Benedetto VIII
Teofilatto nacque da Gregorio, conte di Tuscolo, e da Maria, e fu fratello di Romano (Giovanni XIX) e di Alberico. È difficile precisare la data della sua nascita, principalmente perché il nome di Gregorio, che si incontra nelle fonti della seconda metà del sec. X, non si riferisce necessariamente al padre di Teofilatto; il fatto che il fratello Alberico sia ricordato già nel 999 come "imperialis palatii magister" (Il Regesto di Farfa, III, nr. 437, p. 150) lascia supporre che egli non fosse nato dopo il 980. Secondo la testimonianza di Benone (p. 377), valida nonostante i dubbi espressi da alcuni studiosi, Teofilatto prima della sua elezione a pontefice non aveva ricevuto gli ordini. La data di consacrazione è controversa: se si utilizzano i dati dei cataloghi pontifici (Le Liber pontificalis, p. 268), per i quali B. sarebbe stato papa per undici anni, undici mesi e ventuno giorni, la si potrebbe fissare in un tempo di poco posteriore alla morte del predecessore Sergio IV, avvenuta il 12 maggio 1012. Forse detta consacrazione avvenne il giorno 18 maggio.
Comunque l'elezione di B. è connessa con i torbidi verificatisi a Roma dopo la morte di Giovanni Crescenzio, patrizio e senatore di Roma, avvenuta agli inizi del 1012. Rimane oscuro se Sergio IV, il papa appoggiato dai Crescenzi, fosse stato osteggiato a causa di questi torbidi mentre era ancora in vita; comunque alla sua morte, gli ambienti dominati dai Crescenzi avevano eletto a pontefice un Gregorio che doveva però fuggire da Roma, presentandosi nel dicembre del 1012 a Pöhlde davanti a Enrico II. Questi lo ricevette amichevolmente, ma si riservò di giudicarlo a Roma e non gli consentì l'uso delle insegne papali e l'esercizio della potestà pontificia. Il re, invece, per mezzo del vescovo Walter di Spira, si intese poi con B. e l'antipapa sparì dalla storia.
Secondo il giudizio di Tietmaro di Merseburgo (VII, 41), B. avrebbe superato in potenza coloro che lo avevano preceduto sul soglio pontificio, non limitandosi ad essere un semplice strumento della famiglia dei Tuscolani, così come alcuni papi precedenti erano stati dominati dai Crescenzi; B. fu probabilmente egli stesso il capo della famiglia e della fazione tuscolana, poiché parrebbe che anche i fratelli, che si fregiavano di titoli altisonanti ("consul et dux omniumque Romanorum senator", cfr. Chronicon Farfense II, p. 41), fossero a lui subordinati. In tal modo egli poté conquistare e mantenere il predominio in Roma. La prima preoccupazione di B. fu quella di intendersi con Enrico II: sin dal suo primo anno di pontificato concesse privilegi ai vescovi imperiali che avevano influenza sul re; e questi fu solennemente accolto insieme con la moglie Cunegonda a Roma nei primi giorni di febbraio del 1014 e incoronato imperatore il 14 dello stesso mese.
La maggior parte degli studiosi ritiene che B. non abbia incontrato il re a Ravenna, dove in gennaio si riunì un sinodo nel corso del quale il re fece confermare nella carica arcivescovile il fratellastro Arnoldo contro il pretendente Adalberto. Ma se si legge senza preconcetti il passo di Tietmaro (VII, 2): "In Ravenna duos et Romae totidem sinodali iudicio papa deposuit, ab archiepiscopo Leone iam muto consecratos", B. dev'essersi trovato a Ravenna (l'interpretazione del passo data dal Pabst - v. S. Hirsch, II, p. 418 n. 1 - è insostenibile); e il silenzio di Ugo di Farfa (p. 545) in proposito non è un argomento più valido della notizia di Tietmaro. La questione è di una certa importanza, poiché mostra quale valore sin dall'inizio B. attribuisse al mantenimento di buoni e stretti rapporti con il re, col quale si dimostrò consenziente anche nell'appagare il suo desiderio che a Roma nella messa venisse cantato il Credo, nonostante l'opposizione del clero romano che sosteneva non aver Roma bisogno di un Credo poiché giammai si era allontanata dalla fede (Bernonis abbatis Augiensis De officio missae, c. 2, in P.L., CXLII, coll. 10, 60 s.: "me coram assistente").
