Benedetto III
Di famiglia romana; il padre si chiamava Pietro. Sin dall'inizio della sua carriera ecclesiastica appare nel clero del patriarchio lateranense, e quindi nella cerchia a più diretto contatto personale con i papi. Ordinato suddiacono da Gregorio IV, aveva ricevuto da Leone IV la consacrazione a cardinale prete del titolo di S. Callisto. Come tale figura fra i sottoscrittori del concilio tenuto da quel papa in S. Pietro l'8 dicembre 853, che aveva sancito, dichiarandola irrevocabile, la rimozione dal ministero sacerdotale di Anastasio Bibliotecario, già cardinale prete del titolo di S. Marcello.
B., quando Leone IV si spense il 17 luglio 855, era senza dubbio uno degli alti ecclesiastici romani del tempo che si potevano considerare preconizzati alla cattedra di s. Pietro. L'anonimo autore della sua biografia nel Liber pontificalis lo presenta cinto dal prestigio di sacerdote di grande dottrina, mitezza, affabilità, carità, devozione. Racconta che clero, aristocrazia laica, plebe e popolo, riuniti per eleggere il nuovo papa, furono unanimi nel gridare il suo nome e nell'accorrere a S. Callisto, dove lo trovarono, come usava, immerso nella preghiera; vincendo le sue riluttanze, lo condussero, secondo l'antichissima tradizione, ad insediarsi nel patriarchio lateranense, ponendolo sul soglio pontificio. Ed era antica tradizione che già in quel momento fosse prestato al nuovo papa il solenne giuramento di fedeltà.
Il racconto nasconde una realtà ben diversa, di animi divisi nel contrasto di varie candidature. Spiccavano allora a Roma le figure di altri alti ecclesiastici legati alle opinioni ed agli interessi dei circoli lateranensi. Due di essi sarebbero presto divenuti papi, Niccolò e Adriano. Adriano apparteneva a famiglia dell'aristocrazia strettamente imparentata con quelle dalle quali erano usciti da poco, e nel breve giro di un ventennio, due papi: Stefano IV e Sergio II. Adriano al tempo di Gregorio IV, che aveva ordinato suddiacono B., era già, e dall'842, cardinale prete del titolo di S. Marco. A questo grado non era ancora salito Niccolò, di recente consacrato diacono da papa Leone IV che aveva ordinato B. cardinale prete. B. Ma la famiglia aveva dato all'amministrazione centrale pontificia un "regionarius", e cioè un alto funzionario, nella persona di suo padre, Teodoro. Non sembra vi fossero, alla morte di Leone IV, fautori dell'elezione di Niccolò; ed il suo biografo esalta l'ardente amicizia e l'assoluta fiducia che B., finché visse, ebbe sempre per lui. Largo seguito aveva invece l'idea di eleggere Adriano, se dobbiamo credere a quanto racconta il suo biografo: tutti gli ordini del clero e tutti i ceti dell'aristocrazia e del popolo lo sollecitavano concordi ad assumere il "summum pontificium"; ma dovettero desistere di fronte alle difficoltà ed alle "exquisitae excusationes" da lui tenacemente opposte. L'esagerazione è evidente; tuttavia non è da escludere che abbia un suo fondamento di verità, del quale rimangono incerti i limiti. Non siamo quindi in grado di stabilire se, ed in quale misura, l'atteggiamento allora assunto da Adriano per sottrarsi alle sollecitazioni ricevute gli fosse suggerito da motivi personali che lo inducevano alla prudenza, in quanto non ignorava che alla successione mirava un ben temibile personaggio qual era Anastasio Bibliotecario.
Nell'844 Lotario I aveva formalmente ribadito la norma che il documento attestante l'avvenuta elezione, "decretum pontificis", fosse sottoposto al sovrano, e prima di consacrare l'eletto si attendesse l'arrivo dell'ordinanza imperiale che autorizzava il rito. Fin qui si rimaneva nel quadro delle antiche tradizioni dei tempi del dominio bizantino. Ma Lotario I aveva sancito anche un obbligo, che mai gli imperatori di Bisanzio avevano imposto: il rito religioso non poteva essere celebrato se non erano presenti i "missi" inviati dal sovrano a Roma per portarvi la sua "iussio". Leone IV, probabilmente nell'850, e in rapporto al fatto che egli, la Pasqua (6 aprile) di quell'anno, aveva incoronato a Roma Ludovico II, associato dal padre all'Impero, aveva riconosciuto la validità di quelle norme in un patto particolare stipulato con entrambi.
