Beni culturali. Semplificazione e tutela del patrimonio culturale
I meccanismi di semplificazione imperniati sul controllo successivo eventuale (d.i.a., s.c.i.a., autocertificazione) sono incompatibili con la ragion d’essere della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, voluta dall’art. 9 Cost., perché vanificano l’effettività della protezione del bene tutelato. Ma sono incompatibili anche con la causa formale della tutela, che è in sé restrizione di una libertà e limite alla proprietà, ciò che esclude il postulato di una libertà di fare incondizionata a priori sugli immobili vincolati. L’atto autorizzativo in funzione di tutela del patrimonio culturale non è assimilabile al modello generale dell’autorizzazione come controllo preventivo di compatibilità con effetti di rimozione del limite legale all’esercizio di un diritto condizionato, ma costituisce atto di esercizio della contitolarità pubblica sul bene originariamente di interesse pubblico; è un atto di cogestione, non suscettibile di autocertificazione, di s.c.i.a. e di silenzio-assenso.
Il nuovo indirizzo di politica del diritto che caratterizza l’ultimo anno, e che investe il tema della tutela del patrimonio culturale nel suo rapporto dialettico con la semplificazione, è costituito dalla proposta di riforma dell’art. 41 Cost. («la madre di tutte le semplificazioni»), approvata dal Governo il 9.2.2011, presentata alla Camera in data 7.3.2011 (AC 4144), attualmente in corso di esame presso la Prima Commissione Affari costituzionali. La proposta così recita: «1. L’art. 41 della Costituzione è sostituito dal seguente: ‘Art. 41. – L’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge (co. 1). Non possono svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, con i principî fondamentali della Costituzione o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (co. 2). La legge si conforma ai principî di fiducia e di leale collaborazione tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini prevedendo, di norma, controlli successivi’» (co. 3). Nelle more dell’approvazione della proposta di modifica dell’art. 41 Cost., il Governo, con il d.l. 13.8.2011, n. 138 (convertito in l. 14.9.2011, n. 148), recante Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, ha introdotto, all’art. 3, una sorta di «anticipazione» della preannunciata riforma della Costituzione, con una disposizione del seguente tenore: «1. (In attesa della revisione dell’art. 41 Cost., – inciso poi cancellato dalla legge di conversione) Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni che comportano effetti sulla finanza pubblica». Il co. 2 qualifica le disposizioni del co. 1 in termini di principio fondamentale per lo sviluppo economico e di piena tutela della concorrenza tra le imprese. Il co. 3 prevede, quindi, che «Sono in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al co. 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi. Nelle more della decorrenza del predetto termine, l’adeguamento al principio di cui al co. 1 può avvenire anche attraverso gli strumenti vigenti di semplificazione normativa. Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’art. 17, co. 2, l. 23.8.1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel co. 3 ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al co. 1». Al di là della dubbia valenza precettiva di tale disposizione e del suo improprio riferimento all’adeguamento, da parte dello Stato e delle autonomie territoriali, dei rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, essa sembra postulare l’idea che, nell’ambito dei divieti posti dalla legge a tutela dei beni-interessi- valori ivi indicati, le singole Amministrazioni debbano selezionare quelli indispensabili alla tutela rispetto a quelli non necessari, che saranno perciò da abolire (saranno abrogati ipso facto decorso il termine di un anno per poi essere individuati con d.P.R. di delegificazione da adottare entro la fine del 2012). Soprattutto, non è stabilito chi e con quali strumenti giuridici dovrà decidere ciò che è indispensabile – che resta in vigore – e ciò che non lo è – e che perciò è destinato ad essere abrogato decorso il termine di legge. La comprensione del senso della tutela e della causa formale degli istituti vincolistici dimostrerà l’inapplicabilità dell’ordine di idee sotteso alla proposta di riforma dell’art. 41 Cost. agli istituti di tutela del patrimonio culturale.