Il soggiorno di Enrico II a Roma terminò con un attacco di certi ambienti contro i Tedeschi. Si pensa che seguaci dell'antiré Arduino partecipassero all'azione, come anche gli amici dei conti di Sabina, Giovanni e Crescenzio, figli del conte Benedetto, che Enrico II aveva cercato di costringere a restituire a Farfa i castelli e le terre di Tribuco e Bocchignano. Sin dagli inizi del suo pontificato B. aveva combattuto questa famiglia discendente in linea femminile dai Crescenzi e chiamata, da una sorella del papa Giovanni XIII, degli Stefaniani, mentre pare si fosse accordato con i pronipoti del senatore Giovanni Crescenzio, i figli cioè di sua nipote Rogata e di Ottavio, chiamati Ottaviani. Dopo la partenza dell'imperatore, B., pur continuando a favore di Farfa la campagna contro gli Stefaniani, giunse comunque a un compromesso con rammarico di Enrico II.
B. non si limitò ad interessarsi di Roma e dell'Italia centrale, ma la sua politica riguardò l'intera Italia, venendo quindi a scontrarsi con le due grandi potenze mediterranee, gli Arabi e i Bizantini. La sua stessa azione ecclesiastica mostra una certa ampiezza di vedute e si muove lungo le direttrici essenziali della storia della Chiesa del suo tempo.
Anche all'inizio del sec. XI i Saraceni avevano spesso predato le coste italiane: negli anni 1004 e 1011 avevano causato gravi distruzioni. Sebbene i Pisani avessero ottenuto nel 1005 una vittoria navale, il pericolo non era stato allontanato; nel 1015 il signore delle Baleari Muǧāhid, con una flotta di centoventi navi conquistò la Sardegna, e per quanto i Pisani, sotto la spinta della minaccia araba, si fossero alleati con i Genovesi e lo avessero cacciato, vi ritornò nel 1016, rase al suolo Luni e riconquistò la Sardegna, punendo crudelmente gli abitanti che gli si erano ribellati. Alla notizia B. intervenne, forse richiesto di aiuto dagli stessi Sardi: si può supporre, dall'esame delle fonti, non sempre concordi, che egli si sia inteso con i Pisani e i Genovesi, abbia inviato aiuti e probabilmente egli stesso abbia partecipato alla guerra. Gli Arabi subirono per mare e per terra una sconfitta clamorosa; Muǧāhid si salvò con pochi uomini. I particolari della battaglia sono riportati in maniera diversa dalle fonti occidentali (soprattutto da Tietmaro) e da quelle arabe. Secondo gli uni, gli Arabi vennero accerchiati dai cristiani e, nel giugno del 1016, in una battaglia durata tre giorni, furono quasi del tutto annientati. Dell'enorme razzia faceva parte la moglie di Muǧāhid, che scontò con la morte le crudeltà del marito. B. mandò la maggior parte del suo bottino all'imperatore. Secondo gli altri, sarebbero in precedenza scoppiati degli ammutinamenti nella flotta araba, e una tempesta sarebbe sopraggiunta in aiuto dei cristiani, cosicché Muǧāhid dovette assistere impotente al massacro degli equipaggi delle navi affondate. Tra i prigionieri sarebbero stati il fratello e il figlio di Muǧāhid. Secondo fonti pisane sarebbero state fondate in Sardegna colonie genovesi e pisane, ma tra le due potenze si giunse ben presto a scontri, nei quali Pisa rimase vittoriosa.