Dai tempi di Leone III (795-816) le esperienze romane avevano provato il peso che l'intervento del sovrano poteva esercitare nei cozzi delle fazioni così facili ad accendersi attorno alla cattedra di s. Pietro. Roma non dimenticava certo il clima di terrore creato dalla durezza con cui Ludovico II, e lo zio di Lotario I, Drogone, arcivescovo di Metz, avevano eseguito nove anni prima le istruzioni ricevute dall'imperatore per condurre una rigorosa inchiesta sulla contrastata elezione di Sergio II nel gennaio 844; né potevano essere dimenticati gli eccessi ai quali si era allora abbandonato il grosso esercito che li scortava. Ed a Roma si sapeva che Ludovico II teneva in gran conto Anastasio Bibliotecario. Ciò spiega tanto la cautela di Adriano, se ha un fondamento di verità ciò che di lui appunto si scrive nella sua biografia, quanto il drammatico precipitare degli eventi a Roma, non appena si vide chiaro che proprio l'ex cardinale prete di S. Marcello ambiva, facendosi forte del nome di Ludovico II, ad essere il successore di Leone IV.
I primi ad essere messi al corrente del proposito che Anastasio aveva di agire subito furono i due incaricati di portare a Lotario e a Ludovico II l'atto elettorale con le firme del clero e dell'aristocrazia laica: il vescovo di Anagni Niccolò, ed un alto ufficiale, il "magister militum" Mercurio. Provvide a informarli un consanguineo di Anastasio, Arsenio, allora vescovo di Orte, uno dei capi più autorevoli dei partigiani dell'Impero a Roma, col quale s'incontrarono a Gubbio.
I due inviati da Roma, giunti a destinazione, certo seppero alla corte quanto bastava per farsi, non appena di ritorno, propagandisti occulti dell'elezione di Anastasio, nell'attesa di scoprire il loro gioco all'arrivo dei "missi" che Ludovico II avrebbe inviato in virtù delle norme in vigore. I particolari delle mene tramate a Roma per tutto l'agosto e per gran parte di settembre, dei quali il biografo di B. è così largo, riflettono palesemente la versione che di questi avvenimenti diedero gli avversari di Anastasio. Se ne ricava la netta impressione che i più pronti ad abbandonare l'eletto si trovarono tra i vescovi e nell'aristocrazia, mentre più fermi erano il clero cittadino e le masse popolari.
Le fila erano tenute dallo stesso Anastasio, riunitosi con Arsenio ad Orte, dove li raggiunsero i "missi" imperiali, i due conti Adalberto e Bernardo. Ad Orte affluirono anche subito, o col pretesto di presentarsi agli inviati del sovrano, o lasciando Roma di nascosto, vescovi come Niccolò di Anagni, Radoaldo di Porto ed Agatone di Todi; ed alti ufficiali dell'esercito romano, come i "magistri militum" Mercurio, Gregorio e Cristoforo. Di lì, negli ultimi giorni di settembre, Anastasio, quanti si erano andati stringendo attorno a lui, ed i "missi" imperiali con il seguito, mossero verso Roma. Presero posizione alla chiesa di S. Leucio non lontano da ponte Milvio, ostentando con atteggiamento minaccioso le forze e le armi di cui disponevano. Un tentativo di B. di mettersi in rapporto diretto con i "missi" fu bloccato dall'arresto dei due vescovi da lui inviati con sue lettere, Giorgio di Bomarzo e Maione di Priverno. B. ritentò, valendosi di un alto funzionario dell'amministrazione centrale pontificia, il "secundicerius" Adriano, e di un alto ufficiale, il duca Gregorio. Dei due, il primo finì anch'egli in catene; il duca, a quanto si può supporre, passò alla fazione di Anastasio. L'opera diretta ad isolare B. fu coronata con l'ingiunzione mandata dai "missi" imperiali a Roma, che clero, aristocrazia laica e popolo lasciassero la città e, varcato il ponte Milvio, si presentassero per ricevere da loro gli ordini sovrani. Pronta e generale fu l'obbedienza, per complicità, forse, in alcuni; certo per il terrore nelle masse popolari.