Da oltre un secolo la genesi e la logica interna del regime di tutela delle cose d’arte (legge Nasi n. 185/1902, legge Rosadi n. 364/1909, legge Bottai n. 1089/1939) e dei beni paesaggistici (legge n. 411/1905 di tutela della pineta di Ravenna, legge Croce n. 778/1922, legge Bottai n. 1497/1939, legge Galasso del 1985), è sempre stata imperniata sull’eccezione del patrimonio culturale1 (deroga al regime di libertà di diritto privato di uti - frui del bene in funzione di protezione del valore di interesse generale in esso intrinseco, mediante l’esercizio di una sorta di dominio eminente pubblico, il tutto mediato da un atto d’autorità di riconoscimento del valore e di imposizione del connesso titolo pubblico sul bene). La migliore dottrina2 ha sempre configurato l’atto di tutela (in primis, il provvedimento di vincolo) quale atto restrittivo della sfera giuridica del destinatario, nel quadro della figura generale delle limitazioni amministrative alla proprietà privata. In base a questa ricostruzione l’effetto tipico del vincolo risiede nella costituzione, in capo al titolare dei diritti sul bene, di doveri preordinati a garantire la conservazione dello stato attuale del bene vincolato. La tutela, dunque, non è libertà, ma è limite alla libertà. Pensare che l’uti - frui del bene tutelato, ossia l’esercizio del diritto di proprietà privata e del diritto di iniziativa e di attività economica privata su di esso, siano espressioni di primigenia libertà (ancorché condizionata) e possano senz’altro essere esercitati con una mera autocertificazione di compatibilità, equivale a ritenere che la tutela (intesa in senso proprio) debba essere abolita. Il vincolo esprime in realtà una sorta di «condominio» pubblico sul bene3 che, in un certo senso, è di tutti, poiché è di tutti non solo, da un lato, il diritto di tipo fedecommissario alla conservazione e alla trasmissione alle future generazioni dell’acquisto culturale ereditato dal passato, ma è di tutti, dall’altro lato (anche) quel particolare diritto di uso (pubblico) che consiste nella fruizione e nel godimento del bene culturale e paesaggistico come elemento dell’identità culturale propria e collettiva. Perciò l’autorizzazione, in questa materia, non è una mera rimozione di un limite legale all’esercizio di un diritto condizionato4, ma è co-decisione (condominiale) sull’uso e sulla sorte del bene. Ne segue che questa autorizzazione, affatto particolare, non è autocertificabile. Il proprietario privato non ha la disponibilità del bene, ma la condivide con la collettività (che esercita il proprio condominio tramite l’amministrazione). Tant’è vero che – come è ormai pacifica acquisizione5 – tali vincoli sono puramente dichiarativi di una qualità intrinseca della res e non sono considerati espropriativi (non sono, dunque, indennizzabili), e ciò proprio perché al privato non tolgono nulla che questi già avesse prima, ma si limitano a esplicitare e a rendere palese il naturale con-dominio di godimento pubblico su quei beni, per la loro intrinseca valenza di interesse pubblico. Non senza considerare poi che la logica dell’autocertificazione è legata intimamente a quella dell’accertamento interamente vincolato a presupposti di fatto non opinabili (l’art. 19 l. 7.8.1990, n. 241, tuttora vigente, ribadisce invece, correttamente, il concetto per cui la d.i.a. – oggi s.c.i.a. – vale solo per gli atti di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale), ma non è rapportabile ai casi, quali tipicamente sono quelli di esercizio del potere autorizzativo di tutela del bene culturale e paesaggistico, naturalmente e inevitabilmente discrezionali (tecnico-discrezionali o connotati da discrezionalità interpretativa in relazione all’uso, nelle norme d’azione, di termini generici ed elastici introduttivi di concetti giuridici indeterminati)6. Se, dunque, l’autocertificazione e la logica del controllo successivo possono essere in parte applicabili alla materia