Il prestigio di B. aumentò probabilmente per il suo coinvolgimento nell'eliminazione del pericolo saraceno, ma forse i contrasti con il duca Ranieri di Toscana, insediato da Enrico II, sono da mettersi in rapporto con il suo intervento in questa terra. I Pisani e i Genovesi da allora diventarono sempre più aggressivi nel bacino occidentale del Mediterraneo.
Di portata ancora più vasta fu la funzione di B. nel contrasto con l'Impero bizantino nell'Italia meridionale: se infatti nel corso del sec. X, oltre agli imperatori sassoni, erano intervenuti nelle questioni meridionali anche alcuni principi romani, come Alberico, ora fu il papa stesso a ingerirvisi. Nel corso dell'assedio di Bari da parte dei Saraceni di Sicilia, nell'anno 1002, la città era stata sbloccata da una flotta veneziana, mentre Bisanzio non aveva potuto portare alcun aiuto, perché il grande imperatore Basilio era impegnato in una vittoriosa campagna in Bulgaria e Siria. Anche negli anni successivi Bisanzio si mostrò incapace di allontanare i Saraceni, i quali nel 1009 conquistarono Cosenza e invasero il Principato di Salerno. Già nella seconda metà del sec. X si erano verificate alcune rivolte contro il dominio bizantino: nel 1009 scoppiò una nuova rivolta sotto la guida di Melo, nobile e ricco cittadino di Bari, rivolta che per i successivi interventi del papa e dell'imperatore trovò vasta eco nelle fonti. Dapprima Bari e la Puglia caddero nelle mani dei ribelli, i quali pur sconfitti dal catapano d'Italia, Curcua, dopo la sua morte poterono resistere. Ma il nuovo catapano Basilio Mesardonite avanzò vittoriosamente e cinse di assedio Bari, che capitolò nel giugno del 1016. Melo poté fuggire con alcuni seguaci, tra i quali suo cognato Datto. Essi cercarono appoggio presso i principi longobardi, ma soltanto a Capua trovarono rifugio. In questo torno di tempo conquistarono alla loro causa B., che affidò a Datto la difesa di un posto fortificato alle foci del Garigliano. Questo schierarsi del papa a favore di Melo si inseriva nella tradizione politica della Curia, manifestatasi sin da quando la Chiesa latina aveva perduto l'Italia meridionale a vantaggio di quella greca, al tempo dell'imperatore Leone III e del papa Gregorio III. Leone Ostiense sottolineerà più tardi che B. sin da allora era intervenuto a favore di Melo e dei suoi seguaci "ob Henrici imperatoris fidelitatem". I ribelli dovevano trovare nel 1016 un aiuto nelle soldatesche normanne giunte in Italia. Fu il principe di Salerno, salvato da pellegrini normanni nel corso della difesa di Salerno contro gli attacchi saraceni, che decise di assoldare guerrieri normanni. Gran parte di queste truppe, secondo Amato e Leone di Montecassino, passò per Roma al comando di un certo Rodolfo, e a Roma B. le convinse a combattere contro i Greci e a recarsi a Capua ad aiutare Melo. Questi, con il loro appoggio, guadagnò alla sua causa altri principi longobardi, invase i possedimenti bizantini, ottenne alcune vittorie ed occupò gran parte della Puglia. Nonostante questo il nuovo catapano Basilio Boioannes, che aveva nel suo esercito membri della "družina" varego-russa dell'imperatore Basilio II, inflisse a Melo una tremenda sconfitta presso l'antica Canne. Melo fuggì a Roma e Datto fu più tardi imprigionato e ucciso dai Greci. L'imperatore Basilio II