Varchi, Benedetto
Nacque il 19 marzo 1503 a Firenze da genitori originari di Montevarchi. Suo padre, Giovanni, procuratore della curia arcivescovile fiorentina prima e notaio dei Signori poi, volendo fare di lui il proprio successore, lo mandò a Pisa a studiare diritto civile e canonico. Ma qui V. non trascurò il suo amore per le lettere e apprese anche i primi elementi del greco, seguendo con assiduità le lezioni di Donato Giannotti. Morto il padre, gli subentrò nello studio di notaio, ma, dopo appena un anno, riprese i suoi mai interrotti studi umanistici, rinunciando per sempre alla laurea e alle professioni giuridiche. Si mise al servizio di famiglie ricche e potenti, impartì lezioni private e formò generazioni di allievi. Si racconta che V., poco più che ventenne, fosse stato anche apprezzato come scrittore volgare, da M., oltre che da Alessandro de’ Pazzi, che gli affidò il figlio Giovanni (Sorella 2013), da Luigi Alamanni, da Lodovico Martelli (→) e da Francesco Spinelli (Vita di Benedetto Varchi, in Lezioni sul Dante e prose varie, a cura di G. Aiazzi, L. Arbib, 1° vol., 1841, p. XVIII).
Nel 1529 V. ritornò nella sua casa di Firenze e si arruolò nella milizia fiorentina, ma, durante l’assedio della città, preferì accompagnare gli ambasciatori inviati a Bologna per assistere all’incoronazione di Carlo V: più che un traditore della patria, egli fu sempre un amante della cultura, disposto ad affrontare lunghi viaggi e a trasferirsi da una città all’altra solo per incontrare un letterato o un filosofo che apprezzava particolarmente. Tra le varie sedi in cui dimorò, alla continua ricerca di un mecenate, occupa un posto importante Padova. Qui giunse per la prima volta nel 1536 per conoscere Pietro Bembo, con cui era in corrispondenza già dall’anno precedente. Nel 1537, dopo l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici per mano del cugino Lorenzo, V. si allontanò da Firenze, per esserne definitivamente bandito dopo la sconfitta di Montemurlo. Si trasferì dapprima a Venezia e poi di nuovo a Padova. Proprio qui nacque, tra il 1539 e il 1540, l’Accademia degli Infiammati di cui V. fu tra i principali esponenti. Vi tenne lezioni di grammatica, di filosofia e di letteratura con notevole successo. Nel 1543 rientrò a Firenze, su invito di Cosimo de’ Medici. Con le sue lezioni accademiche, V. per primo difese a Firenze l’aristotelismo eterodosso e l’idea che anche i toscani dovessero studiare per conoscere a fondo quel fiorentino letterario che Bembo aveva descritto nelle Prose della volgar lingua. Per le sue idee nuove e ‘forestiere’, egli aveva fatto coalizzare contro di sé i gelliani che guardavano a Bembo come a un nemico giurato, gli umanisti come Piero Vettori, per i quali il toscano non poteva essere messo sullo stesso piano delle lingue classiche, e gli ambienti dello Studio, tradizionalmente distanti dalle novità filosofiche provenienti da Padova e da Bologna. Tra la fine del 1546 e il 1547 Cosimo gli affidò, raddoppiandogli lo stipendio, la compilazione di una Storia fiorentina, che V. lasciò incompiuta e che fu stampata solo nel 1721 a Colonia, anche a causa dell’estrema libertà di alcuni suoi giudizi. Negli anni Cinquanta, V. era comunque diventato un’autorità, a Firenze come in Italia. In questo periodo pubblicò alcune delle sue opere più significative, come le traduzioni di Boezio (1551) e di Seneca (1554), la prima e la seconda parte dei Sonetti (1555 e 1557) e molte lezioni e orazioni. Il decennio finale della sua vita fu segnato dall’intervento nella polemica tra Annibale Caro e Lodovico Castelvetro. Questi aveva mosso aspre critiche alla canzone “Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro” (1553) del Caro. Lo scrittore marchigiano rispose con un’Apologia (1558) e subito dopo Castelvetro ribatté con la Ragione d’alcune cose segnate nella canzone di Annibal Caro (1559). A questo punto Caro chiese l’intervento di V., che non poté tirarsi indietro, sia per motivi di amicizia, sia perché egli intendeva trarre occasione da quella polemica per definire la questione della lingua, mostrando come la grammatica di Bembo non fosse inconciliabile con l’idea del primato del fiorentino, scritto e parlato. Anche per questo l’Hercolano uscì nel 1570, cinque anni dopo la morte del suo autore, con pochi riferimenti alla ormai celebre polemica.