della tutela dell’ambiente-ecosfera7, che si occupa di grandezze fisiche, chimiche, biologiche misurabili, e si esprime di regola tramite accertamenti e autorizzazioni in senso proprio (di regola vincolati), esse sembrano, anche da questo angolo di visuale, del tutto incongrue rispetto alla materia della tutela del patrimonio culturale, dove si tratta prevalentemente di atti di esercizio di discrezionalità, amministrativa, mista, tecnica ed interpretativa. La nuova disposizione normativa introdotta dal citato art. 3, co. 1, d.l. n. 138/2011 può tuttavia ricevere una lettura costituzionalmente orientata e conforme all’art. 9 Cost. se si interpreta la nozione di indispensabilità (dei divieti) non già nel senso della selezione, all’interno delle norme di tutela vigenti, del solo nucleo minimo «indispensabile» ad assicurare la tutela (con conseguente eliminazione di tutto il resto), ma nel senso dell’implicita e intrinseca indispensabilità dell’intero sistema normativo di tutela (oggi essenzialmente racchiuso nel codice di settore del 2004). Le considerazioni sopra svolte sulla logica interna della tutela e sulla sua ragion d’essere forniscono una spiegazione e una dimostrazione adeguate della validità di quest’ultima linea interpretativa: il sistema dei vincoli di tutela sedimentatosi negli ultimi cent’anni di storia è un tutt’uno inscindibile e costituisce la soglia minima incomprimibile di protezione e conservazione del patrimonio culturale, come tale integralmente «indispensabile». È un sistema che fa perno sul controllo preventivo affidato a una magistratura tecnica altamente specializzata dipendente dallo Stato e sull’immodificabilità del bene – che è di tutti, oggetto di un dominio eminente pubblico – fino alla pronuncia favorevole dell’autorità competente. Diversamente opinando, nel senso della necessità o della possibilità di una selezione riduttiva, entro le norme di tutela contenute nel codice di settore e nella disciplina regolamentare attuativa, delle previsioni di divieto, la nuova disposizione del d.l. n. 138/2011 conterrebbe un incostituzionale attacco alla sopravvivenza della figura stessa del vincolo di tutela, ritenuto, evidentemente, in quella logica, incompatibile con la regola del controllo successivo-penale e della piena e incondizionata esplicazione della proprietà e dell’iniziativa/attività economica privata.
2.1 D.i.a., s.c.i.a. e silenzio-assenso
Parimenti problematica nella sua applicazione alla materia dei beni culturali e del paesaggio è la logica del silenzio-assenso. Il silenzio- assenso postula la dispensabilità del controllo e la disponibilità dei beni-interessi coinvolti. La tutela è lo spazio dell’indispensabilità e della indisponibilità insiti nella logica fedecommissaria del patrimonio. Nella recente storia istituzionale solo per un breve lasso di tempo è stato introdotto il silenzio-assenso nella materia della tutela dei beni culturali (nella XIII legislatura, con la legge così detta Bassanini due, la l. 15.5.1997, n. 127, art. 12, co. 5 e 6, norma poi recepita nel testo unico di cui al d.lgs. 29.10.1999, n. 490, art. 24), per esservi prontamente espunto dal codice dei beni culturali del 2004. Questo importante corpus normativo, che raccoglie in modo coerente e organico la disciplina di settore, ha addirittura introdotto una norma di divieto di sanatoria degli abusi paesaggistici comportanti incrementi di volumi o superfici utili (artt. 146, co. 4, e 167, co. 4), divieto definitivamente efficace a partire dal primo decreto correttivo (d.lgs. 24.3.2006, n. 157), che esprime un principio di alta civiltà giuridica (la tutela del paesaggio «presa sul serio»). Solo nel 2010, con il d.l. 31.5.