Benedetto IX
A Teofilatto, figlio di Alberico III, conte di Tuscolo, terzo di una serie di tre pontefici appartenenti alla famiglia tuscolana - Benedetto VIII e Giovanni XIX -, è toccato di rappresentare, nel valore emblematico più significativo e con una peculiarità di motivazioni, in un contesto unico, forse, in tutta la storia del papato altomedievale, il segno della assoluta mondanizzazione e strumentalizzazione del potere papale, contro la quale si sarebbe levata, nella seconda metà di quello stesso sec. XI che aveva visto la sua elezione, la sua espulsione, il suo rientro in Roma, la sua definitiva sconfitta, la reazione della Riforma gregoriana.
Quadro a tinte decise, questo, lasciatoci da tutta una storiografia eccezionalmente concorde nella caratterizzazione dei tratti morali ed umani del pontefice tuscolano: e quadro che, per quanto non insolito nei casi di alcuni pontefici (Formoso, Giovanni XII), ha trovato, come non è invece avvenuto appunto negli altri casi, anche nella storiografia relativamente recente, una ricezione se non del tutto consenziente, certo non insensibile alle deformazioni che, da punti di vista differenti, hanno suggerito i contemporanei. Tutti, senza distinzione: fossero essi genericamente - e monasticamente - ostili al papato romano più tipico del particolarismo, o almeno uno dei più tipici, quali Rodolfo Glabro; o fautori dell'azione bonificatrice e moralizzatrice, e di tutela abbastanza esplicita, dell'imperatore Enrico III e, genericamente, dell'Impero, quali il cronista degli Annales Altahenses o quello degli Annales Corbeienses o Ermanno Contratto; o fossero sostenitori di una regolarità e spiritualità assoluta della vita religiosa nell'ambito dell'ordinamento canonico, con un'intonazione sensibilmente ierocratica e certamente antimperiale, quali l'anonimo autore del De ordinando pontifice (a cura di E. Dümmler, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I, a cura di Id.-L. von Heinemann-F. Thaner, 1891, pp. 8-14); o gregoriani accesi quali Bonizone di Sutri; o austeri spiriti monastici quali Odilone di Cluny o Pier Damiani. Il che peraltro non toglie, come potrà rilevare un concreto ed oggettivo lineamento biografico tracciato essenzialmente su basi documentarie, che, storiograficamente, la figura di B. debba e possa mantenere il suo valore emblematico: tanto più significativo di orientamenti nuovi e di deciso mutamento di clima storico, quanto più quel lineamento biografico, intessuto di fatti e di azioni sostanzialmente "normali", si distacca dal giudizio negativo, ma molto rilevato, delle fonti narrative contemporanee.
Incerta la data di nascita e l'esatta posizione di Teofilatto nell'ordine di genitura: da Alberico III, "comes sacri Lateranensis Palatii", nascevano infatti, oltre a Teofilatto, Gregorio, Pietro ed Ottaviano, nominati, in quest'ordine, in una donazione da loro fatta il 18 settembre 1055 al monastero dei SS. Cosma e Damiano e, nello stesso ordine, per gli ultimi tre, in una carta del 9 gennaio 1056, relativa alla celebrazione di messe di suffragio per Benedetto IX. Ma il primo documento non può, come ha rilevato il Borino (L'elezione, p. 146 n. 1), suggerire un ordine effettivo, per quanto concerne l'eventualità di una primogenitura di Teofilatto rispetto agli altri, in quanto "egli aveva rivestito la dignità papale e manteneva le pretese al pontificato" (ibid.). Ancor più malcerta, pertanto, risulta l'indicazione di una probabile data di nascita, dovendosi ritenere appunto un topos polemico storiografico l'insistenza sull'età possibile di Teofilatto al momento in cui egli ascendeva al soglio papale, unico esempio cronologico di attenzione - va pur notato - di cronisti ed annalisti del sec. XI.
"Puer ferme decennis", ma anche "puer circiter annorum duodecim" (cfr. Rodolfo Glabro, Historiae IV, 5; V, 5) per il cronista già monaco di S. Benigno di Digione, e poi di St-Germain d'Auxerre; "parvulus" per l'anonimo biografo di Leone IX edito dal Poncelet e ancor sì giovane da non poter essere gerarchicamente avanzato per Luca di Grottaferrata e "adolescens" per Desiderio di Montecassino, Teofilatto ascendeva al soglio pontificio certamente in età giovane, ma adulta tra il 27 agosto ed il 3 settembre 1032: a partire da quest'anno, infatti, in documenti privati compare la "datatio" con riferimento ai suoi anni di pontificato.
Indicativo, in tal senso, un documento privato compreso ne Le più antiche carte dell'abbazia di S. Maria Val di Ponte (Montelabbate) (di Perugia), a cura di V. De Donato, Roma 1962, nr. 4, pp. 10 ss., in cui nella "datatio" si fa riferimento all'anno ottavo di pontificato di un papa Benedetto, nel mese di marzo di un anno dell'ottava indizione: tale documento è datato dall'editore al marzo 1040, anche se con alcune perplessità. Le quali, invece, non hanno ragione di sussistere - almeno per i motivi addotti dall'editore stesso - perché il papa Benedetto è, come giustamente vuole il De Donato, proprio B., incoronato certamente dopo il marzo 1032 - è inesatto che lo Jaffé lo faccia incoronare nel gennaio 1032; semmai 1033 - e precisamente dopo il 1° settembre 1032. Dopo il 1° settembre 1039, infatti, incominciava sia l'ottavo anno di pontificato di B., sia l'ottava indizione, secondo il computo bizantino, allora largamente usato nell'Italia centrale: e poiché si tratta del mese di marzo, è evidente che non può essere che il mese di marzo dell'anno 1040.
D'altra parte se il padre di B., Alberico, era attivo come giudice nel 999, sembra ammissibile, come con argomenti plausibili ha supposto il Poole, che B. non nascesse quando il padre doveva avere circa cinquant'anni. A tale conclusione, infatti, si dovrebbe arrivare per ammettere che B. avesse dodici anni al momento dell'ascesa; il che prospetterebbe una cronologia siffatta: nel 999 Alberico deve avere all'incirca ventiquattro anni; nel 1020 nasce Teofilatto (B.) che, appunto a dodici anni, nel 1032 diviene papa; ma allora nel 1020 Alberico è intorno ai quarantacinque anni. Si deve allora a forza ammettere che B. fosse più vicino ai 30 anni che ai 10 quando divenne papa (R.L. Poole, p. 19 dell'estratto): B. cioè doveva essere all'incirca venticinquenne. A parte la contraddizione dei due passi di Glabro, su ricordati, non è difficile immaginare, come hanno immaginato gli studiosi più qualificati (R.L. Poole, G.B. Borino, ecc.) che il cronista di St-Germain d'Auxerre abbia attinto quel "duodecim" da una fonte in cui si parlava di un'espulsione di B. dopo dodici anni di papato: o anche che un copista possa aver trasformato un "papa Benedictus per annos XII Sedem apostolicam obsidisset" in un "papa Benedictus puer circiter annorum XII" (cfr. F. Baix-L. Jadin, col. 93).
Né la testimonianza di Luca di Grottaferrata, il famoso "νέοϚ ὦν", osterebbe, poiché il "νέοϚ" poteva certamente indicare un venticinquenne.
