Beni culturali
sommario: 1. Premessa. 2. Problemi generali della tutela. 3. Le realizzazioni museali. 4. Le attività promozionali di valorizzazione. 5. La catalogazione. 6. La formazione professionale. □ Bibliografia.
1. Premessa
La discussione sui temi relativi alla protezione e alla gestione del patrimonio culturale non ha avuto, negli ultimi quindici anni, lo slancio innovativo e propositivo che aveva invece conosciuto negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, quando sorse e si affermò - in polemica con la nozione idealistica di ‛patrimonio storico-artistico' - il concetto totalizzante di ‛beni culturali'.
In effetti, il processo di elaborazione culturale che aveva condotto a tale concetto si arrestò ben presto, non andando oltre quelle formulazioni che erano state raggiunte fin dalle fasi preliminari di studio per la riforma degli organismi pubblici preposti alla tutela dei ‛beni culturali' stessi. Ed è a tali formulazioni che si rifecero gli atti legislativi con i quali, nel 1975, venne istituito il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, nonché i successivi adeguamenti, peraltro di natura meramente tecnico-giuridica.
Di quel processo e delle proposte che furono avanzate dalle varie Commissioni (Franceschini, Papaldo, Giannini) istituite a tale scopo è stato già dato conto in altri articoli di questa opera (v. natura, protezione della: Protezione dell'ambiente naturale; v. patrimonio monumentale e artistico); esse segnalarono una serie di nodi problematici, rimasti a tutt'oggi irrisolti. Tra questi ci limitiamo a ricordare, in quanto emblematico, un problema definitorio: l'espressione ‛beni culturali e ambientali' sembra infatti evidenziare piuttosto la disgiunzione che non la congiunzione tra le due qualità dei beni stessi, come se i beni ‛ambientali' non fossero di per sé beni ‛culturali'. Può sembrare una semplice questione di terminologia, ma in realtà si tratta di una questione sostanziale, che ha infatti determinato diversi tipi di comportamento nell'azione di tutela.
Una prova delle difficoltà insorte proprio in relazione alla suddetta formulazione sta nel fatto che l'espressione ‛bene/i culturale/i' sia rimasta in uso quasi esclusivamente in Italia, mentre in altre aree linguistiche essa è stata ben presto sostituita da altre definizioni dello specifico organo di tutela - più tradizionali, se vogliamo, ma senza dubbio più elastiche e meglio interpretabili - come patrimoine culturel, património nacional, cultural heritage o English heritage.
Non è un caso, quindi, se tra le varie relazioni presentate al XXVI Congresso internazionale del Comité International d'Histoire de l'Art (CIHA; Washington 1986) - congresso che, sia detto per inciso, è stato il primo a dedicare una speciale sessione alle problematiche della tutela del patrimonio culturale mondiale - soltanto nella relazione redatta da chi scrive (e concernente i temi e le tecniche della catalogazione) compariva l'espressione ‛beni culturali'. Tutti gli altri relatori, invece, per stabilire una determinazione ‛di campo' più comprensibile, sono risaliti alle proposizioni avanzate fin dagli inizi di questo secolo da Alois Riegl relativamente alla Denkmalpflege.
Peraltro, come vedremo meglio più avanti, la stessa nozione complessiva di ‛beni culturali' (e spesso anche quella di ‛patrimonio') è stata contraddetta nella fase applicativa degli accordi internazionali sulla tutela, là dove si è privilegiata la protezione delle ‛cose' alle quali fosse riconosciuta una maggiore importanza storica.
Tutto ciò in parte è dovuto al fatto che alcuni fondamentali criteri di operatività tecnica della tutela erano ormai acquisiti e non necessitavano quindi che di successivi e parziali adeguamenti, dettati via via dalle esperienze pratiche che si venivano compiendo; tanto che la nozione di ‛beni culturali' ha ricevuto un'applicazione concreta ben più avanzata rispetto alla sua definizione concettuale, grazie alla molteplice fenomenicità offerta tanto dalla ricerca storica - specialmente se conseguente alla ricognizione testuale (catalogazione) - quanto dalla più o meno estesa presa di coscienza del fatto che le ‛cose', siano esse considerate nella loro individualità o nel loro contesto, appartengono alla cultura collettiva.
Ma a ostacolare l'evoluzione concettuale della nozione di ‛beni culturali' è sopravvenuto anche il fatto che su alcuni importanti temi - che proprio a tale nozione dovevano la loro evidenza - si era manifestata una sorta di ‛riflusso' dovuto a una serie di circostanze che rendevano problematica l'applicabilità di criteri elaborati forse troppo astrattamente.