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella l. 30.7.2010, n. 122 (art. 49, che ha modificato gli artt. 14 ss. l. n. 241/1990 sulla conferenza di servizi), è stata in via interpretativa affermata l’applicabilità anche ai Soprintendenti del meccanismo costrittivo all’assenso della conferenza di servizi (ma in questo caso non si tratta di un vero e proprio silenzio-assenso, ma, più esattamente, di una sorta di prescindibilità della pronuncia del Soprintendente, che però non assume responsabilità sulla valutazione favorevole alla realizzazione dell’intervento, che resta ascritta in via esclusiva all’autorità procedente, alla stessa stregua di quanto previsto dall’art. 146, co. 9, terzo periodo, del codice dei beni culturali e del paesaggio, in materia di autorizzazione paesaggistica, nella versione esitata dalla seconda novella di cui al d.lgs. n. 63/2008). In particolare, l’art. 49 d.l. n. 78/2010, nel riformare (per l’ennesima volta) l’istituto della conferenza di servizi, ha – con il nuovo co. 7 dell’art. 14 quater l. n. 241/1990 – chiarito un dubbio interpretativo, nel senso di assoggettare anche le amministrazioni portatrici di interessi così detti sensibili (tra cui quello di tutela del patrimonio culturale) al meccanismo del silenzio-assenso in caso di mancata definitiva espressione della volontà dell’amministrazione rappresentata, con la sola aggiunta, nell’art. 14 ter, co. 2, della stessa legge, al fine di «alleviare» il peso riduttivo dell’effettività della tutela insito in questa disposizione, della previsione per cui, in caso di impedimento del Soprintendente, la nuova data della riunione può essere fissata entro i quindici (anziché dieci) giorni successivi, e che i responsabili degli sportelli unici per le attività produttive e per l’edilizia, ove costituiti, o i Comuni, o altre autorità competenti devono concordare con i Soprintendenti territorialmente competenti il calendario, almeno trimestrale, delle riunioni delle conferenze di servizi che coinvolgano atti di assenso o consultivi comunque denominati di competenza del Ministero per i beni e le attività culturali. Ancor più di recente, con l’art. 4, co. 16, lett. e), d.l. n. 70/2011, convertito, con modificazioni, nella l. n. 106/2011, è stata introdotta una modifica dell’art. 146, co. 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con d.lgs. 22.1.2004, n. 42, in base alla quale allorquando lo Stato e le Regioni avranno redatto insieme e approvato i nuovi piani paesaggistici, conformi ai dettami del codice dei beni culturali e del paesaggio, contenenti puntuali e analitiche prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, e quando il Ministero avrà verificato che i Comuni abbiano adeguato i loro piani regolatori, allora il parere del Soprintendente non solo (come già oggi previsto) sarà solo obbligatorio (e non più vincolante), ma si considererà favorevole (cd. silenzio assenso) ove non reso entro 90 giorni (termine peraltro doppio rispetto a quello attualmente previsto di 45 giorni, che sarà operante finché il parere avrà carattere vincolante). Entrambe queste ultime previsioni restano fortemente sospette di incostituzionalità, atteso che la Corte costituzionale, con le sentenze 10.3.1988, n. 3028, 12.2.1996, n. 269 e 17.12.1997, n. 40410, ha ribadito che per il profilo «ambientale» – oggi «paesaggistico», secondo la terminologia chiarita dal codice del 2004 – «opera il principio fondamentale, risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità di pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell’Amministrazione preposta al vincolo ambientale non può avere valore di assenso ». Sulla necessità in ogni caso di un’effettiva verifica preventiva ed espressa dell’autorità preposta alla gestione del vincolo, cfr. altresì sentenze 7.11.2007, n. 36711, 30.5.2008, n. 18012, 27.6.2008, n. 23213, 29.5.2009, n. 16414, 22.7.2009, n. 22615, 17.3.2010, n. 10116 e 4.6.2010, n. 19317, che hanno elaborato il concetto di interessi – beni-valori – «primari e assoluti », dove l’attributo dell’assolutezza esprime specificamente il concetto dell’indefettibilità di una verifica espressa di compatibilità dell’intervento con la conservazione e protezione del bene tutelato.