Chiara sembra ormai anche la questione relativa alle "numerose" espulsioni da Roma del papa, fondate anche in questo caso sulla narrazione di Rodolfo Glabro: questi, nel capitolo nono del libro IV delle sue Historiae, narra che in concomitanza di un'eclissi di sole, il 29 giugno dell'anno 1000 (!), di venerdì, "quidam de principibus Romanorum conspirantes insurrexerunt in papam Romanum, cupientes illum interimere". B., rifugiatosi presso l'imperatore, sarebbe stato riposto sul trono pontificio dallo stesso Corrado II. Ora a parte l'evidente errore di quell'"anno dominicae passionis millesimo", l'eclissi di sole cadde nel 1033 il 29 giugno, come è stato stabilito dal Millosevich (Benedetto IX e l'eclisse di sole del 29 giugno 1033, "Rendiconti dell'Accademia dei Lincei", 4, 1888, nr. 2, pp. 68 s.); e nel 1033 Corrado II non era in Italia, onde B. non si sarebbe certamente potuto rifugiare presso di lui. E poiché l'imperatore soggiornò in Italia dalla fine del 1036 al luglio del 1038, è as-solutamente impensabile, come ha rilevato il Borino (L'elezio-ne, p. 152), che la Sede apostolica restasse vacante fino al periodo 1037-1038: Wipone, comunque, non parla affatto di una "restaurazione" ad opera di Corrado II. Non pare possa accettarsi l'osservazione del Poole al Borino (p. 29 n. 3) per il quale "anno dominicae passionis millesimo" indicherebbe appunto il millesimo anno dalla passione di Cristo, cioè appunto il 1033: "anno dominicae passionis" è una chiara indicazione dell'uso del cosiddetto "mos gallicanus" (diffuso in Francia ed in Borgogna), per il quale l'anno si iniziava nel giorno di Pasqua (cfr. A. Giry, Manuel de diplomatique, Paris 1894). Ugualmente infondata si mostra l'ipotesi del Gregorovius che cerca di collocare cronologicamente la notizia di questa prima espulsione, fornita da Rodolfo Glabro, nel 1037; poiché in effetti nell'estate del 1037, come si dirà, B. si recò a Cremona presso Corrado II, la notizia di Glabro troverebbe una conferma. Va tuttavia notato che non trova comunque conferma la notizia di una sollevazione di Romani in quell'anno: onde non rimane che pensare ad una confusione di Rodolfo Glabro. Confusione che egli avrebbe commesso anticipando al 1033 gli avvenimenti del 1044: quando cioè realmente B., ai primi di settembre, venne espulso da Roma, nelle circostanze che esamineremo. Quanto all'altra espulsione raccontata da Rodolfo Glabro, nel quinto capitolo del V libro, proprio alla fine delle sue Historiae, appare manifestamente che si tratta di una sorta di "contaminatio" tra la cacciata del 1044 e la condanna pronunciata a Sutri - e ripetuta a Roma - nel 1046: Glabro, infatti, come se di B. non avesse mai parlato innanzi, ripete la notizia del papa fanciullo - ma questa volta dodicenne - "ordinatus contra ius fasque; et quoniam infelicem habuit introitum, infeliciorem persensit exitum", aggiungendo che "cum consensu totius Romani populi atque ex praecepto imperatoris deiectus est a sede". Parole e notizie ad effetto, chiaramente: dacché B. non conobbe certamente una fine disgraziata, come meglio si dirà in seguito. Né è vero che quella stessa volontà imperiale di Enrico III che aveva deposto B., avesse innalzato in sua vece Gregorio VI, come afferma sempre lo stesso Glabro.
Non fanciullo, quindi, al momento dell'elezione, come nonostante la sostanziale sfiducia verso il cronista di St-Germain d'Auxerre continua a ritenere il Borino, e forse nemmeno laico, poiché nessuna fonte lo accusa di tal crimine, B. fu eletto certamente grazie all'appoggio della famiglia: ma questa circostanza che di lì a pochi anni sarebbe stata considerata una forma larvata di simonia non costituì nella libellistica e nella cronistica contemporanea un'accusa per B., di per sé. L'esercizio di una forma di simonia "attiva" - acquisto di carica ecclesiastica - è sì imputato a B. dall'anonimo autore del trattato De ordinando pontifice oltre che, genericamente, da Rodolfo Glabro: ma stante il fatto che lo scritto fu composto all'indomani del ritorno al soglio pontificio di B. dopo la morte di Clemente II (fine 1047), non è facile collocare cronologicamente la notizia di un versamento di denaro da parte di B., che potrebbe essere stato effettuato sia al momento dell'elezione, sia al momento del ritorno dopo la parentesi del pontificato di Silvestro III. Decisiva, invece, la testimonianza del De ordinando pontifice al fine di accertare le modalità della successione di Gregorio VI: e di ciò più innanzi.
Le grandi linee della politica di B. non risultarono sostanzialmente diverse da quelle dei suoi predecessori: almeno sino a quando risultò funzionale l'alleanza con la casa imperiale di Franconia nella persona di Corrado II, quella con Bonifacio di Canossa e quella con Guaimario di Salerno. I limiti di questa politica risultarono, alla fine, essere quelli oggettivi insiti nell'azione a breve respiro che di fatto contraddistinse l'operato di B., condizionato dalla necessità di mantenere il soglio papale quale punto d'appoggio per la potenza tuscolana: una potenza che si esercitava essenzialmente intorno a Roma, nel Lazio e in Umbria. Le "aperture" verso una condotta politica più larga, che in singoli episodi ed atti del pontificato di B. si potrebbero individuare, non sfuggono, come si vedrà, alla possibilità di un'interpretazione meramente strumentale ed occasionale, e semmai sarà da notare che il significato di un'attività di normale amministrazione (concessione di privilegi, regolamento di dispute patrimoniali, ecc.) può più agevolmente cogliersi ove sia tenuto presente - come in alcuni casi è pur possibile e doveroso fare - l'atteggiamento che i successori, specie Leone IX, assunsero di fronte a questioni da lui già affrontate.
Oggetto di particolare interessamento, a considerare bolle e privilegi papali dei primi anni di pontificato di B., appare la diocesi di Perugia ed il suo vescovo Andrea, il quale, se il 2 novembre 1036, dietro richiesta dello stesso B. sollecitato dall'abate Bonizone, faceva atto formale di rinunzia al monastero di S. Pietro di Perugia, immediatamente soggetto alla Sede romana, ma già in passato contestato dal presule perugino (cfr. Italia pontificia, IV, a cura di P.F. Kehr, Berolini 1909, pp. 67 s.), riceveva però, si può ben dire, in cambio, il monastero di S. Maria di Val di Ponte da lui refutato con S. Pietro. Segno indubbio della transazione che dovette esserci, a questo proposito, tra B. e Andrea ci pare sia la circostanza che Leone IX, il 25 marzo 1049, annullava la concessione di B., poi confermata da Gregorio VI, in quanto presa da pontefici ingiusti, e stabiliva, concedendo possessi e decime, il diritto esclusivo per il pontefice romano di esigere il fodro da S. Maria di Val di Ponte (cfr. ibid., p. 77 n. 3; Le più antiche carte, pp. 12-4). Anche se il vescovo perugino non era più Andrea, ma forse Otgerio, la disposizione di Leone IX rientrava nell'ambito di una politica di "regolarizzazione" dei rapporti tra gli enti ecclesiastici dell'Italia centrale. Lo stesso Leone IX del resto confermava l'esenzione dall'ordinario diocesano già stabilita da B. e da Gregorio VI, per S. Pietro di Perugia, che dal papa tuscolano aveva avuto anche la Massa Casalina.