Il 19 ed il 20 settembre fu sferrato il colpo decisivo. Anastasio ed i "missi" imperiali agirono risolutamente e alla testa dei loro uomini cavalcarono, attraverso la piana, allora ancora chiamata "Campus Neronis", da Monte Mario al colle Vaticano, fin sotto le mura da pochi anni erette, per volontà di Leone IV, in difesa del borgo di S. Pietro, che perciò cominciava ad essere denominato "Leonina urbs". Monito a quanti avessero voluto resistere, erano tratti in catene, spinti con le punte delle lance, oltre al "secundicerius" Adriano, altri due personaggi del patriarchio lateranense, evidentemente rimasti fedeli a B.: il "superista sacri palatii" Graziano e lo "scriniarius" Teodoro. Il 20 settembre fu forzato l'accesso alla città leonina. Prima cura di Anastasio fu di cancellare ogni traccia del ricordo dei concili dell'853 che lo avevano colpito con la loro condanna, fissato nelle epigrafi e nelle raffigurazioni commemorative poste, per ordine di Leone IV, alle porte della basilica di S. Pietro. Nel cieco impeto della demolizione andarono in pezzi e furono arse immagini sacre, persino quelle del Cristo e della Vergine, empietà, commentava il biografo, alla quale non si erano attentate neppure le mani dei Saraceni (nel recente sacco dell'846). Il 21 settembre (era un sabato) venne forzato anche l'accesso all'interno di Roma, e le porte del Palazzo Lateranense furono aperte a furia d'armi. B. si fece trovare in atteggiamento pieno di dignità, rivestito dei paramenti papali ed assiso sul trono pontificale. Ne fu spogliato e strappato dal vescovo di Bagnoregio che, commentava il biografo, solo per il nome di battesimo era chiamato Romano. L'ordine veniva da Anastasio, che si affrettò ad assidersi senz'altro egli stesso su quel trono, mentre faceva rinchiudere B. in una stanza del palazzo dove solevano intrattenersi i chierici, perché vi fosse tenuto in rigorosa custodia da due ex presbiteri, che per i loro crimini papa Leone IV aveva condannato e deposto da ogni ufficio sacerdotale.
Proprio allora, quando poteva pensare di avere ormai partita vinta, Anastasio si scontrò con l'improvviso manifestarsi di un'aperta e ostinata resistenza di vescovi, di clero e di popolo, raccolti sul Celio, non lontano dal Laterano, nel titolo di Emiliana (SS. Quattro Coronati). Violenze, che trascesero anche a colpi di bastone ed a percosse con le spade, e minacce di pena capitale, non valsero ai "missi" imperiali di estorcere il consenso alla consacrazione di Anastasio.
Passione di partito e motivi di opportunità confluirono nell'indurre il biografo di B. a preoccuparsi di dare al lettore, col suo racconto, l'impressione che le responsabilità del succedersi di tante violenze fossero, non del sovrano, ma in primo luogo di Anastasio, e poi anche dei "missi" imperiali, nei quali il biografo, da autentico romano ben diverso da quel vescovo di Bagnoregio che lo era solo per il nome di battesimo, sentiva lo straniero inviso. Non per nulla, ad un certo punto, li indica col termine di "Franci". A suo dire, erano succubi di Anastasio. In realtà appare difficile che i due conti inviati da Ludovico II avessero agito indipendentemente dalle istruzioni ricevute. Non meno difficile appare escludere che Ludovico II, lasciato allora solo dal padre che, infermo, era ormai deciso a ritirarsi in un monastero (ed attuò la decisione proprio il 23 di quel mese di settembre), non ritenesse essenziale, per i problemi di un Impero praticamente ridotto all'Italia, ed anche in questa malsicuro, appoggiare la candidatura di un suo fido qual era Anastasio, e deprecare l'avvenuta elezione di un sacerdote qual era B., così legato al papa defunto, che di Anastasio era stato implacabile nemico. Ma anche se a questo miravano le sue istruzioni, i suoi inviati erano ormai giunti ad un punto oltre il quale non potevano andare. Fu certo la conclusione cui arrivarono quando, nel titolo di Emiliana, si appartarono, come scrive il biografo, a confabulare tra loro "secretius lingua eorum". Ne abbiamo la prova nell'immediato mutamento del loro contegno.