progettò nei suoi ultimi anni un'offensiva nell'Italia meridionale e in Sicilia, e B. dovette sentirsi minacciato da sud. Nella primavera del 1020 il papa passò le Alpi e festeggiò la Pasqua a Bamberga con l'imperatore: le fonti sono relativamente ricche di particolari circa le cerimonie liturgiche e la consacrazione della chiesa collegiata di S. Stefano. Probabilmente a Fulda, dove l'imperatore e il papa si recarono in seguito, Enrico II rinnovò il privilegio imperiale per la Chiesa romana che otteneva nuovi diritti sull'abbazia di Fulda e sotto la cui protezione veniva posta la chiesa vescovile di Bamberga, obbligata al tributo annuo dell'invio a Roma di un cavallo bianco. Che si sia parlato, oltre che di altri problemi, anche di quelli dell'Italia meridionale, si può arguire dal fatto che Melo, presente a Bamberga con Rodolfo, fu nominato o per lo meno riconosciuto dall'imperatore "dux Apuliae". Ciò è testimoniato dall'iscrizione posta sulla tomba di Melo, morto poco dopo e sepolto nel duomo di Bamberga (cfr. anche Die Urkunden Heinrichs III., in M.G.H., Diplomata, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, V, a cura di H. Bresslau-P. Kehr, 1931, nr. 322). Ma questi accordi si trovano soprattutto riflessi negli avvenimenti che ne seguirono. Alla fine del 1021 infatti Enrico II, con un forte esercito, passava le Alpi e già nel febbraio 1022 si trovava nei pressi di Benevento dove insieme con B. entrava il 3 marzo. Egli stesso assediava la fortezza di Troia, costruita dal catapano Boioannes, che alla fine si arrese, senza però essere distrutta, mentre l'arcivescovo Pellegrino di Colonia agiva con successo contro Montecassino e Capua. Alla fine di giugno egli tornava a Roma con B. passando da Montecassino e insieme si recarono a Pavia, dove si tenne un sinodo. Da Pavia B. tornò poi a Roma. L'intervento dell'imperatore aveva momentaneamente liberato il papato dalla pressione bizantina, pur senza conseguire risultati decisivi. Dopo la morte dell'imperatore Basilio II, la potenza dei Bizantini si affievolì e dopo pochi decenni furono i Normanni a rappresentare l'elemento politico con cui papa e imperatore ebbero a che fare nel Sud.
B. si trovò sulla stessa linea dell'imperatore non solo in quello che concerneva il controllo di Roma e la difesa dai Saraceni e dai Bizantini, ma anche nella politica ecclesiastica. Solitamente a B. si nega una spontanea intenzione di riforma ecclesiastica. Soltanto per influsso di Enrico II o di alcuni vescovi come Leone di Vercelli egli si sarebbe indotto a favorire alcune tendenze riformatrici. Tuttavia le notizie biografiche su B. consentono difficilmente un giudizio preciso a proposito del suo pensiero e dei suoi sentimenti religiosi, né si può esattamente valutare quali delle sue azioni dipendessero da iniziativa personale e quali fossero, invece, da ricondurre ad influssi ambientali. Non fu certamente un papa riformatore nel senso di quelli appoggiati da Enrico III o ancor meno nello spirito della riforma gregoriana. Partecipò tuttavia all'entusiasmo proprio della sua epoca per la riforma monastica: lo dimostrano i privilegi per i più importanti monasteri riformati come Cluny, S. Benigno di Digione, Fruttuaria, Breme o Fécamp, e i suoi rapporti con Odilone di Cluny, Guglielmo di S. Benigno, Riccardo di St-Vannes e altri.