Nell'estate del 1037, per concorde testimonianza di Ermanno Contratto e di Wipone, mentre Corrado II, promulgato l'Edictum de beneficiis e allontanatosi da Milano, si trovava a Cremona, il papa lo incontrava in quella città. Caduta, come si è visto, la possibilità di intendere il viaggio come una fuga da Roma, rimane la probabilità che l'incontro avvenisse per le difficoltà in cui si era trovato l'imperatore dinanzi alla resistenza di Ariberto e per la conseguente necessità di un appoggio papale all'azione di Corrado. Che nell'incontro di Cremona B. abbia consacrato quell'Ambrogio che Corrado II aveva opposto ad Ariberto, secondo la notizia fornita da Wipone, è stato cautamente ipotizzato dal Mathis e dal Baix: ciò dopo che, a detta degli Annales Hildesheimenses (in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, VIII, a cura di G. Waitz, 1878, p. 42), lo stesso B. ebbe rivolto ad Ariberto "iustas crebras ammoniciones". L'anno successivo, a Spello, in un concilio tenuto insieme con Corrado - o in un concilio romano, senza la presenza dell'imperatore, secondo l'interpretazione del Mathis - B. scomunicò Ariberto, senza, peraltro, che il provvedimento desse risultati di qualche rilievo.
Non preoccupazioni e prospettive generali, del resto, ma un normale e naturale appoggio all'opera di ricostituzione del patrimonio ecclesiastico diocesano spiegano probabilmente l'atteggiamento favorevole di B. verso i canonici di Firenze, nel 1036: atteggiamento che peraltro non prescinde da una sostanziale identità di posizione con quella di Attone, vescovo della stessa diocesi fiorentina. Questi, infatti, richiedeva con supplica del novembre 1036 che venissero confermate dal papa le disposizioni da lui prese a favore della vita in comune del clero fiorentino: e B., apponendo la sua sottoscrizione alla supplica di Attone, prendeva sotto la sua "defensio" i canonici ed i loro beni, confermando (24 marzo 1038), al preposito Rolando, i privilegi e le donazioni di Attone (cfr. O. Capitani, Attone, in D.B.I., IV, p. 561). Giova notare che anche questi provvedimenti vennero confermati da Leone IX. Nel 1037 B. concedeva a Bartolomeo di Grottaferrata una terra (Italia pontificia, II, a cura di P.F. Kehr, Berolini 1907, p. 42); nel novembre dello stesso anno egli confermava i diritti di Pietro vescovo di Silvacandida, stabilendo che i suoi successori sarebbero stati bibliotecari di Santa Romana Chiesa (ibid., p. 222); in un anno imprecisato (tra il 1037 ed il 1048?: cfr. ibid., VII, 1, a cura di P.F. Kehr, ivi 1923, p. 22) confermava i privilegi di Benedetto VI a Gualtiero vescovo di Verona; riconosceva a Gumbaldo abate del monastero di S. Croce di Bordeaux i possessi del monastero di Notre Dame de Soulac (cfr. Provinces ecclésiastiques d'Auch et de Bordeaux, a cura di R.P. Dom-J.-M. Besse, Paris 1910 [Archives de la France monastique, 3], pp. 92 e 106); al conte Rodolfo di Rimini concedeva la chiesa di S. Maria in Turremuro e locava la metà del Comitato di Pesaro, nonché la pieve di S. Pietro nel Comitato urbinate (cfr. Italia pontificia, IV, pp. 174, 182, 221).
Forse negli anni tra il 1037 ed il 1038 è da porsi il matrimonio tra Teodora di Gregorio di Tuscolo e Pandolfo fratello di Guaimario V di Salerno: certo esso avvenne dopo il 1032 e parecchio prima del 1052 (cfr. P. Fedele, Di alcune relazioni fra i conti del Tuscolo ed i principi di Salerno, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 28, 1905, pp. 5-21). L'alleanza matrimoniale tra la famiglia del potente principe di Salerno e i Tuscolani comportava del resto una sicurezza della politica imperiale verso il mezzogiorno d'Italia, dati i buoni rapporti tra gli stessi Tuscolani e Corrado II e garantiva a Guaimario l'appoggio imperiale nei riguardi di eventuali ribelli: come fu appunto nel caso di Pandolfo di Capua, privato da Corrado II del suo dominio che venne affidato a Guaimario. E ciò senza che si debba pensare ad una precisa sollecitazione di B. verso Corrado II, che sarebbe stata fatta nell'ipotetico incontro di Spello, come vuole il Fedele (ibid.), così come forse non è necessario credere in pieno al racconto di Luca di Grottaferrata che afferma essere stato l'intervento dei Tuscolani presso Guaimario, nel 1045, a determinare la liberazione di Adenolfo d'Aquino tenuto prigioniero, in seguito ad una ribellione, da Guaimario.
Il 15 ottobre 1040, secondo un documento dell'Archivio di S. Vittore di Marsiglia, B. avrebbe presenziato un concilio tenutosi in quella città, concedendo vari privilegi allo stesso monastero: ma tale presenza non sembra che possa essere confermata (lo stesso Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, p. 521, è dubbioso). Il documento, pubblicato ed ampiamente commentato da J.H. Albanès-U. Chevalier, in Gallia Christiana novissima, II, Marseille, Valence 1889, pp. 54-8, concesso in occasione della consacrazione della chiesa di S. Vittore di Marsiglia, non è originale come avevano creduto i due curatori della Gallia Christiana novissima, ma copia della fine del sec. XI (cfr. E. Duprat, Études sur la charte de 1040, relative à la consécration de l'Église de St. Victor de Marseille, "Bulletin Philologique et Historique du Comité des Travaux Historiques et Scientifiques. 1922-1923", 44, 1925, pp. 25-33) e certamente, come ha rilevato il Mathis (p. 561), sorprende perché, insieme con la menzione di vescovi ed alti personaggi del clero francese, non ricorda nessun esponente del clero romano. Va inoltre osservato che due altri documenti relativi a privilegi concessi a S. Vittore di Marsiglia nella medesima occasione non menzionano la presenza di Benedetto IX. Che poi, stante la presenza di Raimbaldo di Arles alla consacrazione e tra i sottoscrittori del documento in questione, si debba pensare a un qualche rapporto tra B. ed il movimento della "Tregua di Dio", che fioriva in Provenza proprio negli anni 1039-1041, come vorrebbe il Borino (L'elezione, p. 165 n. 1), non sembra probabile: infatti la notizia riferita da Conone nei suoi Gesta Episcoporum Lausannensium (in M.G.H., Scriptores, XXIV, a cura di G. Waitz, 1879, p. 799) di un mandato papale ad Ugo di Losanna che sarebbe dovuto essere stato espresso intorno al 1038-1039, relativamente all'istituzione della "Tregua di Dio" - del movimento Raimbaldo di Arles, Ugo di Losanna e Odilone di Cluny erano esponenti qualificati e importanti -, va presa con estrema cautela, in quanto lo stesso Conone, che del resto scriveva i suoi Gesta intorno al 1235, dopo che un incendio aveva distrutto i più antichi documenti relativi alla Chiesa di Losanna, scriveva "Hugo statuit treugam Dei de mandato domini pape, ut dicitur" (su ciò v. anche Germania pontificia, II, 2, a cura di A. Brackmann, Berolini 1927, pp. 170 s., e per una visione d'insieme relativamente ai problemi della "Tregua di Dio", anche in riferimento a B., H. Hoffmann, Gottesfriede und Treuga Dei, Stuttgart 1964, pp. 82 e 217 n. 4).
