. come committente di opere d'arte destinate alle sue dimore private e specificamente a inquadrare le circostanze dell'affidamento a Francesco Albani, nel 1609, degli affreschi della grande galleria del palazzo di Bassano di Sutri, acquistato da Giuseppe Giustiniani nel 1595, per destinarlo al figlio Vincenzo.
In considerazione del fatto che Albani fu convocato direttamente a Bassano quando risiedeva a Bologna, come sappiamo per certo grazie a una nota di rimborso relativa alle spese di viaggio del pittore, sembra probabile che i buoni uffici del G. abbiano giocato un ruolo significativo, oltre che sotto il profilo dell'intermediazione, anche per la scelta, da parte di Vincenzo, dell'artista bolognese. Questa circostanza consente di porre in risalto, nella collezione Giustiniani, la presenza di un ciclo di ben quindici tele di mano dell'Albani, tutte dello stesso formato e oggi conservate a Naumburg, nella chiesa di St. Moritz. Nelle tele sono rappresentate, una in ciascuna di esse, le figure di Cristo, della Madonna, di S. Giovanni Battista e dei dodici apostoli, tutte sedute su dense nubi. Le figure hanno una chiara relazione con gli affreschi della cappella Herrera in S. Giacomo degli Spagnoli a Roma, dovuti largamente all'Albani e realizzati all'incirca tra il 1604 e il 1606, quando egli era ancora uno stretto collaboratore di Annibale Carracci, titolare dell'impresa decorativa (la gran parte degli affreschi si trova oggi, in cattive condizioni di conservazione, tra il Museu nacional d'art de Catalunya di Barcellona e il Museo nacional del Prado di Madrid, mentre una parte di essi è andata perduta). Alcune delle tele oggi a Naumburg sono direttamente derivate dagli affreschi della cappella Herrera, mentre altre si limitano a riecheggiarli. Di tale ciclo, così ampio e particolare, non si trova traccia nell'inventario della Guardaroba (1600-11); undici pezzi sono invece descritti nell'inventario del G. del 1621 ("dui quadri senza cornice di S. Giovanni e S. Taddeo", e "nove quadri, senza cornice, delli Apostoli"). Le quindici tele risultano presenti, infine, nell'inventario post mortem dei beni di Vincenzo del 1638 ("Quindici quadri con figure intiere sopra nuvole cioè Cristo, la Madonna, S. Giovanni Battista con li dodici Apostoli").
I resoconti inventariali lasciano dunque senza una risposta certa gli interrogativi circa i modi e i tempi dell'acquisizione di tali opere da parte dei due fratelli. Anche il problema della datazione del ciclo si presenta abbastanza complesso: poiché esso non può avere richiesto tempi brevi di esecuzione, necessita di una collocazione all'interno della cronologia del pittore compatibile con la sequenza dei suoi impegni, fermo restando che la trasparente relazione iconografica e compositiva con gli affreschi Herrera, nonché l'affinità dello stile, implicano una certa contiguità dei tempi di realizzazione. L'intreccio di queste considerazioni con i dati degli inventari sembra così indicare che i Giustiniani furono acquirenti, a più riprese, delle tele, ma non i loro committenti.
Un altro caso di condivisione di responsabilità dei due fratelli nelle commissioni artistiche per il palazzo di Bassano di Sutri può essere ipotizzato anche in riferimento alle decorazioni compiute precedentemente alla convocazione dell'Albani, per le quali erano stati impiegati artisti particolarmente contigui al G., come Antonio Tempesta (in suo favore risultano pagamenti fra il 1603 e il 1605) e come il pittore genovese Bernardo Castello (saldato per il suo lavoro il 3 giugno 1605), buon amico di Giambattista Marino, uomo di notevole cultura ma pittore di maniera piuttosto attardata.
Il Castello aveva reso i suoi servigi ai Giustiniani già nel 1584, realizzando la macchinosa pala d'altare per la cappella di famiglia nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva (la data è riemersa durante il restauro); ma soprattutto, nel 1604 aveva beneficiato del determinante appoggio del G. per ottenere un'importante commissione in S. Pietro: la pala raffigurante la Vocazione di s. Pietro, da collocare in uno degli altari posti sui pilastri che sostengono la cupola. Bisogna ancora aggiungere che dipinti assegnati a Bernardo Castello sono catalogati nella lista dell'Entrata della guardaroba, e ancor più ne risultano nell'inventario dei beni del G. del 1621: fra questi, un ritratto del G. (collezione privata) si deve ritenere un probabile autografo del pittore genovese. Tutto ciò documenta una considerazione per questo artista che, scaturita forse grazie a un favore "municipalistico", dovette poi consolidarsi sulla scorta di un genuino apprezzamento.
Resta, infine, da considerare l'aspetto che ha garantito al G. la massima attenzione da parte dei moderni studi storico-artistici, ossia il suo contributo alla grande collezione Giustiniani, oggi chiarito grazie al ritrovamento di inventari e di altri documenti, che hanno restituito al cardinale l'ampia portata del suo ruolo.