La descrizione del papa contenuta nella Vita Odilonis di Jotsaldo (II, 14), addotta dal Sackur come prova contro i suoi stretti rapporti con Cluny, testimonia invece piuttosto chiaramente, in un passo, un'effettiva amicizia da lui nutrita per Odilone: "Qui beatum Odilonem clara affectione diligebat, et summo studio excolebat: et quoties arcis Romanae moeniis sui praesentiam vir beatus intulisset, larga liberalitate necessitudinum iuvamen exhibebat". A favore di un autentico interesse per Cluny parla anche l'elogio dell'azione religiosa di Cluny a vantaggio di tutta la Chiesa (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 4013). Anche la leggenda variamente interpretata, contenuta nello stesso capitolo di Jotsaldo, di una liberazione di B. dai tormenti infernali per mezzo della preghiera dei Cluniacensi, fa pensare che essi non ritenessero il papa un uomo particolarmente pio, ma che lo considerassero un pontefice a loro vicino e degno delle loro preghiere. Ma una politica di riforma monastica in senso proprio come quella del suo alleato imperiale, o come quella che più tardi sarà svolta da papa Leone IX, non si riesce a cogliere per Benedetto VIII.
L'attività ecclesiastica di B. è testimoniata in primo luogo dai sinodi di Roma del 1014 (forse anche da quello precedente tenutosi a Ravenna) e del 1015, e di Pavia del 1022. La deposizione, decisa a Ravenna e a Roma, dei preti consacrati non canonicamente e, soprattutto, le decisioni del sinodo di Pavia contro i matrimoni dei vescovi e dei preti e l'acquisto dei beni della Chiesa da parte dei figli dei preti fanno pensare a un atteggiamento di riforma. Esse s'ispiravano a quelle prese alcuni anni prima per la Germania in un sinodo tenutosi a Goslar. A Pavia si andò oltre e ci si oppose più decisamente al matrimonio degli ecclesiastici. Certamente esistevano altri piani di riforme, tanto che a Pavia si disse: "Taceo nunc de filiis, qui ingenuo clerico et libera matre, licet contra leges, nascantur: contra quos alia manu erit agendum et in proxima synodo consilio ulteriore tractandum" (M.G.H., Leges, Legum sectio IV, I, nr. 34, p. 72); lo prova anche la notizia di un incontro di Enrico II con il re Roberto di Francia nell'agosto del 1023 sul Chiers, data dal cronista di Cambrai. In questa occasione fu concordato un incontro dei due principi con B. ad un nuovo sinodo da tenersi a Pavia. Non è possibile precisare quali fossero le loro idee relativamente a una riforma della Chiesa. Si è opinato giustamente che lo spirito animatore di questa azione fosse Enrico II. Da parte nostra non si può affermare né che B. abbia reagito indifferentemente ai piani di riforma né che si sia particolarmente impegnato nella loro attuazione. D'altra parte, è notevole il fatto che egli si sia attivamente impegnato a far valere i diritti del papato all'interno della Chiesa in diversi casi. Egli appoggiò, ad esempio, Gozelino, figlio illegittimo di Ugo Capeto abate di Fleury, quando Roberto il Pio lo fece eleggere arcivescovo di Bourges contro l'opposizione dell'episcopato. Con l'aiuto del papa, Gozelino dopo una lotta pluriennale riuscì a ottenere il possesso del suo arcivescovato. Ancor più famoso è il conflitto di B. con l'arcivescovo Aribone di Magonza e l'episcopato tedesco. Il "casus belli" fu rappresentato dall'appello al papa della contessa Ermengarda "von Hammerstein" contro il giudizio di un sinodo magontino del 1022, a proposito della questione lungamente e aspramente dibattuta della validità del suo matrimonio con il conte Ottone suo parente. La contessa non aveva obbedito alla sentenza del sinodo, e si era recata in pellegrinaggio a Roma per appellarsi al papa. Questo e forse altri casi analoghi indussero Aribone di Magonza e un sinodo riunitosi a Seligenstadt (1023) a proibire che alcuno si recasse a Roma senza il consenso del vescovo o del suo rappresentante, e a stabilire inoltre che solo allora si