Buoni i rapporti tra B. e il nuovo re Enrico III, almeno nel primo periodo di regno del figlio di Corrado II, come dimostra l'atteggiamento assunto dal pontefice a proposito del trafugamento del corpo di s. Adalberto operato da Bretislao di Boemia e da Severo, arcivescovo di Praga, compiuto ai danni di tutta la Chiesa tedesca (Adalberto era stato apostolo della Prussia): B., informato della cosa, si affrettò a scomunicare il duca Bretislao e Severo, mentre Enrico III scendeva in armi contro i Boemi che avevano ingrandito i loro domini e invaso la Polonia. In seguito a una legazione di Boemi a Roma, il papa si indusse a mitigare la condanna, commutandola nell'obbligo della costruzione di un monastero. Difficile dire se l'azione del papa fosse coordinata con quella del re, al quale erano state anche avanzate profferte di amichevole composizione: par certo comunque arguire da tutto l'episodio che papato e Regno germanico avessero agito anche in questa circostanza di comune accordo. Analogamente, nel 1041, in occasione della rivolta di Samuele di Ungheria contro Pietro, re di quella regione, rifugiatosi presso la corte tedesca, provocando la guerra tra Enrico e lo stesso Samuele, B. aveva scomunicato coloro che si erano rivoltati contro Pietro.
Va altresì ricordato che nel sinodo del 25 dicembre 1041, a Roma, aderendo alle richieste del clero e del vescovo di Treviri, B. aveva canonizzato un asceta, Simone, morto a Treviri: lo annunciava in una bolla indirizzata "archiepiscopis, sacerdotibus et universo clero cunctisque populis tam regni Teutonici quam etiam quaruncunque nationum vel linguarum" (un'altra, rivolta allo stesso arcivescovo Poppone di Treviri, non è esente da sospetti di falso: cfr. Regesta Pontificum Romanorum, nr. 4113. Cfr. per le fonti agiografiche sul personaggio Bibliotheca Hagiographica Latina [...], II, Bruxellis 1900-01, nr. 7963). Nel 1041 ingiungeva ad Arduino di Montefeltro di cedere al vescovo di Sarsina Uberto la pieve di Bagni di Romagna e risolveva una contestazione tra Bonizone di Toscanella e Godizone di Castro circa il possesso di due villaggi (cfr. rispettivamente Italia pontificia, V, a cura di P.F. Kehr, Berolini 1911, p. 118; II, p. 197); forse nello stesso 1041 consacrava Giovanni come vescovo di Troia (ibid., IX, a cura di W. Holtzmann, ivi 1962, p. 203). In anno imprecisato, tra il 1036 ed il 1040, staccava Siponto dalla diocesi di Benevento costituendola in arcivescovato per il vescovo Leone, che fu avanzato di grado: provvedimento che doveva essere cassato dai successori Leone IX e Stefano IX (cfr. le note di W. Holtzmann, a proposito di un'erronea attribuzione del Klewitz, che voleva riferire a Benedetto VIII la decisione, ibid., p. 235).
Nel novembre 1043 erano in Germania, messi apostolici, Andrea vescovo di Perugia, personaggio probabilmente legato a B., ed un "clericus" Sichelmo: per il loro intervento il 30 novembre 1043 da Ingelheim Enrico III concedeva al monastero di S. Miniato di Firenze la "defensio" regia sui benefici ricevuti dalla Chiesa fiorentina (cfr. Diplomata Henrici III, nr. 115). Non appare probabile che la presenza dei due messi fosse motivata esclusivamente dall'intervento a favore di S. Miniato: anche se è difficile rispondere con un sì all'interrogativo che si pone il Borino (L'elezione, p. 164) circa l'eventualità di una sanzione ufficiale di approvazione alle nozze di Enrico con Agnese di Poitou, riguardata in taluni ambienti come incestuosa. In realtà la questione dell'irregolarità canonica delle nozze di Enrico è stata eccessivamente gonfiata dall'anonimo autore del De ordinando pontifice: il quale comunque mette Gregorio VI, non B., in relazione con l'episodio, facendo intendere che Enrico III si sarebbe vendicato di Giovanni Graziano per la sua opposizione alle nozze con la cugina. C'è forse piuttosto da richiamare alla mente la circostanza che proprio il 1043 vide una più intensa attività del messo regio Adalgero, che placitò a Pavia, ad Asti, a Marengo, a Como, fatto che poteva essere inteso come segno di una possibile, imminente discesa di Enrico in Italia, che avrebbe probabilmente dovuto affrontare tutta una serie di problemi relativi alla vita ecclesiastica e alla situazione dei patrimoni delle chiese vescovili: il che, si crede, implicava di necessità un discorso sui modi di elezione dei vescovi e sulle pratiche simoniache, indipendentemente da ogni attribuzione di intenti riformatori all'operato di Enrico III. Il fatto che Enrico scendesse in Italia solo dopo altri tre anni non svuotò di significato queste inevitabili prospettive della sua politica italiana, perché esse erano, si torna a ripeterlo, implicite nella situazione dell'episcopato italiano: anzi, nel 1046, il discorso si sarebbe dovuto fare al livello dello stesso pontificato romano. Missione esplorativa, quindi, si vorrebbe suggerire, quella del vescovo di Perugia: quali impressioni ne traesse è, comunque, difficile dire, in assenza di precise notizie in merito. Si ricorda solo che Andrea era tra i vescovi che parteciparono al sinodo dell'aprile 1044 che condannò implicitamente l'appoggio dato da Enrico III a Poppone di Aquileia e che, in maniera significativa, se si presta fede alla Vita anonima di Leone IX edita dal Poncelet, al concilio romano del 1049, che avrebbe avviato, almeno in ambito romano, le prime riforme, proprio un successore di Andrea nella sede di Perugia, Otgerio, avrebbe proposto un'energica, definitiva azione contro i residui focolai di resistenza del gruppo appoggiato a B. (cfr. O. Capitani, Immunità, p. 272 n. 171).
Falso il privilegio attribuito a B. del marzo 1044 (o 1045), relativo alla concessione del pallio ad Adalberto di Amburgo (lo mostra J. von Pflugck-Harttung, Die ältesten Bullen des Erzbis-thums Hamburg-Bremen, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 23, 1883, pp. 202 s.); è da attribuirsi a Benedetto X la concessione del pallio ad Aronne di Cracovia. Da una notizia di P. Ewald, Reisen nach Spanien im Winter von 1878 auf 1879, "Neues Archiv der Gesellschaft für Ältere Deutsche Geschichtskunde", 6, 1880-81, p. 301, si apprende che nel ms. Dd 145 della Biblioteca Nazionale di Madrid del sec. XVIII, a p. 164 si troverebbero le indicazioni di due lettere di B. - di cui peraltro non viene fornita indicazione cronologica - relative al monastero femminile di S. Juan de las Abadessas (Ripoll): il papa con la prima lettera sopprime, a causa della cattiva condotta morale delle monache, il monastero, favorendo una fondazione di canonici regolari; nella seconda concede a un conte Bernardo di istituire una sede episcopale per il fratello Wifredo nei monasteri di S. Juan o di S. Paolo di Finisterre o di S. Salvatore. Difficile dire se si tratti di lettere di B.: lo Schmitz (Histoire de l'ordre de S. Benoît, VII, Maredsous 1956, p. 128) parla di Benedetto VIII, senza dare nessuna indicazione in proposito e lasciando il sospetto che possa trattarsi di un errore materiale di stampa. Ove si trattasse comunque di B. non sarebbe difficile pensare che più che per favorire i canonici regolari B. abbia agito per consentire a Wifredo di avere una sede episcopale.