Il 24 settembre i "missi" imperiali non solo non tentarono neppure di ostacolare il rinnovarsi dell'elezione da parte dei vescovi, del clero e della folla di popolo raccolti nella basilica del Salvatore al Laterano, ma subito dopo convocarono vescovi, sacerdoti e clero nel palazzo papale; discussero pacatamente; autorizzarono la liberazione di B.; s'impegnarono a cacciare essi stessi dal patriarchio Anastasio; proposero tre giorni di digiuno e di preghiera, dopo i quali si sarebbe presa una decisione definitiva. E così fu fatto. Cacciato ignominiosamente Anastasio, B. fu tratto fuori dal luogo dov'era custodito, condotto prima all'adiacente basilica del Salvatore al Laterano; poi, datogli lo stesso cavallo che Leone IV era solito montare, fu accompagnato, "magna populi praecedente caterva", alla basilica di S. Maria "ad Praesepe". Qui tutti passarono nel pianto e nelle preghiere tre giorni e tre notti di digiuno. Qui, il sabato 28 settembre, quanti avevano aderito ad Anastasio, meno il vescovo di Porto Radoaldo, proclamarono il loro errore, baciarono i piedi dell'eletto, invocarono di essere da lui accolti come le bibliche pecorelle smarrite nelle selve; e B. se li strinse al seno, ed esortò a gioire per il ritorno all'unità della Chiesa. Si presentarono anche i missi imperiali. Si appartarono a parlare con B. in un colloquio riservato, del quale il biografo si limita a rilevare la cordialità; certo, le cose allora dette "secretius", egli o non sapeva o non voleva divulgare. La giornata si chiuse nell'esultanza generale, con il rinnovato insediamento dell'eletto nel patriarchio lateranense e sul soglio pontificio.
La domenica seguente, 29 settembre 855 (il giorno si può ritenere sicuro, nonostante i dubbi del Duchesne), B. fu finalmente consacrato in S. Pietro. Dei tre vescovi che dovevano officiare (di Ostia, di Albano e di Porto), fu escluso, per la sua pertinacia a non volersi staccare da Anastasio, Radoaldo di Porto. Lo stesso giorno Lotario I si spegneva nel monastero di Prüm.
Queste vicende costituiscono senza dubbio il momento più saliente della vita di B., e dovevano essere rievocate, sia perché in esse egli si mostrò di una fermezza esemplare, sia perché danno un quadro eloquente delle condizioni cui di fatto era ridotto nel sec. IX il papato, divenuto strumento di potere politico sul quale gli imperatori intendevano affermare un loro diritto di superiore vigilanza e disciplina. A ciò, nella sostanza, aveva inteso anche Ludovico II. Si potrebbe ritenere il racconto del biografo tendenzioso al punto da snaturare completamente l'opera dei "missi" imperiali, i quali in realtà avrebbero condotto solo un'inchiesta rigorosa sulle circostanze dell'elezione di B., traendo motivo dai suoi risultati per imporre una nuova elezione in condizioni a loro parere più regolari, perché la loro presenza sul posto avrebbe garantito, a quanti l'avevano avversata, la libera espressione dei propri voti per un nome diverso. Ma rimarrebbe sempre innegabile il fatto dell'assurdità in sé di una candidatura caldeggiata proprio per un uomo che gravissime condanne canoniche avevano escluso dalla comunità dei fedeli. Ed è innegabile il fatto che i "missi" imperiali erano andati oltre il lecito già nel consentire che un tal uomo s'insediasse con la violenza sul soglio pontificio cacciandone Benedetto. Evidente è poi il fatto che i due conti, se provvidero essi stessi ad espellere dal Laterano l'intruso, non permisero pene e rappresaglie né contro di lui, né contro i capi della sua fazione. Arsenio e Radoaldo conservarono indisturbati le rispettive sedi episcopali. Per Anastasio, B. convocò un concilio che, se ribadì la condanna della privazione delle vesti sacerdotali, lo riammise tuttavia nella comunione, se non altro, dei laici. E ad Anastasio fu anche concesso il godimento dell'abbazia di S. Maria in Trastevere, né gli fu recata molestia di sorta. La mancanza nella biografia di B. di ogni notizia su tanta clemenza non può stupire; sarebbe stata una nota stonata nell'accorta orchestrazione di un racconto costantemente ostile all'ex cardinale prete di S. Marcello. La clemenza usata dai vincitori ai vinti, così contrastante con i costumi spietati del tempo, può essere spiegata solo ammettendo che essa fu la condizione sine qua non posta dai "missi" imperiali, come interpreti autorizzati di Ludovico II, ed a tutela dei suoi interessi politici, per dare via libera alla nuova elezione di B. ed alla sua consacrazione. Secondo ogni probabilità, tale condizione fu l'oggetto principale proprio di quel colloquio segreto, di cui il biografo parla in termini generici, che i due conti ebbero con B. nella basilica di S. Maria "ad Praesepe", finito il triduo del digiuno e delle preghiere, la vigilia della sua consacrazione. I vincitori, accettando la condizione, riconoscevano, sia pure perché costretti da uno stato di necessità, la liceità sostanziale dell'intervento dei rappresentanti del sovrano nella controversia elettorale, e rinunciavano ad ogni protesta per le forme nelle quali i "missi" imperiali lo avevano esercitato durante i giorni delle violenze e dei tentativi d'intimidazione. Vero è che B. ebbe cura di far restaurare e ridipingere all'ingresso della basilica di S. Pietro le raffigurazioni, e certo anche le relative iscrizioni commemorative, dei concili dell'853, che Anastasio si era tanto affannato a far scomparire.