Consideriamo, in particolare, la questione della salvaguardia dei centri storici urbani, che pure aveva riscosso grande consenso nell'opinione pubblica: alle esperienze pilota che si erano infittite negli anni settanta non hanno fatto seguito interventi sistematici e su larga scala. Le molteplici differenze legate - specialmente in Europa - alle situazioni locali, la vistosa conflittualità che qualsiasi tipo di intervento accendeva tra gli interessi collettivi e quelli della proprietà (o per meglio dire, della speculazione) immobiliare e, soprattutto, il fatto che quasi ovunque l'iniziativa e la progettazione fossero gestite dalle autorità municipali hanno determinato una serie di realizzazioni tanto varie quanto episodiche, nella stragrande maggioranza dei casi condotte con insufficiente professionalità.
I fenomeni della crescente urbanizzazione, con le loro incidenze macroeconomiche, hanno purtroppo ingenerato una disaffezione dell'opinione pubblica - vale a dire dell'elettorato delle amministrazioni locali - su questo tema; tale elettorato, infatti, reclamava soprattutto realizzazioni di efficienti servizi sociali nei nuovi insediamenti periferici, lasciando così che soltanto una élite culturalmente più sensibile prestasse attenzione al problema dei centri storici e della loro riqualificazione.
In modo quasi speculare a questa situazione si è sviluppata negli stessi anni un'accentuata attenzione collettiva al tema della difesa dell'ambiente naturale, in una dimensione più vasta di quella contenuta nel concetto di ecologia; e sebbene anche la tutela ambientale costituisca un argomento sul quale molteplici e ingenti sono gli interessi tra loro contrastanti, il ripetuto verificarsi di eventi anche disastrosi - come frane e alluvioni provocate da disboscamenti, erosione delle coste, eventi sismici, problemi di inquinamento e di indiscriminato sfruttamento dei suoli, rischi di estinzione dei biotipi - ha reso necessario, anzi particolarmente urgente, l'intervento pubblico.
Su questo tema, inoltre, si è manifestata un'ampia convergenza di studiosi delle scienze naturali, le cui opere hanno dato un contributo decisivo all'emanazione, a livello mondiale, di direttive elaborate con un alto grado di competenza, come quella messa a punto alla Conferenza di Berna del Consiglio d'Europa del 19 settembre 1979 (ratificata dall'Italia il 1° giugno 1982) e quella di Washington del 3 marzo 1983. Pur se indirizzate ad aspetti particolari dell'ambiente, le convenzioni approvate in queste conferenze e le disposizioni che ne sono scaturite nei singoli ordinamenti nazionali (si vedano, in proposito, gli Atti della ‛Giornata mondiale dell'ambiente' tenutasi a Roma il 5 giugno 1985 e organizzata dalla Accademia Nazionale dei Lincei) hanno avuto il merito di sottolineare e pubblicizzare l'idea della stretta interdipendenza tra ambiente in senso fisico e ambiente in senso storico-culturale, superando in tal modo quella concezione del valore puramente ‛estetico' dell'ambiente alla quale si era ancora ispirata la ‛raccomandazione' dell'UNESCO sul tema Safeguarding of the beauty and character of landscape and sites (Parigi, 11 dicembre 1962).
Tutto questo ha prodotto, a livello diagnostico, la sostituzione dei precedenti criteri empirici con nuovi criteri scientifici, nonché la messa a punto di sistemi di monitoraggio del tutto nuovi, redatti secondo le normative della International Standardisation Organisation: tali sistemi consistono essenzialmente in mappe storico-statistiche (ricavate da dati noti almeno per i plessi temporali meglio documentati) dei fattori di vulnerabilità del patrimonio culturale quali, principalmente, l'aggressività dei fenomeni ambientali e l'incidenza antropica sul territorio.
La realizzazione di simili mappe, con metodi di grafica computerizzata oltre che puramente numerici (quindi aggiornabili in tempo reale), ha impegnato vari organismi nazionali; in Italia si è concretata nella redazione della Carta del rischio (1996) predisposta dall'Istituto Centrale del Restauro, che ha in tal modo potuto mettere a frutto gli indirizzi di metodo dettati molti anni fa da Giovanni Urbani per la manutenzione programmata dei beni culturali. A ciò si aggiunga che tale nuova metodica d'indagine preventiva ha stimolato le istituzioni universitarie e di ricerca, contribuendo a creare nuove professionalità.
E tuttavia non si può dire che i risultati pratici siano ancora del tutto soddisfacenti, come anche le cronache recenti hanno dimostrato: alla crescita in senso ‛culturale' raramente ha corrisposto un'efficace azione amministrativa sia da parte del nuovo Ministero dell'Ambiente, sia da parte degli Enti locali, sebbene non siano mancati stimoli in tal senso provenienti anche da movimenti politici (quelli dei ‛Verdi', ad esempio).
Il problema che sta alla radice di quanto fin qui detto è indubbiamente legato alla effettiva volontà e capacità da parte degli organi pubblici di gestione di affrontare una ‛politica culturale' priva di ambiguità e contraddizioni. Ma su ciò torneremo ancora nei capitoli seguenti: qui intanto è da rammentare che una lucida, spietata disamina degli orientamenti prevalenti negli enti pubblici è stata fornita da Marc Fumaroli nel libro L'État culturel. Essai sur une religion moderne (1991).