Proprio tenendo conto di quanto si è osservato a proposito della missione in Germania del 1043, si deve, forse, considerare quello che sinora ha rappresentato quasi un topos della tradizione storiografica non smentito: intendiamo il carattere decisivo e cruciale per i rapporti tra B. ed Enrico III che assunse la questione delle relazioni tra il patriarcato di Aquileia e la sede di Grado. Da tempo il patriarcato di Aquileia rappresentava una testa di ponte avanzata dell'Impero tedesco nell'Italia nordorientale: e ciò non era probabilmente dovuto al fatto che quelle zone erano state il punto di partenza delle rivolte di un Berengario I ("culla della dinastia nazionale dei Berengari", come scrive il Borino, L'elezione, p. 166), quanto all'ovvia e naturale considerazione che attraverso il territorio veneto dovevano forzatamente passare tutti coloro che, re di Germania in procinto di cingere la corona imperiale o messi regi tedeschi o truppe tedesche, dai territori tedeschi calavano nella pianura padana. Se appare ormai impossibile credere a una sistematica politica imperiale a favore dei "vescovi-conti", che erano, eminentemente, vescovi che si andavano attribuendo, attraverso concessioni immunitarie negative e positive, come attraverso diplomi imperiali spesso carpiti non senza frode (cfr. per tutto ciò C. Manaresi, Alle origini del potere dei vescovi, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 58, 1944, pp. 221-334, e più ancora E. Duprè Theseider, Vescovi e città, in Vescovi e Diocesi in Italia dal secolo IX al secolo XIII, Padova 1964, pp. 55-109), poteri giurisdizionali di fatto, si deve altresì ammettere che gli imperatori tedeschi mantenessero dei saldi punti di appoggio nel Regno (Milano, Aquileia, Ravenna), in posizioni chiave per il controllo delle vie di comunicazione tra Germania e Italia e tra Italia settentrionale e Roma. Nessuna coloritura nazionalistica, quindi, nel contrasto tra le tendenze egemoniche del patriarcato di Aquileia, spalleggiato da Corrado II e poi da Enrico III, ed il patriarcato di Grado, ma solo un aspetto della politica di inserimento dei re tedeschi nel gioco politico delle forze particolaristiche dell'Italia settentrionale, difficilmente controllabili da lontano in maniera diretta e quindi studiatamente condizionate attraverso l'appoggio concesso a determinati elementi del gioco stesso. E tanto meno sarà da vedersi nella sinodica che B. si indusse a scrivere a conclusione del concilio dell'aprile 1044 contro le usurpazioni del patriarca di Aquileia ai danni di quello di Grado, il risultato di un'insospettata sensibilità del papa tuscolano: tale comunque che consenta di avallare il giudizio del Borino (L'elezione, p. 167): "le genti di Venezia ed il patriarca di Grado trovarono contro le sopraffazioni di questa insolente avanguardia di Germania un appoggio nel papa di Roma". Nel concilio del 1044 furono presenti diciassette vescovi e numerosi abati; un numero elevato e difficilmente raggiunto in altri concili durante il pontificato di B.; ci si è così chiesti (F. Baix-L. Jadin) se non fosse stata una pressione dell'alto clero italiano a spingere il papa ad assumere un atteggiamento duro nei confronti di Enrico: pressione, questa, determinata da una certa pericolosa invadenza del giovane figlio di Corrado II nei riguardi dell'episcopato italiano.
È difficile dare una risposta al quesito: anche se bisogna riconoscere alla sua semplice posizione una notevole forza interpretativa che parrebbe almeno parzialmente confermata da studi recenti. Se, infatti, è indubbio che un grande interessamento per le cose d'Italia non ci poté essere da parte di Enrico prima del 1046, come ha indicato il Violante, deve anche essere tenuta presente la circostanza che proprio da una presa di posizione nei riguardi dell'episcopato italiano a Pavia, nel concilio dell'ottobre 1046, parrebbe prendere le mosse la politica di Enrico in Italia (cfr. O. Capitani, Immunità, pp. 196 ss.), in un tentativo di ritrovare, attraverso la prassi normativa, nella coincidenza "della regolamentazione degli aspetti economico-sociali della vita della Chiesa con quella degli aspetti disciplinari", un lineamento unitario di sovranità su quelle forze del "Regnum" che erano rappresentate dai vescovi. Ed è significativo, d'altronde, che il 25 ottobre 1046, al sinodo di Pavia, non fossero presenti i vescovi dell'Italia centrale, quelli appunto che in gran parte avevano partecipato al sinodo dell'aprile 1044. Poco prima, infatti, Enrico aveva deposto Widgero che egli stesso aveva promosso all'arciepiscopato di Ravenna: azione che, quale sia il significato che possa esserle attribuito, aveva colorito di ferma decisione la capacità di azione del sovrano.
Poppone di Treven, morto nel 1042, aveva avuto ad opera di Enrico III un successore ad Aquileia in Eberardo canonico di Augusta (cfr. G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens, Leipzig 1913, p. 32); Grado era rimasta, come aveva stabilito già Giovanni XIX, zio di B., legata ad Aquileia e nessuno aveva pensato di accogliere le proteste dei Gradesi. Ma negli anni tra il 1043 ed il 1044, se era apparso evidente che Enrico, per le sue lotte e i suoi contrasti con l'Ungheria e con Goffredo il Barbuto di Lorena, non sarebbe potuto discendere presto in Italia, era diventato chiaro altresì che nel "Regnum", fiaccata la potenza di Ariberto, l'episcopato contava delle forze unicamente tra i fedeli del re: elementi, vale a dire, del tipo di Eberardo di Aquileia. Il resto dell'episcopato poteva temere, quindi, non tanto il sostituirsi di un'altra forza dell'Italia settentrionale a quella di Ariberto, ma proprio l'assenza di una forza siffatta: ché quella di Ariberto, pur certamente non impiegata in un disegno di raccolta collettiva degli interessi, politici, economici e religiosi, dell'alto clero dell'Italia settentrionale, contro l'invadenza tedesca - è questa, notoriamente, una deformazione romantica - proprio nell'esaltazione della dimensione politica del particolarismo, non poteva non servirsi a vario livello delle forze, grandi e piccole, che costituivano il telaio della realtà storica dell'Italia centro-settentrionale della prima metà del sec. XI. Ma in assenza di Ariberto e di chi volesse e potesse svolgere una funzione analoga, quell'equilibrio di particolarismi grandi e piccoli che nell'arcivescovo milanese aveva trovato il fulcro, la situazione non poteva non evolversi a vantaggio di forze estranee al gioco propriamente italiano. Tutto ciò poteva essere stato compreso prima dall'episcopato dell'Italia settentrionale e centrale: specie da quest'ultimo i cui legami con la casa regnante tedesca non erano così fitti e puntuali quali erano per l'episcopato del settentrione d'Italia; e forse alla fine fu compreso dallo stesso Benedetto IX. La minaccia interna di fazioni antituscolane, l'incertezza dell'eventualità di un appoggio da parte di Enrico, la dimensione strettamente regionale - come non poteva non essere, del resto - della base di forza dei Tuscolani, potrebbero aver suggerito a B. non certo un attacco al re e ad Eberardo, che nella bolla del sinodo dell'aprile 1044 non sono nemmeno menzionati, ma una presa di posizione che potesse tentare di esaltare una funzione del papato in difesa degli interessi episcopali italiani non legati al trono. Così le suppliche di Urso di Grado e di Domenico Contareno "dux Venetorum" trovarono alla fine (dal 1042 erano passati due anni) ascolto: Grado fu staccata da Aquileia ed eretta nuovamente in patriarcato autonomo. La felice impresa avrebbe costituito una carta di una certa importanza nell'eventualità di nuovi, più puntuali incontri con Enrico III.