Il biografo, così attento a dare di quei drammatici giorni un racconto colorito e particolareggiato, per il pontificato di B. si limita a registrare di preferenza le cure da lui rivolte a luoghi del culto, a monasteri, a cimiteri di Roma e delle sue adiacenze, largheggiando in doni di arredi e di paramenti sacri preziosi. Nella lista nutrita di nomi e di oggetti, dei quali sono precisati la natura ed il valore, troviamo le chiese di S. Balbina, di S. Callisto, di S. Ciriaco (tanto il titolo in città quanto l'omonima chiesa sulla via Ostiense beneficiarono delle sue liberalità), di S. Crisogono, di S. Felice al Pincio, di S. Lorenzo fuori le Mura, di S. Maria Antiqua, di S. Maria "ad Praesepe", di S. Paolo fuori le Mura, di S. Pietro (le due basiliche dei principi degli apostoli ritornano nella lista più volte), dei SS. Pietro e Marcellino, del Salvatore al Laterano; i monasteri di S. Anastasio "ad Aquas Salvias", dei SS. Sergio e Bacco "Callinici", di S. Vito; la basilica cimiteriale di S. Marco fuori Porta Appia. B. si occupò anche della chiesa di S. Sebastiano a Frascati. Egli intervenne inoltre con veri e propri interventi di restauro: tali interventi, in Urbe, riguardarono la copertura della navata centrale della basilica vaticana, in corrispondenza del transetto (Le Liber pontificalis, p. 146: di questi interventi stranamente non fa cenno R. Krautheimer), il battistero della basilica di S. Maria Maggiore e la chiesa di S. Maria in Trastevere, di cui furono ricostruiti il portico, il battistero (fino all'intervento di B. mai nominato) e la sacrestia ("secretarium"), nonché l'abside (già oggetto di restauri al tempo del predecessore di B., Leone IV), che viene dotata di vetri istoriati e di una decorazione musiva (ibid., p. 147; R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, III, pp. 67, 69).
Un'altra provvidenza di B. merita di essere ricordata, per i suoi rapporti con la liturgia romana. Saputo della scomparsa, per negligenza o per furto, del volume in cui erano ordinatamente raccolti i testi di s. Paolo, degli altri apostoli e dei profeti, che i suddiaconi leggevano all'ambone nelle varie chiese stazionali, il papa dispose che ne fosse subito preparato un altro, con l'aggiunta dei passi in greco ed in latino da leggere il sabato santo ed il sabato di Pentecoste, rilegato con tavole d'argento di mirabile fattura. Nel complesso si ha un quadro che appare veramente notevole, quando si ponga mente alla brevità del pontificato. B. volle anche assicurare un'adeguata dignità ai riti funebri celebrati a Roma per le esequie dei papi e di alti ecclesiastici. Un suo specifico "constitutum" precisò che il papa doveva partecipare di persona a quelle di vescovi, presbiteri e diaconi; e che questi, alla loro volta, dovevano partecipare tutti alle esequie di un papa.
Sull'attività di B. in ambiti che superavano la sfera cittadina di Roma, scarse, scarne e frammentarie sono le notizie rimasteci. Ma da esse intravvediamo momenti, pur se isolati, di un'importanza tale, da apparire come pietruzze da raccogliere con ogni cura, per usarle debitamente nella ricomposizione del grande mosaico dei rapporti nel sec. IX del papato con i due Imperi, con i Regni d'Italia e dei Franchi, con la Chiesa di Costantinopoli.