Nell’ultimo triennio (XVI legislatura) il confronto dialettico tra tutela e semplificazione si è sviluppato lungo due linee di azione, parallele e contrastanti tra loro. Da un lato, il sistema della tutela, contenuto organicamente nel codice di settore, ha dovuto «resistere» agli assalti – reiterati e insistiti – diretti a riportare anche questa materia sotto la logica «ordalica» del silenzio-assenso e dell’autocertificazione. La linea della «ipersemplificazione », come si è visto nel paragrafo precedente, ha fatto in parte breccia, in alcuni punti, ma il sistema ha (sinora) sostanzialmente resistito. La linea alternativa – perseguita soprattutto dal Ministero per i beni e le attività culturali – che possiamo definire della «semplificazione ragionata e ragionevole», ha puntato sull’ulteriore razionalizzazione del sistema e sull’introduzione di modifiche normative idonee a snellire le procedure e a renderle più chiare, facendo salva, però, la funzione. Si sono considerate, nel precedente paragrafo, le principali novità dettate dalla linea della «iper-semplificazione». Occorre adesso gettare uno sguardo sulle principali novità partorite dalla linea moderata. Essa, si deve francamente dire, non ha dato sinora risultati appaganti e soddisfacenti. Sotto un primo profilo, è stato emanato il d.P.R. 9.7.2010, n. 13918, contenente il regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell’art.146, co. 9, del codice di settore, che mira a semplificare e ad accelerare la procedura per l’autorizzazione paesaggistica degli interventi minori, mediante lo snellimento e la concentrazione dei procedimenti. Esso ha dimezzato i tempi procedurali (massimo sessanta giorni), ha introdotto un forte alleggerimento dell’onere di comunicazione e di documentazione a carico del cittadino (che deve presentare la sola relazione paesaggistica semplificata, e non tutti i documenti previsti dal d.P.C.m. 12.12.2005) ed ha previsto l’eliminazione di un passaggio procedurale inutile quando la pratica può essere definita in senso negativo già a livello comunale. S e c o n d o stime degli uffici del Ministero, la procedura semplificata introdotta con questo regolamento dovrebbe riguardare più del cinquanta per cento delle pratiche di autorizzazione paesaggistica. Ciò dovrebbe comportare evidenti vantaggi sulla funzionalità degli uffici, con favorevoli ricadute sulla tempistica di tutti gli adempimenti. Il regolamento si compone di due parti fondamentali e complementari: l’individuazione – nell’allegato – di un elenco di tipologie di interventi qualificabili come «di lieve entità» (39 tipologie, tra cui, ad esempio, l’aumento della cubatura del 10% fino a un massimo di 100 metri cubi in più, l’apertura di porte, finestre, il rifacimento della tinteggiatura e dei rivestimenti esterni degli edifici, la chiusura di terrazze e balconi, il rifacimento del manto del tetto, gli interventi di adeguamento antisismico e di efficientamento energetico degli edifici, le linee elettriche e telefoniche, l’installazione di impianti di telefonia mobile di piccole dimensioni, ecc.); la definizione – nell’articolato – di una procedura più breve (relativamente alla tempistica) e più semplice per il rilascio, o il diniego, dell’autorizzazione. Questo regolamento, pur importante, non riesce, tuttavia, a imprimere una svolta significativa nella semplificazione del regime, forse troppo complesso, della procedura autorizzatoria in materia paesaggistica, come disegnata dall’art. 146 del codice. Soprattutto, l’elenco degli interventi di lieve entità, cui si applica la semplificazione procedurale, è stato costruito in modo troppo macchinoso, con una distinzione complicata, per numerose delle tipologie di interventi incluse nell’elenco allegato, a seconda della tipologia di vincolo interessata, per cui molte di queste semplificazioni si applicano solo quando gli interventi ricadono fuori dai centri storici in aree sottoposte a vincoli d’insieme di tipo panoramico (lett. d dell’art. 136 del codice), mentre non si applicano nelle zone territoriali omogenee «A» di cui all’art. 2 d.m. 2.4.1968, n. 1444, e ad esse assimilabili e agli immobili soggetti a tutela ai sensi dell’art.136, co. 1, lett. a), b) e c), del codice, dove il riferimento alla lett. c) è soprattutto ai centri storici. Importante è poi il più recente intervento di semplificazione, compiuto con il già citato d.l. n. 70/2011 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia). Nell’art. 4, infatti, sono introdotte ulteriori modifiche all’art. 146 del codice del 2004, oltre alla riscrittura, già sopra esaminata, del co. 5. In particolare, al co. 7, primo periodo, è stato precisato che l’amministrazione procedente è tenuta a trasmettere alla Soprintendenza, oltre ad una relazione illustrativa, anche una vera e propria «proposta di provvedimento», ed è altresì tenuta a comunicare all’istante l’avvenuta trasmissione degli atti alla Soprintendenza (così consentendogli di formulare alla Soprintendenza, in ordine a detta proposta, eventuali osservazioni). La modifica è particolarmente importante perché, da un lato, chiarisce che l’autorità territoriale preposta alla gestione del vincolo non può limitarsi alla mera trasmissione degli atti, ma deve compiere una prima istruttoria e deve formulare in modo esplicito il proprio