A questo punto la situazione interna romana precipitò: nel settembre del 1044 una rivolta "popolare" costrinse B. a trovare scampo nella rocca tuscolana di Monte Cavo.
Il Borino ha preso in considerazione a lungo la possibilità di ricostruire, sulla base degli scarsi e spesso contraddittori elementi forniti dagli Annales Romani, da Rodolfo Glabro, dal Chronicon e dal Regestum farfensi, dagli Annales Altahenses, da Ermanno Augiense, da Desiderio di Montecassino, da Bonizone e da Bennone, le vicende che precedettero e seguirono l'espulsione di Benedetto IX. La notizia più ampia è fornita dagli Annales Romani (in Le Liber pontificalis, p. 331) che, pur sbagliando la collocazione cronologica degli avvenimenti (MXLVI anziché MXLIV) "rappresentano una tradizione più immediata e più completa" (G.B. Borino, L'elezione, pp. 176 s.).
Per gli Annales Romani, a Roma scoppiò una rivolta di Romani contro il papa che venne scacciato; dopo di che si verificò una nuova sedizione tra Romani e Trasteverini (fautori dei Tuscolani), appoggiati, gli ultimi, dai "comites" e dagli "equites, qui erant fideles dicti pontifici [sic!]". Dopo aspri combattimenti a S. Spirito in Sassia, i Romani elessero il vescovo di Sabina Giovanni, che prese il nome di Silvestro III. Ma questi, dopo aver retto il papato per quarantanove giorni, venne a sua volta scacciato e B. poté tornare sul soglio pontificio.
Sin qui gli Annales Romani: si nota subito, per incidens, che Giovanni vescovo sabinense era imparentato con la famiglia dei Crescenzi, rivale dei Tuscolani. Elemento, questo, che sembra senz'altro aver più peso nel motivare lo scoppio della rivolta di quello addotto da Bonizone, che parla di un progetto matrimoniale di B. con la figlia di "Girardus de Saxo", il quale avrebbe richiesto, per l'assenso, la rinunzia al pontificato da parte di Benedetto IX. Questi, consigliato da un tal prete Giovanni, avrebbe in effetti rinunziato, ma lo stesso Giovanni si sarebbe procurato, con ingenti somme di denaro, l'elezione a pontefice, da parte dei Romani con il nome di Gregorio VI. Gerardo "de Saxo" allora avrebbe fatto eleggere Silvestro III: ma i fratelli di B., Gregorio e Pietro di Tuscolo, sarebbero intervenuti in armi a Roma, ristabilendo Teofilatto, che aveva abbandonato il trono, ingannato dalla speranza matrimoniale.
Difficile, anzi impossibile, praticamente, dire quanto ci sia di vero in questa notizia del progetto matrimoniale, che trova una testimonianza anche negli Annales Altahenses (ad a. 1046), certamente indipendenti da Bonizone: e va osservato che il particolare del matrimonio è rilevato nell'evidente intento di sottolineare vieppiù l'indegnità di B., ma, in sé, non appare così scandaloso da dover provocare addirittura una rivolta; in fondo la stessa precisazione contenuta nel racconto bonizoniano della richiesta della rinunzia al pontificato è la spia del fatto che in B., non più pontefice, ma pur sempre "clericus", poteva comunque essere tollerato lo stato matrimoniale.
Nella storiografia, la lussuria di B. per acquistare un tono di esecrazione doveva assumere qualcosa di sacrilego: ed ecco allora il papa che si sposa (Bonizone, Annales Altahenses) o il papa che sacrifica al demonio onde "in silvis et montibus mulieres post se currere faciebat" (Bennone). Non manca il tocco sapiente per rappresentare la vita privata di B. come un continuo baccanale! Ma donne a parte - il papato romano dei secc. X e XI aveva, in proposito, una tradizione non disprezzabile - rimane che le fonti sono pressoché unanimi nel parlare di una sollevazione generale dei Romani, alla quale viene collegata, sia pure in sola contiguità cronologica, l'apparizione, in funzione di antagonista, del rappresentante dei Crescenzi, Giovanni, vescovo di Sabina, papa col nome di Silvestro III, probabilmente, come si è detto, imparentato con la potente famiglia romana (cfr. G.B. Borino, L'elezione, pp. 192-97). Anche se non sembra possibile connettere l'occasione della rivolta all'improvvisa scomparsa del padre di B., Alberico III di Tuscolo, come vuole il Mathis (pp. 570 s.), par certo che il profilarsi della possibilità di una tensione - o di un raffreddamento - dei rapporti tra B. ed Enrico III, denunciato, come si è detto, dal concilio romano dell'aprile 1044, relativamente alla questione del patriarcato di Grado, deve aver fornito alla fazione ostile ai Tuscolani lo spunto migliore per tentare di spodestare gli avversari dal più potente strumento di potere locale romano qual era diventato il papato stesso. Giustamente il Borino ha richiamato, in proposito, l'attenzione sul fatto che nell'attacco ai Trasteverini (e cioè ai fautori dei Tuscolani) i Romani si appoggiano a Castel S. Angelo, che era la roccaforte cittadina dei Crescenzi. Non è quindi difficile pensare a un'alleanza tra i Romani e i Crescenzi, seguita dall'elezione del candidato di questi ultimi, Giovanni vescovo di Sabina. Del resto lo stesso Bennone fa pensare a un collegamento tra una sorda ostilità di B. verso Enrico III e la rivolta del settembre 1044 (cfr. per la cronologia, errata anche in A. Fliche, La réforme grégorienne, I, Louvain-Paris 1924, p. 106; G. Grandaur, Berichtigung der Chronologie Benedikts IX. und Silvester III., "Neues Archiv der Gesellschaft für Ältere Deutsche Geschichtskunde", 5, 1879-80, pp. 20 s.), quando, in una selva di particolari fantastici, parla di tentativo di privare Enrico della corona imperiale, mandata da B. a Pietro "regi Ungarico": B. avrebbe compiuto quest'atto dopo essersi consultato con alcuni membri influenti del suo entourage, tra i quali Lorenzo d'Amalfi; Enrico, allora, avrebbe deciso di punire il pontefice che, impaurito, avrebbe preferito cedere il papato a Giovanni, arciprete di S. Giovanni a Porta Latina; senonché "eisdem diebus superpositus est in papatum praedicto archipresbitero Sabinensis episcopus": vale a dire Silvestro III. È appena da notare che il ricordo di Pietro di Ungheria è una reminiscenza confusa e rovesciata, quanto all'atteggiamento del personaggio, della ribellione ungherese di cui si è già detto; del pari rovesciato e confuso risulta l'ordine di successione dei pontefici romani, che è senza alcun dubbio il seguente: B., Silvestro III, B., Gregorio VI (cfr. G.B. Borino, L'elezione, pp. 184 ss.).