Da una lettera scritta nell'862 dal suo successore Niccolò I risulta che B. deplorò che nella Bretagna, regione della Francia allora sotto il dominio di un principe locale, tributario e vassallo di Carlo il Calvo, vescovi fossero cacciati dalle loro sedi, ed in esse sostituiti da altri, per opera di laici, senza che fosse intervenuta una sentenza canonica da parte del collegio episcopale competente per quella zona; e dichiarò di non permettere in nessun modo un simile arbitrio. Il maggior personaggio del mondo ecclesiastico franco del tempo, Incmaro arcivescovo di Reims, attestava l'autenticità di un privilegio rilasciato da B. per concedergli, a sua richiesta, non solo l'approvazione degli atti del II concilio di Soissons del 28 aprile 853, ma anche la conferma del primato della sua sede metropolitana e della sua giurisdizione, con la riserva del rispetto dovuto allo "ius Apostolicae Sedis". È giunto sino a noi, conservato nella biblioteca di Amiens, l'originale in papiro dell'atto con cui, in data 7 ottobre 855, B., nove giorni appena dopo la consacrazione (è il primo dei pochissimi scritti di questo papa di cui si abbia notizia), concesse all'insigne abbazia di Corbie, allora sotto il governo di Oddone, la conferma dei suoi possessi e privilegi. All'abbazia palatina dei Carolingi, S. Dionigi, ed al suo abate Ludovico, B., con privilegio dell'11 maggio 857, confermò i beni posseduti "apud Anglos Saxones in terra Britanniae". In favore di un monastero di Solignac (presso Limoges), spogliato di alcuni suoi possessi, intervenne ordinandone la restituzione a chi li deteneva illegalmente. Anche nel Regno dei Franchi orientali l'abate che allora reggeva uno dei più famosi monasteri di fondazione bonifaciana, Teotone di Fulda, si rivolse a lui per chiedere la conferma dei suoi privilegi, e l'ottenne con atto del 23 ottobre 857. Casi di norme con le quali B. stabilì le pene canoniche da infliggere anche fuori della provincia ecclesiastica romana a chi avesse commesso gravissimi delitti, come il parricidio ed il fratricidio, attestano due sue lettere ai vescovi Rataldo di Strasburgo e Salomone di Costanza.
Per i Regni dei Franchi sappiamo di interventi di B. anche in problemi che toccavano direttamente così la loro situazione all'interno, come i rapporti personali dell'imperatore con i fratelli re di Lorena, Lotario II, e di Provenza, Carlo. Purtroppo un aspetto così importante del suo pontificato a malapena trapela dal pochissimo a noi giunto di quanto egli poté aver motivo di scrivere e di fare in proposito. Uomo fra i più screditati dei potenti di quei Regni era Uberto, abate di S. Maurizio. Donna sventuratissima fu sua sorella Teutperga, che proprio di questi anni andò sposa a Lotario II, per divenire subito la vittima di accuse infamanti (perfino d'incesto appunto con Uberto) da parte del marito, smanioso di sbarazzarsi di lei per aprirsi la via al matrimonio con l'amante Waldrada. Dell'856 è il convegno nel quale ad Orbe nel Vallese Ludovico II s'incontrò con Lotario II e con Carlo per trattare un accordo. Di B. rimane una lettera dell'857, in cui egli enumera e denuncia le colpe commesse, e la vita scandalosa condotta da Uberto, che dice "clericus" illecitamente impadronitosi dell'abbazia di S. Maurizio, contaminatore di quella di Luxeuil per avervi soggiornato in compagnia di donne di malaffare, e indotto dalle sue brame a tramare perché andasse infranta la pace promossa dal papa tra Ludovico II ed i suoi fratelli. La lettera, indirizzata agli arcivescovi e vescovi del Regno di Provenza perché provvedessero a farla recapitare all'indegno, intimava che Uberto si presentasse a Roma al giudizio del papa nel termine di trenta giorni, a decorrere da quello in cui ne avesse avuto comunicazione. B. si era dunque attivamente adoperato perché il convegno di Orbe avesse un esito positivo; si preoccupava delle nefaste conseguenze che nella vita morale dei Franchi, e nei rapporti politici dei tre fratelli coronati, potevano provocare le turpitudini e le mene del cognato di Lotario II; intendeva intervenire energicamente impegnando, con la sua autorità, l'intero episcopato di Provenza a farsi esecutore dei suoi ordini.