Pur avendo avuto simpatie per alcuni circoli protestanti, tra i quali i valdesiani di Napoli, negli ultimi anni V. tenne a ribadire la propria ortodossia nei Sonetti contra gli ugonotti (1562). In seguito, prese gli ordini e si trasferì a Montevarchi, in una pieve concessagli in beneficio da Cosimo. Morì a Firenze il 18 dicembre 1565 e Cosimo lo onorò con funerali solenni, nei quali Lionardo Salviati pronunciò il discorso di commemorazione per conto dell’Accademia fiorentina, approfittando dell’occasione per difendere ed esaltare in particolar modo il pensiero linguistico varchiano, nel momento in cui ne assumeva l’eredità.
Tra le principali attività di V. – storico, grammatico, commediografo, poeta latino e volgare, divulgatore di temi filosofico-scientifici – l’influenza del pensiero machiavelliano si può cogliere soprattutto nelle prime tre.
Come storico, V. si è sempre portato dietro un giudizio piuttosto riduttivo, essendo in fondo un cortigiano, al soldo di Cosimo I. Tuttavia, va considerato che in molte delle sue opere egli non mancò di ricordare le sue giovanili convinzioni repubblicane e nella stessa Storia fiorentina permangono giudizi piuttosto critici nei confronti dei Medici (Bramanti 2002). Inoltre, per quanto riguarda la teoria politica, nonostante la cautela con cui lo cita prendendone le distanze, egli fa suoi moltissimi concetti del Segretario (si veda, per es., Pirotti 1971, pp. 174 e segg.). Del resto, M. figura nei due cataloghi manoscritti pervenutici della sua biblioteca con quasi tutta la sua produzione storico-politica (nell’Inventario: Historie fiorentine del Machiavello; Dell’arte della guerra di Niccolò Machiavegli in due copie; Discorsi di Niccolò Machiavelli; nel secondo catalogo: Machiavello dell’arte della guerra; Storie del Machiavello 1/4; Discorsi del Machiavello).