Un riferimento alle opere di proprietà del G. riconducibili alla mano di Annibale Carracci, tutte registrate solamente nell'inventario del 1621 (e in esso mai accompagnate dal nome del pittore), consente di rimarcare come, per quanto sia agevole ipotizzare su legami mediati da contatti comuni, l'attuale stato delle conoscenze non fornisce alcuna prova di rapporti diretti di Annibale con il G. (cosa di cui, piuttosto, avrebbe dovuto fornire un riscontro l'inventario della Guardaroba, dove però non è registrato alcun dipinto del pittore): ciò che, a margine, torna utile a sottolineare la necessità di non sovrapporre automaticamente, nel valutare l'operato di un collezionista, l'attività di committenza a quella di acquisto delle opere d'arte, neanche quando si giudichi di opere e autori a lui contemporanei.
Nelle scelte del G. è agevole rilevare altre predilezioni, in primis quella per l'arte di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, una passione che, com'è noto, lo univa al fratello Vincenzo. In effetti, il gruppo di autografi caravaggeschi presente nel palazzo di famiglia a S. Luigi dei Francesi (complessivamente quindici tele elencate nell'inventario di Vincenzo, del 1638), rende i Giustiniani (ma specialmente per merito di Vincenzo) i maggiori collezionisti e committenti di Caravaggio accanto al cardinale Francesco Maria Del Monte.
Il registro della Guardaroba indica la presenza di due dipinti del Caravaggio: "un quadro grande in tela d'una Maddalena nel deserto nuda e scapigliata con un Cristo in mano", opera perduta, e "un quadro del Cardinale Giustiniano naturale a sedere", un ritratto, anche questo perduto, che il pittore dovette realizzare intorno al 1602. A queste due tele, nelle indicazioni dell'inventario del 1621 se ne aggiungono altre due: "un quadro di San Girolamo", che viene spesso identificato, ma in via ipotetica, con l'esemplare, di attribuzione controversa, conservato nell'abbazia di S. Maria di Montserrat a Barcellona, e "un quadro di nostro Signore nel orto con l'apostoli che dormeno", perduto nel 1945 nel rogo che distrusse molte tele di proprietà del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino.
L'ipotesi, suggerita di recente, che anche l'Incredulità di Tommaso, oggi nella Bildergalerie di Potsdam (opera citata esclusivamente nell'inventario di Vincenzo del 1638), potesse essere di proprietà del G., appare priva di appoggi documentari.
Accanto alle opere dovute alla mano di Caravaggio, risulta poi notevole la presenza, anche nella parte di collezione dovuta al G., di un gruppo di dipinti di aperta influenza caravaggesca: un S. Giovanni Battista nel deserto, probabilmente dello Spadarino (Giovanni Antonio Galli); le due celebri versioni di Amor sacro e amor profano di Giovanni Baglione ("Un quadro grande de mano del Baglione della caduta del Lucifero", e "Un quadro della caduta del Locifero"), oggi conservate alla Gemäldegalerie di Berlino e alla Galleria nazionale di arte antica di palazzo Barberini a Roma; una tela molto importante di Gerrit van Honthorst ("Un quadro di s. Pietro in prigione destato dall'angelo"), anch'essa oggi nella Gemäldegalerie di Berlino; tre opere di Jusepe de Ribera: un S. Giacomo, una Maddalena in estasi, un S. Pietro.
Tale precoce predilezione per la pittura caravaggesca si accorda coerentemente con il favore tributato dal G. a maestri della seconda metà del Cinquecento che nella loro produzione avevano sperimentato forti contrasti chiaroscurali, soluzioni luministiche particolari ed effetti di notturno. Nello specifico, gli inventari documentano una corposa presenza di dipinti di Luca Cambiaso (cinque opere nell'Entrata della guardaroba, fra cui "un quadro grande in tela d'una notte con Cristo condotto a Pilato, in tutto con nove figure", non citato nell'inventario del 1621 e oggi conservato nella genovese Accademia ligustica di belle arti) e di quadri genericamente assegnati al Bassano: tre dipinti registrati nell'inventario della Guardaroba, che diventano sei in quello del 1621. Queste opere sono tutte presenti anche nell'inventario di Vincenzo del 1638, ove cinque di esse vengono riferite a un "Bassano vecchio" e una alla "maniera del Bassano".
Sebbene con l'attribuzione a Bassano vecchio si intendesse accreditare la loro pertinenza a Iacopo Dal Ponte, di gran lunga il più illustre esponente della famiglia di pittori Dal Ponte (e non certo al padre di questo, Francesco il Vecchio, modesto rifornitore di pale d'altare per le chiese dell'entroterra veneto), i dipinti in questione ("la cocina di Marta", "una cocina de pastori", "l'andare delli pastori al presepio", "il nostro Signore nel presepio", "la Madonna quando era in Egitto, con un pastore in ginocchio", "un quadro del presepio e adoratione de pastori"), nessuno dei quali oggi individuabile, paiono riconducibili in prima istanza alla pletora di opere prodotte a ritmi industriali dalla bottega bassanesca, di cui era saturo il mercato artistico di primo Seicento.
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