Un altro deciso intervento di B. negli episodi di malcostume, che così spesso macchiavano il gran mondo carolingio, risulta da lettere dell'864 e dell'867 del suo successore. Lo scandalo era questa volta scoppiato nel Regno d'Italia. Aveva coperto d'onta uno dei suoi conti, Bosone, però della stessa famiglia di Uberto e di Teutperga, dei quali era fratello; ne era causa la consorte del conte, Engeltrude, che, dopo averlo tradito, lo aveva abbandonato, per fuggire insieme con l'amante in Francia, dove trovava asilo compiacente. B. era ormai alla fine del suo pontificato quando impegnò, questa volta, oltre ai vescovi, anche l'imperatore Ludovico II, i re dei vari Regni franchi, i loro grandi ed i loro "fideles", perché si ottenesse il ritorno dell'adultera al legittimo domicilio coniugale, od almeno la sua segregazione. Gli autori dello scandalo godevano dell'impunità in Francia ancora al tempo di Niccolò I, che dovette ritornare sul loro caso. Ed in un'altra lettera di questo papa, dell'868, troviamo un brevissimo accenno, da cui si ricava che B. lo aveva preceduto anche per l'intervento della Sede apostolica nella grossa e spinosa questione delle accuse infamanti mosse da Lotario II alla consorte Teutperga, per estorcere alla Chiesa il consenso a ripudiarla.
Di fronte alla Chiesa di Costantinopoli B. si mantenne sulle orme del predecessore Leone IV nell'affermare decisamente il primato giurisdizionale di Roma. L'arcivescovo di Siracusa Gregorio, dall'843 profugo a Costantinopoli, e qui venuto in urto con quel patriarca Ignazio, era stato da questo deposto. Si erano rivolti entrambi di recente a Leone IV: il patriarca per chiedergli la conferma della sentenza; l'arcivescovo per appellarsi contro di essa, ed ottenerne l'annullamento. Leone IV aveva avocato la causa al suo giudizio, ordinando alle parti di esporre le loro ragioni a Roma, in contraddittorio davanti a lui. A Roma Gregorio aveva già mandato un suo legato; e così anche Ignazio, che insisteva nel richiedere la conferma della sua sentenza. Il suo legato era un monaco di nome Lazzaro, che è certo il monaco di ugual nome di cui scrive il biografo di B., dicendolo anche esperto di arte pittorica, e latore di una lettera in greco, vergata con caratteri aurei, spedita da Michele III, e di oggetti di grande valore, tra i quali un magnifico esemplare del vangelo rilegato in oro purissimo fregiato di gemme, che l'imperatore bizantino offriva in dono a S. Pietro. Giustamente il Duchesne mette lettera e doni in rapporto con la questione dell'arcivescovo deposto, della quale il biografo tace. Lazzaro era partito da Costantinopoli quando ancora non vi era giunta la notizia della successione a Leone IV di Benedetto. Il quale rispose ad Ignazio negli stessi termini del suo predecessore: nessuna conferma della sentenza; giudizio a Roma istruito e deciso dal papa; ordine al patriarca di contrapporre le sue alle ragioni del rappresentante dell'arcivescovo, o venendo di persona davanti al papa, o per mezzo di inviati che l'imperatore avrebbe dovuto mandare a Roma. Il destinatario ricevette la lettera nel luglio 858, quando B. era morto da alcuni mesi, e pochi mesi prima di essere lui stesso deposto per volontà del sovrano. Le notizie in proposito risultano da lettere di Niccolò I dell'866, e da una di Adriano II dell'869. Anche questa controversia, infatti, continuò a trascinarsi, sino a confluire nella grande controversia tra la Chiesa di Roma e Bisanzio provocata appunto dalla deposizione d'Ignazio e dall'avvento di Fozio.