La riflessione linguistica sembra essere il campo in cui egli seguì maggiormente le idee machiavelliane, avendo, come pare, conosciuto il Discorso intorno alla nostra lingua (→). L’impronta caratteristica di V. è nella considerazione irrinunciabile e prioritaria dell’aspetto parlato della lingua, e nel superamento della concezione prevalentemente letteraria dei contemporanei (Maraschio 1977, pp. 209-10). Già prima dell’Hercolano, nel Discorso a Lelio Bonsi (in Lezioni sul Dante, cit., 2° vol., 1841, pp. 334-39), V. aveva riportato senza obiezioni, dando a vedere di condividerlo, un rimprovero che veniva rivolto a Bembo, criticato per un difetto di natura e un eccesso di arte. Probabilmente V. si riferiva a un aneddoto, che circolava negli ambienti intellettuali fiorentini e che fu ricordato da Carlo Lenzoni nel suo trattato, per cui M. avrebbe discusso all’uscita delle Prose bembiane presso la ‘cartolibreria’ dei Giunti con un messer Maffio veneziano, e avrebbe sostenuto che Bembo non poteva essere considerato un perfetto maestro di lingua, così come nessun fiorentino poteva presumere di saper parlare e scrivere perfettamente in veneziano, poiché l’arte non può prescindere dalla natura (Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, 1988, pp. 369-71). Neppure V. si sente di negare che a Bembo manchi il pieno e naturale possesso del fiorentino parlato, cioè della base su cui deve necessariamente poggiare l’arte della letteratura. D’altra parte, anche nel l’Hercolano egli non si stanca di insistere sul fatto che per conseguire la fama nelle lettere ci sia bisogno dello studio e dell’arte e non ci si possa affidare alla semplice natura, poiché sono gli scrittori che nobilitano una lingua e non viceversa (L’Hercolano, Quesito IV 4-7). I fiorentini – sostiene V. nelle ultime pagine del trattato – invece di essere grati a Bembo per aver sostenuto la dignità della loro lingua al pari delle lingue classiche, e invece di seguire il suo invito a studiare il fiorentino letterario, hanno reagito in maniera provinciale, presumendo di conoscere naturalmente la grammatica proposta dal dotto veneziano per la lingua scritta, oppure in maniera sprezzante, considerando poca cosa la letteratura volgare rispetto a quella greca e latina. Comportandosi in questo modo, i fiorentini, e in particolare gli accademici, hanno lasciato ai forestieri, cioè ai toscani e agli italiani, libero campo per impossessarsi della lingua volgare e dare a essa il loro nome, facendo un pessimo servizio alla propria patria. Così V. pone nel finale, significativamente, l’argomentazione della difesa della patria in materia di lingua, con la quale M. aveva iniziato il suo Discorso, proprio mentre celebra la vittoria di Bembo nella questione della lingua.
V. aveva con ogni probabilità conosciuto da giovane il quondam Segretario (Fiorini 1923, p. 56); nelle sue lezioni Della poesia ricorda di averlo visto partecipare alle riunioni degli Orti Oricellari:
mi ricorda che già, essendo io fanciullo, con Zanobi Buondelmonti e Nicolò Machiavelli, messer Luigi essendo garzone andava all’orto de’ Rucellai, dove insieme con messer Cosimo e più altri giovani udivano il Trissino, e l’osservavano più tosto come maestro o superiore, che come compagno o eguale (Opere, 2° vol., 1859, p. 718).
Anche nell’Hercolano V. si rifà al pensiero di M., di là da singoli spunti (assenti nella Risposta di Martelli, che può essere a sua volta considerata una rielaborazione del Discorso machiavelliano e che V. aveva sicuramente letta), soprattutto per l’ideologia linguistica di fondo (L’Hercolano, a cura di A. Sorella, 1° vol., 1995, p. 3). Nel Discorso era sviluppata per la prima volta con energia la tesi dell’eccellenza del fiorentino, in quanto lingua naturalmente atta a essere impiegata in letteratura, ma veniva anche riconosciuto il ruolo importante degli scrittori, e in particolare delle Tre corone, imitando le quali i forestieri erano riusciti a distinguersi in diversi generi letterari. Tuttavia, era impossibile, secondo M., che si potesse recidere il legame con la lingua viva, come dimostravano gli scadimenti e le manchevolezze di Ludovico Ariosto in un genere come la commedia, dove è necessario adoperare «i motti et i termini proprii patrii»: dunque «molte cose sono quelle che non si possono scrivere bene senza intendere le cose proprie et particolari di quella lingua ch’è più in prezzo» (Discorso intorno alla nostra lingua, §§ 65 e 72). Di qui il consiglio ai forestieri di recarsi a Firenze per appropriarsi, attraverso la frequentazione con l’uso vivo, di quella naturalità che i testi scritti non possono mai racchiudere e fissare una volta per tutte (Sorella 1990, pp. 160 e segg.). V. sembra muoversi nella stessa direzione, quando nel confronto con le lingue classiche mette in rilievo le qualità naturali del fiorentino, aggiungendo a esse in ultima istanza la nobiltà, conferita dalla quantità e dal valore degli scrittori. A suo parere, Caro sarebbe diventato un grande scrittore, a differenza di Castelvetro, grazie ai suoi soggiorni a Firenze e alla frequentazione con il fiorentino vivo. Inoltre, egli ribadisce la tesi machiavelliana per cui in alcuni generi è fondamentale il ricorso ai motti e persino ai riboboli fiorentini, seguendo anche in questo l’esempio della Mandragola nella sua Suocera.