motivato avviso; dall’altro lato consente di precisare che la Soprintendenza deve «fare i conti» con la proposta comunale (o dell’ente preposto), avendo al riguardo uno specifico onere di motivazione sulle ragioni che la inducono eventualmente a discostarsene. In tal modo si è inteso porre rimedio a una recente casistica giurisprudenziale, che ha visto soccombente l’Amministrazione, nella quale il parere negativo del Soprintendente è risultato carente di motivazione sulle ragioni della diversa valutazione di compatibilità paesaggistica rispetto all’organo comunale: in altri termini, il Soprintendente, pur essendo titolare di una valutazione autonoma e indipendente, sul piano tecnico e del merito, in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, non dovendo più fare (come avveniva invece sotto il vigore della legge Galasso) da controllore di legittimità del Comune, nondimeno, nell’esprimere la sua autonoma valutazione, non potrà ignorare sic et simpliciter la proposta di segno diverso del Comune, e, pur non dovendo fornire di essa una confutazione analitica, dovrà in qualche modo dare conto di averla adeguatamente considerata, pena l’illegittimità del parere vincolante per difetto di motivazione. Al co. 8, il secondo periodo è stato riformulato, prevedendo che «Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’art. 10 bis, l. 7.8.1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione provvede in conformità ». La modifica si fonda sul rilievo, prevalentemente condiviso, della natura decisoria («pre-decisoria» o «co-decisoria») del parere vincolante, di regola ritenuto dalla giurisprudenza autonomamente impugnabile (anche in caso di successiva inerzia del Comune o dell’ente delegato, che ometta il preavviso di rigetto o, del tutto, ogni prosecuzione procedimentale, ivi incluso l’atto finale di diniego dell’autorizzazione paesaggistica). Con questa modifica si è inteso superare talune difficoltà applicative e perplessità emerse in sede di contenzioso, chiarendo che la Soprintendenza, qualora non intenda aderire alla proposta di rilascio dell’autorizzazione formulata dall’amministrazione procedente (nel caso in cui, invece, vi sia piena adesione alla proposta di rilascio del titolo l’ulteriore dialogo procedimentale avverrà esclusivamente tra l’istante e l’amministrazione procedente), è tenuta a gestire l’ulteriore fase di partecipazione; ciò avverrà mediante la trasmissione all’istante del preavviso di diniego (o meglio, di parere vincolante negativo) con assegnazione di un termine di dieci giorni, in applicazione dell’art. 10 bis l. n. 241/1990, per la presentazione di eventuali osservazioni, e la valutazione delle eventuali osservazioni pervenute entro detto termine; seguirà l’adozione di un motivato parere e la sua trasmissione all’amministrazione procedente. Deve in proposito sottolinearsi che, sempre in base al principio generale di cui all’art. 10 bis citato, la comunicazione interrompe i termini per concludere il procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di dieci giorni assegnato. È altresì da notare che – giusta il tenore letterale della nuova disposizione – il dovere di applicare l’art. 10 bis graverà sul Soprintendente anche nel caso in cui lo stesso Comune o ente delegato abbia formulato una proposta di diniego dell’autorizzazione; anche in questo caso (essendo peraltro davvero raro il caso in cui il Soprintendente avrebbe dato un parere favorevole ribaltando la proposta negativa del Comune), per semplicità e uniformità di procedura, si ritiene che il contraddittorio procedimentale debba essere comunque instaurato tra soggetto richiedente e Soprintendenza. Al co. 11, è stata eliminata (al fine di accelerare i procedimenti per rilanciare l’economia) la previsione del periodo di cd. stand still dell’autorizzazione paesaggistica, che era stato previsto fin dalla formulazione originaria del codice. L’autorizzazione è dunque divenuta immediatamente efficace. Mediante la riscrittura del co.14 e l’abrogazione del co. 15, è stato poi previsto che il procedimento di autorizzazione paesaggistica ordinario si applichi «anche alle istanze concernenti le attività di coltivazione di cave e torbiere nonché per le attività minerarie di ricerca ed estrazione incidenti sui beni di cui all’art. 134». In questo modo, dovrebbero finalmente superarsi molte delle difficoltà applicative e delle incongruenze legate alle previgenti formulazioni, che richiamavano competenze del Ministero dell’ambiente in realtà mai esistite o che, in assenza di detta formulazione, avrebbero potuto ritenersi tacitamente abrogate dal codice. Va precisato che eventuali competenze di detto Ministero, rivolte alla tutela di interessi pubblici di settore, diversi da quello propriamente paesaggistico, non interferiscono con le valutazioni di compatibilità paesaggistica su cave, torbiere e miniere, che d’ora in poi verranno effettuate dalle Soprintendenze secondo il procedimento comune. Si tratta, anche in questo caso, di modifiche importanti, che rendono più spedita, chiara ed efficace la funzione di controllo preventivo paesaggistico, nel tentativo di rinvenire un punto di equilibrio tra le esigenze della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico e quelle dell’alleggerimento del peso dei controlli burocratici.