2. Problemi generali della tutela
Sul piano legislativo, o comunque normativo, i provvedimenti più recenti riflettono la preoccupazione emergente per la circolazione illecita di beni culturali. Quasi dovunque il fenomeno dei furti di opere d'arte anche da grandi musei, di alienazioni di beni pur sottoposti a vincoli di tutela, di scavi clandestini e, conseguentemente a tutto questo, di esportazioni illegali, è andato crescendo in misura esponenziale. Per ovviare alle difficoltà derivanti dalle vistose differenze tra le legislazioni nazionali, si è pertanto cercato di adottare, almeno in ambito europeo, una serie di disposizioni volte, se non proprio a unificare, quanto meno a coordinare le diverse normative.
Con il regolamento emanato dal Consiglio della Comunità Economica Europea (n. 3.911 del 9 dicembre 1992) e con la conseguente direttiva emanata dallo stesso Consiglio (n. 93/7 del 15 marzo 1993) sono stati concordati criteri teoricamente sufficienti per la repressione dei fenomeni sopra ricordati e, in particolare, per la restituzione agli Stati membri della CEE delle opere che da questi siano state illecitamente esportate, anche se finite sul mercato antiquario o in collezioni private (il che, ovviamente, ha comportato il potenziamento di organi investigativi specializzati).
Il limite sostanziale di queste disposizioni sta palesemente nel fatto di essere state concordate, e pertanto applicabili, soltanto nell'ambito della CEE: nulla è previsto per il coinvolgimento di Stati extraeuropei o anche per quelli europei non aderenti alla Comunità stessa, verso i quali sempre più frequentemente emigrano beni di illecita provenienza (soltanto negli Stati Uniti d'America alcune tra le più prestigiose istituzioni museali hanno adottato comportamenti coerenti con le norme europee: ma con clamorose eccezioni, come si è più volte verificato per acquisti fatti dal J. Paul Getty Museum di Malibu, in California).
Un altro e assai insidioso limite alle direttive CEE è di natura lessicale e occorre segnalarlo, se non altro in quanto esso rivela una serie di tacite riserve da parte di alcune delle diplomazie che hanno redatto le norme in questione: i beni ai quali queste direttive si riferiscono non sono tutti quelli che pur costituiscono testimonianze di cultura, bensì - come è enunciato nel testo francese - i trésors nationaux: in altre parole, quelli generalmente riconosciuti di maggior pregio.
L'incidenza negativa dei suddetti limiti delle normative CEE assume una dimensione macroscopica in particolare per quel che attiene ai beni archeologici, siano essi provenienti da scavi clandestini o da raccolte non vincolate: vengono infatti quasi svuotati, nella pratica, i principî ai quali si erano ispirate tanto la pur pregevole Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico, promossa dallo stesso Consiglio d'Europa (Londra, 6 maggio 1969), quanto gli analoghi strumenti dell'UNESCO replicati, con successivi adeguamenti, dal 1970 al 1990; provvedimenti, questi, che avevano almeno saputo recepire il principio secondo cui il valore dell'oggetto archeologico non è soltanto quello intrinseco nella qualità formale del manufatto, bensì principalmente quello di aver fatto parte di un contesto storico la cui integrità è, essa sì, ‛valore' da salvaguardare.
Proprio sui problemi attinenti alla protezione del patrimonio archeologico si è comunque di recente manifestata un'ampia convergenza di proposte, sia di carattere repressivo - riguardo ad esempio agli scavi clandestini - sia di carattere propositivo: tra queste ultime, quella di facilitare la concessione in deposito a tempo indeterminato di compendi archeologici a musei o ad altre istituzioni straniere di spiccata identità culturale. Sulle prospettive di un'azione del genere hanno fornito serie delucidazioni le relazioni presentate dagli esperti intervenuti al Convegno internazionale ‛Eredità contestata?' promosso dall'Accademia Nazionale dei Lincei a Roma, il 29 e 30 aprile 1991.
Inoltre, le norme contenute nelle delibere comunitarie avrebbero dovuto comportare modifiche anche sostanziali alle leggi di tutela vigenti nei singoli Stati membri, ma non risulta che ciò sia avvenuto sempre e ovunque: in Italia, ad esempio, un disegno di legge presentato dal PDS (Partito Democratico della Sinistra) al Senato il 7 ottobre 1993 non è stato mai tradotto in legge.
In sostanza si può dire che le principali deliberazioni in materia di protezione del patrimonio culturale - deliberazioni nelle quali la lungimiranza dei principî è sempre stata gravemente inficiata dalle circostanze pratiche di applicazione - hanno avuto un carattere che potremmo definire difensivo anziché propositivo di nuovi e grandi progetti. Sono poche, infatti, le disposizioni che hanno incentivato l'azione di tutela, e tra queste meritano speciale menzione quelle che hanno mirato alla corresponsabilizzazione dei privati o di settori sociali non istituzionalizzati. In questo campo un ruolo d'avanguardia è stato svolto dai governi francesi, a partire dalla legge 251 del 1968, riguardante il regime fiscale delle successioni ereditarie, che, con l'istituto della dation, prevede l'assolvimento di imposte mediante la cessione allo Stato o a enti pubblici specializzati di opere d'arte, di collezioni o di edifici monumentali.