V. concorda con M., Gelli e gli altri fiorentinisti, sul fatto che il fiorentino è ancora in una fase di crescita e di sviluppo, al punto che si mostra certo che in futuro esso supererà il greco in abbondanza di lessico e in nobiltà. Ma soprattutto, egli attribuisce una notevole importanza a quelli che M. aveva chiamato «la pronuntia e gl’accenti» (Discorso intorno alla nostra lingua, § 18), ossia ai tratti fonomorfologici. Sebbene definendoli scherzosamente capestrerie (L’Hercolano, Quesito X 147), con l’atteggiamento infastidito che spesso manifestava parlando di minuzie grammaticali, anch’egli è con M. nel ritenerli essenziali per distinguere le lingue e per garantirne l’identità pur nel continuo processo di acquisizione lessicale attraverso prestiti esterni.
In materia letteraria V. dimostra una certa originalità di giudizio e la sua fondamentale autonomia rispetto a Bembo. Sopra tutti è da lui esaltato Dante, la cui difesa contro il giudizio riduttivo di alcune pagine delle Prose è particolarmente significativa, dal momento che V. evita sempre di dissentire esplicitamente dal maestro veneziano. A Dante V. dedicò parecchie delle sue lezioni accademiche (Andreoni 2012, pp. 86-232), mostrando di curare, in netto anticipo sui tempi, l’aspetto filologico del testo dantesco, grazie alla consultazione di diversi testimoni antichi che gli consentirono di proporre numerose correzioni. Come ammiratore di Dante, già negli anni precedenti V. non era stato secondo neppure al suo avversario Lenzoni, e nell’Hercolano sostiene che la Commedia «è un oceano di tutte le meraviglie» e loda Dante insieme con Petrarca, perché entrambi sono rimasti lontani dalla «sporchezza» e «dishonestà» degli scrittori latini e greci, che hanno scritto opere «lascive», «sporche», «dishoneste», «impure», «stomacose» e «goffe», piene di «porcherie e sporcherie», mentre il poema dantesco «è atto a fare chiunche lo legge e intende huomo buono e virtuoso» (L’Hercolano, Quesito IX 517-49). Dante è stato giustamente rimproverato per l’uso di un vocabolo come bordello, ma bisogna considerare che «forse quei tempi, quella religione e quelle usanze lo comportavano, il che i tempi nostri, la religion nostra e le nostre usanze non fanno» (L’Hercolano, Quesito IX 515). Storicizzando la questione delle cadute della lingua dantesca nel goffo, nel porco e nell’osceno, V. sottolinea il peso della raffinata civiltà rinascimentale e della morale contemporanea sul giudizio negativo di M. (Discorso intorno alla nostra lingua, § 50) e Bembo (Prose della volgar lingua, II 5), limitatamente a certi aspetti del lessico dantesco. Nello stesso tempo, V. rigetta l’opinione di coloro che, come Gabriele Cesano e Bartolomeo Cavalcanti, avevano sostenuto che con lo stile di Giovanni Boccaccio non si potevano trattare materie gravi, ma solo novelle, e che M. fosse superiore a Boccaccio proprio sul piano stilistico (L’Hercolano, Quesito IX 120-21). In sostanza, il giudizio varchiano sullo stile di M. non appare negativo per l’adozione di forme del fiorentino moderno, ma piuttosto per la sua trascuratezza e per l’abuso di latinismi di tipo quattrocentesco.