1 Il concetto è bene elaborato da Severini, sub artt. 1-2, in Sandulli, (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2007, 8 ss. e, ivi, completi richiami di bibliografia. L’A. coerentemente evidenzia – ivi, 10 – come «Implicazione normativa dell’eccezione è ad es. la non applicabilità alla materia in oggetto di alcuni principi generali di semplificazione dell’azione amministrativa».
2 Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, in Riv trim. dir. pubbl., 1961, 809 ss.
3 Per questa linea di idee cfr. il noto contributo di Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963 (nonché Id., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 20 ss.), che prospettò la costruzione del bene culturale come bene soggetto a una sorta di proprietà distinta, con concorso del dominio utile del proprietario con il dominio eminente pubblico sul valore culturale della cosa, destinata alla conservazione e alla fruizione pubbliche, donde l’idea dell’illustre A. dei beni culturali come beni funzionalmente «immateriali». Tesi che costituisce uno sviluppo dell’idea (Calamandrei, Immobili per destinazione, in Foro it., 1933, 1722) del bene culturale come bene pubblico.
4 Nello schema classico dei diritti condizionati o fievoli, in attesa di espansione, previa emanazione dell’atto permissivo (Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, 605 ss.; Virga, Il provvedimento amministrativo, IV ed., Milano, 1972, 44 ss.; Garofoli-Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, V ed., Roma, 2011).
5 C. cost. 29.5.1968, n. 56, in Giur. cost., 1969, 356, nonché C. cost., 28.7.1995, n. 417, ivi, 1995, II, 1735 e C. cost., 11.7.2000, n. 262, ivi, 2000, II, 1931. Il punto è pacifico nella giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. VI, 10.3.2009, n. 1391). Per la dottrina, è sufficiente il richiamo a Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, 809 ss.
6 Cfr., su questo punto, per tutti, Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; da ultimo, per un’ampia sintesi, Spatini, Le decisioni tecniche dell’amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 2011, 133 ss.
7 Sulla corretta distinzione tra tutela del paesaggio (ambiente-cultura), tutela dell’ambiente-ecologia e urbanistica-edilizia (governo del territorio), sia consentito il rinvio a Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 405 ss., che riprende e sviluppa l’impostazione di Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss.
8 In Foro it., 1988, I, 1017, 1412, 1789.
9 In Foro it.,1996, I, 1126.
10 In Giur. it., 1998, 1242.
11 In Giur. cost., 2007, 6, 4075.
12 In Foro it., 2008, I, 2075.
13 In Giur. cost., 2008, 2590.
14 In Foro it., 2009, I, 3307.
15 In Giur. cost., 2009, 2666.
16 In Foro it., 2010, I, 2967.
17 In Giur. cost., 2010, 2282.
18 Per un primo commento cfr. AmorosinoCarpentieri, Il regolamento di semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche per gli interventi di lieve entità, in Urb. app., 2010, 1381 ss.