Se dietro queste agevolazioni traspare l'esperienza inglese del National Trust, è tuttavia specifico delle nuove disposizioni (adottate in varie nazioni europee: in Belgio nel 1985, in Germania nel 1990 e anche in Portogallo e in Spagna) l'accento che viene posto sull'interesse del privato ad aver cura dei beni in proprio possesso, a restaurarli accortamente e a valorizzarli, magari anche devolvendoli ad associazioni a tale scopo costituitesi (quali, ad esempio, il FAI, Fondo per l'Ambiente Italiano). Esemplare, a tal riguardo, è stata la legge italiana n. 512 del 2 agosto 1992 (Regime fiscale dei beni di rilevante interesse culturale) che prevede la riduzione o esclusione di imposte sugli utili derivanti da beni patrimoniali di pregio artistico, la deduzione parziale o totale delle tasse sulle spese di restauro o di manutenzione e l'esclusione dall'IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) in caso di trasferimento di proprietà, oltre a speciali sovvenzioni e consulenze specialistiche.
Gli effetti pratici di questa legge non sono ancora stati all'altezza delle aspettative: la mancata emanazione, da parte governativa, del regolamento di applicazione ha ingenerato, nella fase attuativa, una abnorme complessità di procedure; inoltre, per ragioni di politica economica generale, i ministeri finanziari hanno vanificato molte e pur importanti iniziative che si sarebbero potute prendere. Si è così resa necessaria l'elaborazione di un disegno di legge - presentato al Senato della Repubblica il 4 agosto 1993, ancora una volta da parlamentari del PDS - per modifiche e integrazioni alla legge 512; tale disegno è tuttavia decaduto per la fine anticipata della legislatura.
3. Le realizzazioni museali
Gli ultimi tre lustri hanno visto ingenti realizzazioni nel settore delle gallerie e dei musei pubblici. Promosse, in genere, da esigenze di miglioramento funzionale e di ampliamento degli spazi espositivi, queste realizzazioni si sono sovente sviluppate in forme che hanno comportato un vasto ripensamento della concezione stessa di museo.
Una tendenza, concettualmente non nuova ma perfezionata specialmente negli Stati Uniti, è quella del museo inteso non più solo come contenitore di raccolte archeologiche e/o storico-artistiche, ben ordinate secondo i loro specifici connotati storici, bensì anche come luogo deputato per lo sviluppo di attività di ricerca. Si tratta quasi di un ritorno a quella idea della funzione didattica del museo che, sul finire del secolo scorso, aveva condotto alla fondazione di tanti, grandi e piccoli ‛University museums'. Quel che si è verificato recentemente è stato, in un certo senso, un percorso inverso: non più dall'Università al ‛suo' museo, bensì dal museo al ‛suo' più generale istituto di ricerca.
L'esempio più vistoso è stato l'allocazione del Center for Advanced Study in the Visual Arts (CASVA), progettato dall'architetto Ieoh Ming Pei, nel nuovo East Building della National Gallery of Art di Washington; si tratta di un organismo statale, dotato di una biblioteca e di una fototeca ricchissime, che non è soltanto al servizio delle attività istituzionali dei curators della Galleria, ma che accoglie anche annualmente studiosi (generalmente storici dell'arte) americani e stranieri - finanziati mediante speciali grants - che vengono così posti nelle condizioni migliori per sviluppare le proprie ricerche e per offrire importanti contributi didattici, tramite corsi di specializzazione e seminari per giovani studenti.
Parzialmente analogo è il J. Paul Getty Trust. Questo organismo - che, a differenza del CASVA, è privato - è formalmente sorto nel 1983 in attuazione delle volontà testamentarie del magnate americano (1892-1976) dal quale prende il nome, si è costituito come proiezione del museo fondato dallo stesso Getty a Malibu presso Los Angeles e si sta attualmente espandendo con un secondo edificio nella vicina Santa Monica. Il J. P. Getty Trust è un vero e proprio ‛sistema integrato', che svolge proprie attività di ricerca nei suoi Center for the History of Art & Humanities e Art History Information Program (ora Getty Information Institute), in particolare promuovendo indagini sulle vicende storiche delle opere d'arte (il Provenance index) e l'edizione di inventari di antiche collezioni; inoltre, partecipa alla sovvenzione e organizzazione di convegni scientifici internazionali, come quelli per l'utilizzo delle tecnologie informatiche nella catalogazione dei patrimoni culturali, ed è coeditore della Bibliography of the history of art (già RILA, Répertoire International de l'Histoire de l'Art). Ha anche un proprio settore di ricerca sul restauro (il Getty Conservation Institute) e finanzia, o concorre al finanziamento, di grandi iniziative di conservazione.