Anche l'ultimo atto di B. di cui ci sia rimasto il testo riguarda l'esercizio delle prerogative giurisdizionali della Sede apostolica: con bolla del 30 marzo 858 il papa concedeva al patriarca di Grado Vitale l'uso del pallio. Della stessa data e rilasciato a Roma è un diploma di Ludovico II in favore dell'abbazia di Nonantola. Dal biografo di Niccolò I abbiamo notizia che Ludovico II era appena partito da Roma quando B. (il 7 aprile) venne a morte, e che fu indotto da un tale annuncio a ritornarvi d'urgenza. Un incontro "ad limina S. Petri" con l'imperatore, certo venuto nell'imminenza della Pasqua (3 aprile), chiuse dunque il pontificato di chi lo aveva assunto a dispetto dei rappresentanti dell'autorità sovrana. Fatto indubbiamente di notevole rilievo politico, del quale tuttavia tacquero così il biografo del papa come Incmaro nei suoi Annales Bertiniani, e che perciò non siamo in grado di valutare. Il biografo registra invece con evidente compiacenza una visita a Roma, che ha una particolare importanza così nella storia dei rapporti della sua Chiesa con i Regni degli Anglosassoni, come nella storia delle finanze pontificie. Ethelwulf, re del Wessex, venuto in pellegrinaggio con molto seguito, si era mostrato di una munificenza veramente regale non solo nei doni preziosi offerti a S. Pietro, ma anche nelle quantità d'oro e d'argento da lui distribuite a vescovi, presbiteri, diaconi, al clero in genere, agli "optimates Romani", e nel "minutum argentum" elargito al "populus". Al re B. rivolse la richiesta che istituisse nel Regno un contributo stabile, a carico del tesoro pubblico, in favore della Chiesa di Roma. Ethelwulf era giunto nell'855, vivente ancora Leone IV; si era trattenuto per un anno intero. Aveva condotto con sé il figlio Alfredo, allora un fanciullo, che, salito al trono, si sarebbe a buon diritto conquistato l'epiteto di "grande". E dal biografo di Alfredo, Asser, sappiamo che suo padre, prima di morire nell'858, stabilì che ogni anno fossero inviati alla Chiesa di Roma 300 mancusi, destinati in parte al papa, in parte alle spese per le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. Ad un'iniziativa partita da B. si dovette dunque se riprese vita, dopo i tempi di Offa II re di Mercia (756-796), un contributo finanziario ai bisogni del papato, di provenienza anglosassone, che può essere messo in qualche rapporto con la tassazione poi indicata col termine di "st. Peter's pence".
Il giorno delle esequie (7 aprile 858) la salma di B. fu portata a spalla, dal Laterano alla basilica del principe degli apostoli, dai diaconi. Tra di essi vi era Niccolò, il suo amico prediletto, fidatissimo consigliere e suo successore, che con le proprie mani ne compose i resti mortali nella tomba preparata "ante fores beati Petri". Breve fu il pontificato di B., ma quanto ne sappiamo basta ad assicurargli nella storia un degno posto tra quelli di papi della statura di Leone IV e di Niccolò I.
fonti e bibliografia
Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, s.v. Benedictus III, pp. 140-50; ibid., s.v. Nicolaus I, capp. IV-V, p. 151; ibid., s.v. Hadrianus II, cap. III, p. 173.
Benedicti III Epistolae, in P.L., CXV, coll. 698-701; ibid.,CXXIX, coll. 1001-12.
Id., Epistola episcopis in regno Karoli regis iunioris morantibus, ad a. 857, in M.G.H., Epistolae, V, 2, Epistolae Karolini Aevi tom. III, a cura di E. Dümmler-A. de Hirsch-Gereuth, 1899, pp. 612-14.
Id., Vitali archiepiscopo Gradensi, regesto, in P.F. Kehr, Italia Pontificia, VII, 2, Berolini 1925, p. 43 n. 38.
Id., Epistola Hincmaro Remensi archiepiscopi, in M.G.H., Epistolae, VI, 2, Epistolae Karolini aevi tom. IV, a cura di E. Perels, 1925, tra le lettere di Niccolò I, nr. 59a, pp. 367 s. (cfr. Hincmari Epistolae, ibid., VIII, 1, Epistolae Karolini Aevi tom. VI, a cura di E. Perels, 1939, nrr. 184, 198, pp. 175, 213, 215-16).
Nicolai I Epistolae, nrr. 29, 53 (B. e la questione di Engeltrude), 90-2, 98 (B. e la questione del patriarca Ignazio), 107 (B. e la questione dei vescovi bretoni), ibid., VI, 2, Epistolae Karolini Aevi tom. IV, a cura di E. Perels, 1925, pp. 295, 341, 500 s., 519, 521, 527, 528, 533 s., 557, 558, 559, 620; Hadriani II Epistolae, nr. 10, ibid., p. 711 (per la questione di Lotario II), e nr. 39, ibid., p. 751 (per la questione d'Ignazio); epitaffio di B. in Le Liber pontificalis, p. 150 n. 27 alla vita; regesti in Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I-II, Lipsiae 1885-88: I, pp. 339-41; II, p. 744.
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Annales Bertiniani, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, V, a cura di G. Waitz, 1883, auctore Prudenzio, ad aa. 855, 856, 858, pp. 45, 47, 50; auctore Hincmaro, ad a. 868, pp. 93 s.
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