Ristabilito B. sul soglio pontificio - Silvestro III era tornato al suo vescovato di Sabina - egli mantenne il trono per un mese e ventun giorni (dal 10 marzo 1045 al 1° maggio dello stesso anno); dopo di che lo cedette a Giovanni Graziano, che divenne pontefice con il nome di Gregorio VI. S. Pier Damiani salutava l'evento con una lettera entusiastica al nuovo papa, esortandolo a intraprendere un'energica azione di riforma (P.L., CXLIV, coll. 205 s.). Ma entusiasmi damianei a parte - furono di breve durata - la successione di Gregorio VI non fu un atto di resipiscenza da parte di B. e, a prescindere dalle buone intenzioni che parrebbe accertato dover riconoscere al successore, non risolse alcun problema, dacché era avvenuta con un meccanismo usuale, dati i tempi, quello dell'acquisto per denaro della carica, ma che costituiva, per rispetti e morali e politici, proprio il punto nodale delle difficoltà in cui si dibatteva la Chiesa dell'epoca.
Si è discusso a lungo, specie da parte del Borino che ha compiuto un puntuale e appassionato tentativo di riabilitazione di Gregorio VI, indicando in un intervento da parte di persone dell'entourage di Gregorio VI l'azione di compravendita, che trovò addirittura documentazione in un vero e proprio atto ("charta refutationis"), se la rinunzia al pontificato da parte di B. possa essere spiegata con il desiderio del Tuscolano di ritirarsi in seguito a pressioni politiche e a timori non del tutto dissipati dopo il suo ritorno oppure con un intervento di Giovanni Graziano e del gruppo che a lui si appoggiava, deciso a troncare comunque un pontificato divenuto intollerabile agli stessi Romani. Desiderio di Montecassino parla di un generico fastidio che avrebbe preso B. della cattiva fama che ormai lo circondava, "quia voluptati deditus, ut Epicurus magis quam ut pontifex vivere malebat" (P.L., CXLIX, col. 1004), non escludendo l'intervento di persone che avrebbero consigliato Teofilatto alla rinunzia. Luca di Grottaferrata nel suo ΒίοϚ καὶ πολιτεία τοῦ ὁσίου πατρὸϚ ἠμῶν Βαρθολομαίου τοῦ νέου τῆϚ ΚρυπτοϕέρρηϚ (in P.G., CXXVII, col. 484) parla appunto di un consiglio che Bartolomeo avrebbe dato al papa di ritirarsi, eliminando ogni motivo di scandalo: il che B. avrebbe puntualmente fatto. Di là dalle punte polemiche e dagli evidenti intenti agiografici, rimandando per una compiuta analisi delle altre varie testimonianze (Ermanno Contratto, Annales Romani, Annales Altahenses, Pier Damiani, ecc.) al lavoro del Borino, dacché la questione interessa più che altro Gregorio VI, si può affermare che l'intervento, diretto o indiretto, di quest'ultimo si maturò in una situazione in cui da un lato non dovevano essere cessate le pressioni di Silvestro III e dei Crescenzi (a questo potrebbero far pensare certi accenni contenuti in alcune fonti narrative circa l'insofferenza dei Romani nei riguardi di B.) e dall'altro lo stesso B. doveva aver preso in seria considerazione la possibilità di non perdere completamente la partita nei riguardi di Silvestro III, accettando una "mediazione" di Gregorio VI.
Del resto il nuovo papa non restò a lungo sul soglio: sceso in Italia nell'autunno del 1046, Enrico III riuniva, molto probabilmente con lo stesso assenso di Gregorio VI, un concilio a Sutri, invitando i tre pontefici che erano stati protagonisti delle agitate vicende degli ultimi due anni, a scolparsi dall'accusa di simonia che era stata formulata nei loro riguardi. Silvestro III non si presentò, ma il suo caso non dovette sollevare eccessive difficoltà, essendosi egli allontanato da tempo dall'agone, dopo l'avvento di Gregorio VI; questi, unico presente, riconobbe - dietro la pressione di Enrico, secondo l'autore del De ordinando pontifice - la sua colpa, pur nell'affermazione della sua buona fede (in tal senso doveva essere orientata una parte dell'opinione pubblica: cfr. ad es. De ordinando pontifice [p. 11]: "Sed dicunt 'In lege Domini fuit voluntas eius' [Ps. I, 2]" e la reazione di Wazone di Liegi all'intervento di Enrico, per cui si rimanda a G.B. Borino, L'elezione, p. 320 n. 2 e Id., "Invitus", pp. 29-30 n. 63 e a O. Capitani, Immunità, pp. 552 ss.). B. non si presentò, naturalmente, e nel concilio romano immediatamente successivo (Natale 1046), celebrato dal nuovo pontefice Clemente II, fu dichiarato deposto (la scomunica sarebbe venuta soltanto tre anni dopo, nel concilio romano dell'aprile 1049, ad opera di Leone IX). Ma B. non doveva considerare definitivamente chiuso il capitolo della storia del suo pontificato, certo anche per il ridestarsi dell'attività delle fazioni romane dopo la morte improvvisa di Clemente II (9 ottobre 1047): fu infatti quella che il De ordinando pontifice definisce una "improba Romanorum provectio" (p. 9) a riportare B., per la terza volta, sul soglio di Pietro. Il papa riprese a contare gli anni del suo pontificato dall'anno I (cfr. in merito G.B. Borino, "Invitus", p. 29 e n. 62). Lo confortava, probabilmente, oltre che l'assenza di Enrico III dall'Italia, la stessa situazione italiana - quella dell'Italia centrale e meridionale - in cui poteva contare sempre sull'appoggio di Bonifacio di Canossa e di Guaimario di Salerno. Fu proprio Bonifacio a mostrarsi riluttante di fronte alla richiesta di Enrico di scortare a Roma il nuovo pontefice, scelto dall'imperatore - Poppone di Bressanone, che assunse il nome di Damaso II - a segno che il sovrano germanico dovette minacciare un intervento diretto contro il signore di Canossa, per indurlo, certamente a malincuore, ad accompagnare il papa germanico, determinando l'allontanamento definitivo di B., tra i castelli della Sabina. Qui, nonostante una vera e propria guerra, che dovette per altro non raggiungere grandi risultati, mossagli dai Romani dopo la scomunica pronunciata da Leone IX al concilio romano dell'aprile 1049 (cfr. Vita di Leone IX dell'Anonimo edito dal Poncelet), Teofilatto continuò a resistere e a considerarsi papa, in uno sdegnoso ritiro che era aperta ribellione a Leone IX. Se a lui, che in punto di morte si dice pregasse per la salvezza di Teofilatto, questi sopravvisse di poco - Leone IX moriva il 19 aprile 1054 -, più duraturo rimase lo spirito di rivalsa dei Tuscolani, rappresentanti in un certo qual senso la non doma volontà di potere delle forze particolaristiche romane: alla morte di Stefano IX, nel 1058, veniva imposto, sia pure per brevissimo tempo, proprio dai Tuscolani un papa che significativamente prendeva nome di Benedetto X, a testimoniare la validità e la continuità di un papato tanto travagliato e discusso qual era stato quello di Benedetto IX. Ma non solo questi era ormai morto da qualche anno - vivo ancora il 18 settembre 1055 quando faceva una donazione al monastero dei SS. Cosma e Damiano, era già morto il 9 gennaio 1056, quando i fratelli Gregorio, Pietro e Ottaviano facevano dire delle messe in suo suffragio - ma lo stesso contesto storico dell'Italia del particolarismo di cui B. era stato una delle più caratteristiche espressioni si andava radicalmente trasformando.