Un'altra tendenza, particolarmente sviluppatasi in Europa, è quella che potremmo definire dell'‛ipermuseo'. Nata e cresciuta in Francia, anzi più propriamente a Parigi, questa tendenza si è venuta concretizzando attraverso tre imponenti realizzazioni: il Centre Pompidou al Beaubourg, che è al tempo stesso museo, centro di documentazione e di attività promozionali (esposizioni, conferenze, attività multimediali) dell'arte moderna e contemporanea; il Musée de la Gare d'Orsay, collocato nel vecchio edificio ferroviario costruito da Victor Laloux nel 1900, che è stato così recuperato, ha raccolto le ingenti collezioni dell'arte del XIX secolo sparse tra il Jeu de Paume, l'Orangerie delle Tuileries, il Palais de Tokio e il Petit Palais; e infine il ‛Grand Louvre', del quale, giusto nella ricorrenza del secondo centenario dalla fondazione, è stata resa disponibile tutta l'ala (da tempo nota come Aile Richelieu) occupata dal Ministero delle Finanze e da altri uffici di pubblica utilità.
Al di là delle notevolissime, anche se spesso discusse, soluzioni di tecnica museografica - soluzioni per le quali si sono impegnati alcuni tra i maggiori architetti contemporanei (quali gli italiani Renzo Piano e Gae Aulenti, e il già ricordato I. M. Pei) - e perfino al di là delle ragioni cogenti di riassetto delle condizioni espositive delle collezioni, quel che importa soprattutto rilevare è il disegno di ‛politica culturale' al quale dobbiamo queste tre importanti realizzazioni. Un disegno che, se era implicito nella costituzione del Ministero degli Affari Culturali (1959) retto da una personalità quale André Malraux, si è venuto tuttavia meglio configurando nel corso delle realizzazioni stesse sotto l'impulso di tre successivi presidenti della Repubblica (Pompidou, Giscard d'Estaing, Mitterrand), e che pertanto, in quanto emanazione degli stessi vertici dello Stato, è eminentemente ‛politico', inteso ad affermare il primato della nazione nell'attività rivolta alle arti. Tale non sottintesa, anzi conclamata aspirazione al primato culturale - esibita a livello internazionale, ma principalmente volta a ottenere un largo consenso interno - si è concretizzata, ancor più che con le realizzazioni museali parigine, attraverso esposizioni, manifestazioni promozionali, festival teatrali e ‛animazioni' di vario genere, che hanno costituito formidabili occasioni di partecipazione collettiva nonché ottimi incentivi per l'industria turistica. Proprio quest'ultimo aspetto dirigistico della ‛politica della cultura', peraltro, è stato l'oggetto della fiera contestazione alla quale ha dato voce Marc Fumaroli e della quale s'è fatto cenno in premessa.
Se per un verso bisogna riconoscere che l'apporto specialistico dei grandi esperti - quali Michel Laclotte e Pierre Rosenberg per quel che concerne il Louvre - è stato accortamente valorizzato, per altro verso non si può non rilevare l'episodicità di varie altre manifestazioni, attraverso le quali è emerso un improvvisato ceto di ‛funzionari tecnocrati': ‟Gli esperti, gli eruditi, gli interpreti del passato - è stato osservato - dovranno dedicare la parte migliore del loro tempo e delle loro energie a compiti da manager dell'azione culturale, compiti divenuti oramai l'autentico denominatore comune e uniforme di tutti gli organismi dipendenti dal ministero" (v. Fumaroli, 1991; tr. it., p. 258); e poi: ‟Col pretesto dell'efficienza democratica nella gestione del patrimonio artistico, la baraonda dei supermercati e dei centri commerciali diventa l'ideale museologico" (ibid., p. 243).
È abbastanza singolare, ma non illogico, che il modello francese - ineccepibile al Louvre per quel che riguarda l'ordinamento delle molte collezioni, che esalta il valore specifico delle opere esposte - abbia fatto presa in altre nazioni, anche in quelle che non potevano permettersi un analogo impegno finanziario (il Louvre è costato, dal 1983 al 1997, la somma di 6,3 miliardi di franchi, pari a circa 1.900 miliardi di lire attuali); in particolare, tale modello ha fatto presa soprattutto nell'aspetto della promozione spettacolare, delle ‛animazioni' di massa, intra- ed extra-museali: basti ricordare, anche per i suoi tanti aspetti positivi, le varie edizioni della ‛Estate Romana' ideata e promossa da Renato Nicolini.
La mancanza di un progetto politico e di un'ambizione al primato culturale paragonabili a quelli francesi ha fatto sì che, sempre per restare in ambiente italiano, restino ancora irrealizzati progetti di grande valore come quelli della ‛Grande Brera' e dei ‛Grandi Uffizi'; anche la più recente proposta di un ‛sistema' intermuseale, relativamente autonomo dalle pastoie burocratiche (a Roma, per esempio, tale sistema avrebbe dovuto raccogliere in una unitaria gestione tecnico-scientifica le celebri gallerie statali ex-fidecommissarie, vale a dire Borghese, Barberini, Corsini, Spada) è rimasta nel limbo delle intenzioni.