dovesse ritenere valida l'assoluzione del papa, quando si fosse ottemperato alla penitenza imposta dal vescovo. B. reagì violentemente a questo attacco all'autorità pontificia: egli accettò la protesta di Ermengarda, incaricò probabilmente un legato di seguire la questione in Germania e intervenne con misure punitive contro l'arcivescovo di Magonza. Aribone con la maggior parte dei vescovi tedeschi, in un sinodo tenutosi a Höchst, si difese con accanimento. La contesa tuttavia non giunse a una conclusione poiché B. e l'imperatore morirono prima (il papa, il 9 aprile 1024), ma essa lascia già intravedere uno dei grandi temi dibattuti poi nella lotta per le investiture, l'imposizione dei diritti primaziali nei riguardi dell'episcopalismo. D'altro canto, non si possono individuare segni di una tendenza di B. a sottoporre il re alla supremazia pontificia. Talora è stata forzata l'interpretazione della famosa storia del dono di un globo sormontato da una croce, offerto da B. a Enrico II (Rodolfo Glabro, Historiae I, 5). Quando l'imperatore a sua volta offrì il dono a una chiesa, egli non intese fare altro se non ciò che molti principi avevano fatto con corone e altre insegne regali. La simbolistica indicata nel testo non aveva l'ambiguità che avrebbe assunto nell'epoca successiva di lotta tra Impero e papato. Del resto il globo imperiale non era certo un'invenzione di Benedetto VIII. La figura di B. si stacca da quelle dei papi compresi tra i pontificati di Niccolò I e Leone IX. Egli mostrò il dinamismo, la decisione e l'abilità di un consumato uomo politico, favorì il monachesimo riformato, vale a dire l'ambiente ecclesiastico più importante del suo tempo, pronto a difendere i diritti della Chiesa romana così come essi erano intesi nei primi decenni del sec. XI.
fonti e bibliografia
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Una raccolta di documenti e lettere tratte da antiche edizioni in P.L., CXXXIX, coll. 1579-638; v. anche il catalogo pontificio Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, p. 268.
Per i concili del periodo di B., v. M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, a cura di L. Weiland, 1893, pp. 58-78.
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Sul conflitto di B. con l'arcivescovo di Magonza v. anche Epistolae Maguntinae, a cura di Ph. Jaffé, in Bibliotheca rerum Germanicarum, III, Berolini 1866, nrr. 23 ss., pp. 358 ss.
Tra le più importanti fonti storiografiche si ricordano: Lupi Protospatari Chronicon, in M.G.H., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844, p. 57; Gesta episcoporum Cameracensium, a cura di L.C. Bethmann, ibid., Scriptores, VII, a cura di G.H. Pertz, 1846, p. 480; Leone Ostiense, Chronicon monasterii Casinensis, a cura di G. Wattenbach, ibid., pp. 647, 652, 655-58, 662; Ugo di Farfa, De monasterii diminutione etc., a cura di L.C. Bethmann, ibid., XI, a cura di G.H. Pertz, 1854, pp. 542-44; Andrea di Fleury, Vita Gauzlini abbatis Floriacensis, a cura di P. Ewald, "Neues Archiv der Gesellschaft für Ältere Deutsche Geschichtskunde", 3, 1878, pp. 349 ss.; Jotsaldo, Vita Odilonis abbatis Cluniacensis, in P.L., CXLII, coll. 927 s.; Rodolfo Glabro, Historiarum libri V, a cura di M. Prou, Paris 1886, ad indicem; Benonis Gesta Romanae Aecclesiae contra Hildebrandum, a cura di K. Francke, in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, p. 377; Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani, I-II, Roma 1903 (Fonti per la Storia d'Italia, 33-34), ad indicem; Bernardo Maragone, Annales Pisani, in R.I.S.², VI, 2, a cura di M. Lupo Gentile, 1930-36, pp. 4 s.; Storia de' Normanni di Amato di Montecassino, a cura di V. de Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d'Italia, 76), ad indicem; Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum. Nova Series, IX, a cura di R. Holtzmann, 1935, passim.
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