Per quanto riguarda la commedia, è significativo che tra i commediografi V. nell’Hercolano citi solo Ariosto, seppure con un giudizio limitativo, mentre taccia completamente sulla ricca produzione fiorentina contemporanea, comprendente oltretutto la propria Suocera (scritta forse intorno al 1546, ma pubblicata postuma nel 1569) e i recenti lavori dell’amico Silvano Razzi (La Cecca, 1556; La Balia, 1560; La Gostanza, 1565). Evidentemente V. non se la sente di seguire M. nell’affermazione dell’esclusiva appartenenza del genere comico agli scrittori fiorentini, per i quali soltanto sarebbe possibile riprodurre i colori del parlato. E poi la sua diffidenza nei confronti degli scrittori fiorentini moderni diviene tanto più evidente quando si tratti di generi popolareschi e tradizionalmente inclini alla lingua viva, come il cantare cavalleresco o la poesia bernesca, la letteratura rusticale o la stessa commedia, poco compatibili rispetto all’ideale varchiano di contemperamento delle ‘regole’ attinte dai classici con le esigenze dell’uso.
Bibliografia: Fonti: Inventario de’ libri del Varchi, BNCF, Filze Rinuccini, 11.49; Catalogo della biblioteca di B. Varchi, redatto da un suo copista, BNCF, II.VIII.142. La suocera, Firenze 1569; Lezioni sul Dante e prose varie, a cura di G. Aiazzi, L. Arbib, 2 voll. (con una Vita di Benedetto Varchi, pp. XIII-XXVII), Firenze 1841; L’Hercolano, a cura di A. Sorella, 2 voll., Pescara 1995. Si veda inoltre: Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988; Scritti grammaticali, a cura di A. Sorella, Pescara 2007.
Per gli studi critici si vedano: G. Manacorda, Benedetto Varchi. L’uomo, il poeta, il critico, «Annali della R. Scuola normale Superiore di Pisa», 1903, 17, parte II, pp. 1-161 (rist. anast. Cerchio 1987); V. Fiorini, Gli anni giovanili di Benedetto Varchi, in Da Dante al Manzoni. Studi critici, Pavia 1923, pp. 15-84; U. Pirotti, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo, Firenze 1971; M. Plaisance, Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier: la transformation de l’Académie des Humidi en Académie Florentine (1540-1542), in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance, éd. A. Rochon, Paris 1973, pp. 361-438; N. Maraschio, Il parlato nella speculazione linguistica del Cinquecento, «Studi di grammatica italiana», 1977, 6, pp. 207-26; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; S. Ferrone, Indice universale dei carmi latini di Benedetto Varchi, «Medioevo e Rinascimento», 1997, 11, pp. 125-95; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino 1997; V. Bramanti, Viatico per la Storia fiorentina di Benedetto Varchi, «Rivista storica italiana», 2002, 114, pp. 880-928; D. Brancato, O facitor de gli stellanti chiostri: un’inedita traduzione di Benedetto Varchi di De consol. philosophiae, Lib. I M. 5, «Lettere italiane», 2003, 55, pp. 257-66; Benedetto Varchi (1503-1565), Atti del Convegno, Firenze 16-17 dic. 2003, a cura di V. Bramanti, Roma 2007; F. Conte, schede IV. 14 - IV. 18, in Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici, a cura di C. Falciani, A. Natali, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi sett. 2010 - genn. 2011, Firenze 2010, pp. 230-39; A. Andreoni, La via della dottrina. Le lezioni accademiche di Benedetto Varchi, Pisa 2012; A. Sorella, Alessandro de’ Pazzi e il Rinascimento fiorentino: dalle posizioni machiavelliane ai Medici e a Bembo, testi a cura di A. Civitareale, Chieti-Pescara 2013.