In conseguenza della ‛spettacolarizzazione' dei musei (ma anche di aree archeologiche, di edifici monumentali, di ville, ecc.) si è accresciuta la necessità di offrire al pubblico i cosiddetti ‛servizi aggiuntivi': posti di ristoro, banchi di vendita non più solo di cataloghi, pubblicazioni illustrative e altro materiale didattico, ma anche di gadgets di varia e spesso banale natura. Si è così insinuato nella gestione dei musei il principio della redditività, la cui applicazione pervasiva ha finito per determinare una insensata lievitazione dei costi anche dei materiali di studio, come le fotografie e i connessi diritti di riproduzione: un caso quasi limite è stata, in Italia, la legge n. 4 del 14 gennaio 1993, comunemente conosciuta come ‛legge Ronchey' con il connesso regolamento (anche tariffario!).
L'autonomia gestionale dei musei viene così sensibilmente condizionata dalla redditività proprio dei servizi aggiuntivi, il che innesca un meccanismo utilitaristico che finisce per privilegiare i grandi e più frequentati musei a scapito dei tanti di non minore importanza storica e culturale, che sovente sono semplicemente fuori dei circuiti dell'industria turistica.
Se questa oramai è una tendenza generale della quale non si può che prendere atto, specie nei suoi risvolti sociologici, vale tuttavia la pena di segnalare quelle realizzazioni che, mediante il riassetto e l'ampliamento degli spazi espositivi nonché mediante la dinamica degli incrementi delle raccolte, hanno perseguito il miglioramento dei criteri museografici veri e propri. Soluzioni particolarmente felici, anche dal punto di vista architettonico, sono state trovate con il già ricordato East Building della National Gallery di Washington e specialmente con la Sainsbury Wing della National Gallery di Londra, progettata dall'architetto Robert Venturi, ove il discreto riecheggiamento di motivi brunelleschiani ben si associa al ‛clima' suggerito dalle collezioni di pittura rinascimentale.
È da sottolineare invero che le esigenze di espansione dei vecchi musei e di impianto di musei nuovi hanno prodotto, con uno sviluppo della stessa idea ‛museologica', realizzazioni che possono essere annoverate tra le più significative dell'architettura contemporanea. E ciò specialmente quando la nuova struttura è potuta sorgere in totale assenza di condizionamenti formali tradizionali, come nel caso dei nuovi musei di Berlino: qui, infatti, lasciando intatto, quasi come un monumento di se stesso, quel capolavoro della storia della museografia che è la Museuminsel - la quale, basata sull'Altes Museum di K. F. Schinkel (1830), s'era sviluppata fino al compimento del Kaiser Friedrich Museum (1897-1904) e del Pergamonmuseum (1933) - si è opportunamente deciso di dislocare in altra parte della città un grandioso complesso, il Kunstforum, che ospita la Gemäldegalerie e i servizi scientifici. In questo caso la dimensione stessa del progetto rivela un non sottinteso significato politico, giacché il Kunstforum assume il ruolo di ‛idea-museo' della Germania riunificata, nella Berlino ‛riaperta' dopo la caduta del muro.
È doveroso ricordare anche le recentissime ‛addizioni' ai musei di Amsterdam: la ristrutturazione dell'ala sud (Zuid Vleugel) del Rijksmuseum (1996), realizzata da W. G. Wim Quist, e specialmente la costruzione (il cui completamento è previsto per il 1998) di un nuovo spazio espositivo, progettato da Kisho Kurokawa, per sfoltire la congestione alla quale sono ancora costrette le raccolte del Van Gogh Museum, cui resta comunque principalmente destinato il pregevolissimo edificio di G. Rietveld (1960 ca.-1973).
Ma anche quando si è trattato di adattare a museo edifici già esistenti e sorti per tutt'altre funzioni - ad esempio l'Henry Cole Building acquisito per l'espansione del Victoria & Albert Museum di Londra o il Palazzo Villahermosa e l'antico ospedale dell'Atocha a Madrid, che ospitano rispettivamente la collezione Thyssen Bornemisza qui trasferita da Lugano e il Museo Reina Sofia - la rinnovata facies architettonica ha dato risultati formalmente e funzionalmente pregevoli.
Non va taciuto, tuttavia, che a volte le soluzioni adottate hanno destato serie perplessità: la trasformazione della ‛rotonda' interna al British Museum - già sede storica della British Library - in un ‛ovale' adibito a funzione espositiva ha praticamente distrutto una importante testimonianza del gusto architettonico e decorativo dell'Inghilterra vittoriana. Oppure la nuova sede della National Gallery of Canada a Ottawa, opera dell'architetto Moshe Safdie, quasi subordina la misura stessa del museo in quanto tale a una validità architettonica, peraltro innegabile, finendo per costituire un altro segno del sovradimensionamento dell'idea dell'ipermuseo.