Le ultime considerazioni fatte circa i documenti del 1055 e del 1056, nei quali il nome di B. appare ancora - e non quello di Teofilatto, come ci si sarebbe dovuti attendere, in caso di pentimento del Tuscolano - escludono ogni verosimiglianza delle notizie contenute nelle agiografie di Bartolomeo di Grottaferrata, che avrebbe operato una sorta di conversione sul "terribile" pontefice, ritiratosi in penitenza nel monastero. Dubbia persino la tradizione di una sepoltura nello stesso monastero di B., forse reperita in seguito a ritrovamenti archeologici di G. Piacentini (De sepulcro Benedicti IX, in templo monasterii Cryptoferratae detecta diatriba, Romae 1847): lo stesso rapido e persistente formarsi di una tradizione storiografica ostilissima a B., se non testimonianza attendibile per particolari biografici, come si è visto, conferma comunque l'esistenza di uno stato d'animo e di un giudizio fondamentalmente negativi verso l'uomo che, ove convertito, avrebbe certamente fornito un elemento di indubbia rilevanza per cronisti e polemisti concordi nel presentare il personaggio quasi come impenitente incarnazione di oscure forze del male.
fonti e bibliografia
A completamento di quanto già indicato nel testo, rimandiamo a Ermanno Contratto (Augiense), Chronicon, in M.G.H., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844; Annales Corbeienses, in Bibliotheca rerum Germanicarum, a cura di Ph. Jaffé, I, Berolini 1864; Rodolfo Glabro, Historiarum libri V, a cura di M. Prou, Paris 1886; Annales Altahenses maiores, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, IV, a cura di E. von Oefele, 1891²; Bonizone, Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, ibid., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, I, a cura di Id.-L. von Heinemann-F. Thaner, 1891; Annales Romani, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892; Bennone, Gesta Romanae Aecclesiae contra Hildebrandum, a cura di K. Francke, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, pp. 327 ss., 376 ss.; Gregorio di Catino, Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani, I-II, Roma 1903 (Fonti per la Storia d'Italia, 33-34); Desiderio di Montecassino, Dialogi, in P.L., CXLIX; Vita anonima di Leone IX, a cura di A. Poncelet, "Analecta Bollandiana", 25, 1906; Wipo, Gesta Chuonradi II, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, LXI, a cura di H. Bresslau, 1915³. Alcune lettere di B. si trovano in P.L., CXLI; per le altre, di cui si è quasi sempre informati in via indiretta, attraverso citazioni contenute in altri documenti pontifici si rimanda ai singoli volumi dell'Italia pontificia citati nel testo. Particolarmente vasta la bibliografia che in maniera più o meno diretta s'interessa alla figura di B.; oltre quanto già sopra indicato, si segnalano qui quegli studi che si occupano in maniera precisa e scientifica del personaggio e del suo ambiente. Fondamentali a tutt'oggi rimangono i lavori di A. Mathis, Appunti critici di storia medioevale, "La Civiltà Cattolica", 66, 1915, nr. 4, e 67, 1916, nr. 1; G.B. Borino, L'elezione e la deposizione di Gregorio VI, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 39, 1916, pp. 141-252, 295-410; R.L. Poole, Benedict IX and Gregory VI, "Proceedings of the British Academy", 8, 1918; G.B. Borino, "Invitus ultra montes cum domno papa Gregorio abii", in Studi Gregoriani, I, Roma 1947. Sempre valido per l'insieme delle vicende, E. Steindorff, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich III., I-II, Leipzig 1874-81; H. Bresslau, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Konrad II., I-II, ivi 1879-84. Importanti per alcuni punti particolari della biografia di B.: P. Fedele, Carte del monastero dei SS. Cosma e Damiano, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 22, 1899, nr. 33, p. 54; G. Ferri, Le carte dell'archivio Liberiano dal secolo X al secolo XV, ibid., 27, 1904, pp. 190 s. Per la politica di Enrico III nei riguardi dei vescovi italiani e per le correnti ideologiche e le posizioni politiche ai prodromi della cosiddetta "riforma gregoriana", v. C. Violante, Aspetti della politica italiana di Enrico III prima della sua discesa in Italia, "Rivista Storica Italiana", 64, 1952, pp. 157-76, 293-314; Id., La pataria milanese e la riforma ecclesiastica, I, Le premesse (1045-1057), Roma 1955; O. Capitani, Immunità vescovili ed ecclesiologia in età pregregoriana e gregoriana, "Studi Medievali", ser. III, 3, 1962, nr. 2, pp. 525-75; 6, 1965, nr. 1, pp. 196-290. Tra le voci a carattere enciclopedico-biografico, importante quella di F. Baix-L. Jadin, Benoît IX, in D.H.G.E., VIII, coll. 93-105. Negli ultimi tre decenni, non sono apparse vere e proprie monografie relative a quest'ultimo papa della triade tuscolana (Giovanni XIX, Benedetto VIII e, appunto, B.), nemmeno nella serie Päpste und Papsttum, che ha ospitato un lavoro complessivo di K.-J. Herrmann, Das Tuskulanerpapsttum (1012-1046), Stuttgart 1973, in buona misura dipendente dal lavoro di H. Zimmermann, Papstabsetzungen des Mittelalters, Graz-Wien-Köln 1968. Rispetto a quanto già conosciuto non si rilevano in Herrmann scelte cronologiche diverse degne di rilievo: è ampliata la discussione circa i giorni di pontificato di Silvestro III, quarantanove o cinquantasei giorni (pp. 181-82). Ma si rimane sempre nel campo dell'opinabile. Carattere espositivo alquanto generico, come denuncia lo stesso titolo, hanno i lavori di E.R. Chamberlin, The Bad Popes, New York 1969, e di L.L. Ghirardini, Il papa fanciullo. Benedetto IX (1032-1048), Parma 1980. Per la questione della "vendita del papato" a Gregorio VI, v. da ultimo le recenti edizioni di Arnolfo di Milano, Liber gestorum recentium, a cura di C. Zey, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, LXVII, 1994, p. 169 nn. 19-20 e di I. Scaravelli (Fonti per la storia dell'Italia medievale, Bologna-Roma 1996) alle pp. 104, 106 e nn. 11-2 di p. 219. Da segnalare la nuova edizione della lettera di Pier Damiani che si può leggere in M.G.H., Die Briefe des Petrus Damiani, a cura di K. Reindel, 1983, pp. 142-45 (ep. 1, 13), che contiene anche riferimenti bibliografici preziosi e aggiornati alla data di apparizione del vol. I dell'epistolario damianeo (cfr. per un ulteriore aggiornamento il vol. IV della stessa serie Die Briefe des Petrus Damiani, nell'indice dei nomi); altri riferimenti bibliografici ibid., II, 1988, pp. 337-38 n. 34 e p. 363 n. 88. Circa Rodolfo Glabro e le sue Historiae v. l'edizione curata da G. Cavallo e da G. Orlandi, con il titolo Cronache dell'anno Mille, Vicenza 1989, in partic. le pp. 227, 243, 289, 291 e note relative. Per il De ordinando pontifice, in luogo di M.G.H., Libelli de lite, I, utilizzata da O. Capitani nel suo Immunità vescovili ed ecclesiologia, si v. H.H. Anton, Der sogenannte Traktat "De ordinando pontifice". Ein Rechtsgutachten in Zusammenhang mit der Synode von Sutri (1046), Bonn 1982, ad indicem, con numerosi richiami bibliografici a Benedetto IX.