Tra le più recenti realizzazioni italiane hanno avuto particolare importanza, per gli efficaci criteri dell'ordinamento espositivo che consentono di ‛catturare' il comportamento dei visitatori, le sistemazioni - ora giunte a termine dopo lunghissima gestazione - del palazzo ottocentesco già sede del Collegio Massimo presso la stazione Termini e del cinquecentesco Palazzo Altemps a Roma; si è così finalmente risolta la congestione, e la conseguente parziale inaccessibilità per un'intera generazione di studiosi, delle collezioni archeologiche del Museo Nazionale Romano.
4. Le attività promozionali di valorizzazione
Una parte sempre crescente degli interessi riguardanti i beni culturali si è concentrata sulle cosiddette attività di ‛valorizzazione': con tale espressione si intende non solo la ricerca storica e filologica, ma in special modo ogni azione che porti alla percezione e a una più sviluppata presa di coscienza collettiva dei valori intrinseci e dei significati di identità socio-culturale delle opere archeologiche, artistiche e monumentali.
Tale presa di coscienza è stata perseguita soltanto marginalmente con i tradizionali strumenti didattici: la scuola, in generale, non vi ha contribuito in modo sufficiente e solo di rado ha saputo associarsi agli speciali servizi informativi dei musei; quanto alla televisione, per il fatto stesso di obbedire a logiche di audience, essa si è limitata a presenze sporadiche, anche se talvolta assai apprezzabili. I contributi più positivi sono venuti piuttosto da una editoria il cui carattere divulgativo si è venuto affinando e che ormai non si avvale più soltanto di testi scritti e illustrati, ma anche delle risorse della tecnologia informatica, come i CD ROM e, in un non lontano futuro, Internet.
Hanno tuttavia prevalso le manifestazioni temporanee, specie le esposizioni: e il fatto che moltissime di queste siano ospitate entro i musei (pochi e oramai insufficienti sono i luoghi deputati, i ‛palazzi delle esposizioni' come quello di Roma o il parigino Grand Palais) ha costituito un'altra delle ragioni degli ampliamenti museali.
Di esposizioni oggi se ne tengono a migliaia ogni anno, non più solo nelle grandi città, ma anche in centri minori; un ‛calendario' degli eventi, pubblicato nel Supplemento di gennaio 1996 de ‟Il giornale dell'arte", ne elenca quasi seimila: per la maggior parte sono dedicate all'arte contemporanea, alla fotografia, al design, e vengono allestite in gallerie private che hanno funzione mercantile, mentre quelle dedicate all'archeologia, all'etnografia e all'arte fino al XIX secolo, organizzate appunto da musei o altri organi istituzionali, non sono più del 10% del totale.
Relativamente a queste ultime, va evidenziato come esse abbiano raggiunto livelli tali da conciliare l'intenzione promozionale - quasi sempre premiata da quantità ingentissime di visitatori (si è creata una specie di ‛turismo culturale di massa', ben organizzato) - con il traguardo della messa a punto di ricerche specialistiche, sì che tali manifestazioni hanno spesso registrato e ulteriormente incentivato il progredire degli studi specifici.
Le occasioni tematiche delle esposizioni sono state e sono di vario genere: molte, a carattere tradizionalmente monografico, sulle maggiori personalità artistiche, ma non poche dedicate a periodi storici di particolare rilevanza: grandissimo successo ebbe la mostra sulla ‛Civiltà del Seicento' a Napoli nelle sue varie edizioni (a Napoli nel 1984, poi a Londra, Parigi, Torino), alla quale hanno fatto seguito altre esposizioni più particolareggiate come quella, intitolata ‛Tra l'eruzione e la peste' (Praga e Napoli, 1996), che ha inteso mettere a fuoco le vicende dell'arte a Napoli, e i suoi radicali mutamenti, nel periodo che va dall'eruzione vesuviana del 1631 alla disastrosa pestilenza del 1656. Tra le altre mostre del genere, nelle quali la presentazione dei fatti artistici è ben coordinata con quella delle più generali vicende storiche, hanno avuto meritato successo quelle sul pontificato di Sisto V (Roma, 1993) e sull'età di Federico II di Svevia in Italia (Roma, 1996). Più aderenti alle problematiche storico-artistiche sono state, peraltro, le esposizioni sui momenti ‛alti' del mecenatismo: quelle sulla collezione di antichità dei Ludovisi (Roma, 1992), sulle collezioni dei Farnese (Parma e Napoli, 1966), sul patronato dei Madruzzo a raggio europeo (Trento, 1993), ma anche sul formarsi e definirsi delle iconografie devozionali di San Filippo Neri (Roma, 1995), oppure sui momenti delle grandi passioni dell'estetismo (la mostra sulla Egyptomanie dans l'art occidental, 1730-1930, tenutasi a Parigi nel 1994, poi a Vienna, e quella sul Grand tour, Londra, 1996).
Anche i grandi cicli della civiltà antica, in passato raramente presi in considerazione per oggettive difficoltà di disponibilità delle opere, sono finalmente stati oggetto di importanti mostre: basti ricordare quelle sui Fenici (Venezia, 1994) e sui Greci in Occidente (Venezia, 1996), nonché quella altamente spettacolare sul ‛Mito di Ulisse' (Roma, 1996).
A ulteriore e significativa riprova dell'aderenza di molte di queste manifestazioni alle problematiche della ricerca storico-artistica e ai loro sviluppi sta la constatazione che su taluni temi si è avuta una successione di mostre anche a breve distanza di tempo. Un paio di esempi tra tanti: dopo la grande e pionieristica mostra su Caravaggio e i caravaggeschi che Roberto Longhi aveva organizzato a Milano nel 1951, ne sono seguite altre, sia di carattere generale sia su distinti aspetti di quella cruciale congiuntura artistica, a Roma (1955), a Napoli e ad Atene (1965), a Parigi (1965), a Firenze (1970), di nuovo a Roma (1973-1974), a Napoli e a New York (1985), a Palermo (1985), a Dublino (1992), a Firenze e a Roma (1992).
Vale inoltre la pena di ricordare la prima mostra su Nicolas Poussin, tenutasi a Parigi nel 1960, che innescò un'amplissima serie di studi specialistici (culminati nella monografia di Anthony Blunt, pubblicata nel 1966 e ritenuta allora esaustiva) e di pubblicazioni più agevolmente accessibili al grande pubblico, che giusto allora cominciò ad apprezzare quel grande e ‛difficile' pittore. Gli sviluppi della ricerca sono stati, per così dire, tallonati e ulteriormente sospinti dalle mostre che si sono tenute a Roma (1977-1978) e al Kimbell Art Museum di Fort Worth (1988), fino a quelle che hanno celebrato il quarto centenario della nascita dell'artista, a Parigi e a Roma (1994-1995).
L'organizzazione delle mostre è stata dunque sempre più spesso curata da specialisti e realizzata da musei o altri organismi istituzionali; ma non di rado l'iniziativa è stata fatta propria da enti di carattere privatistico, come quello di Palazzo Grassi a Venezia. Tali mostre hanno comportato la redazione di cataloghi di elevato livello scientifico, spesso assai corposi e costosi; proprio in considerazione del fatto che questi cataloghi sono sostanzialmente indirizzati alla cerchia degli specialisti, si è promossa la produzione anche di più agili strumenti informativi (come i ‟Journaux de l'exposition" in Francia, videocassette, ecc.). Il bilancio culturale delle mostre, spesso in particolare di quelle ‛minori', è consistito non solo in una capillare ricognizione di beni culturali, non di rado precedentemente sconosciuti, ma anche in una serie di buoni interventi conservativi.
Tutto questo ha messo in moto un meccanismo i cui oneri specifici e indotti sono assai elevati: infatti, i costi di allestimenti, assicurazioni delle opere avute in prestito temporaneo, cataloghi e altre pubblicazioni, oltre che ovviamente dei restauri, quasi mai vengono coperti dai biglietti d'ingresso nonostante l'alto numero dei visitatori, e sono divenuti insostenibili anche per i maggiori enti istituzionali promotori delle mostre medesime. Parte di queste spese le si è potute sostenere grazie a sovvenzioni di enti pubblici: ma non si è trattato di atti di pura liberalità, poiché anzi quegli enti hanno in genere ravvisato in tali manifestazioni le occasioni per promuovere un ‛dirigismo culturale' modellato su quello francese. Nonostante ciò, si è determinata la necessità di un sempre più massiccio ricorso a sovvenzioni private, nella forma di quelle che sono oramai conosciute come ‛sponsorizzazioni'. Si è in tal modo innescato un processo di combinazione delle finalità propriamente culturali con gli interessi degli sponsors, che dalla compartecipazione a tali eventi si attendono, come suol dirsi, una ‛ricaduta d'immagine': una forma di pubblicità, dunque, non meramente mercantile, ma che comunque prevede, se pur indirettamente, qualche rientro economico, giacché spesso la vendita dei biglietti d'ingresso e delle pubblicazioni (e anche di gadgets di vario genere) è assunta in appalto dai privati che agli enti istituzionali riservano soltanto parche royalties.
Si può dire in sostanza che proprio e forse principalmente in connessione con le varie manifestazioni espositive si sia verificato quel che Umberto Eco segnalava in un suo saggio volutamente provocatorio, e cioè che ‟lo sfruttamento economico di un bene culturale diventa la possibilità di consentire senza spreco e al minimo costo la massimizzazione del godimento conoscitivo ed estetico, da parte di tutta la collettività, di materiali lavorati dall'azione umana" (v. Eco e altri, 1988); senza spreco e al minimo costo, ovviamente, per quel che riguarda gli enti pubblici di gestione del patrimonio culturale, restando tuttavia riservati i bilanci consuntivi delle sponsorizzazioni anche relativamente al beneficio della ‛ricaduta d'immagine'. Non è da trascurare, peraltro, il fatto che le sponsorizzazioni fruiscono, in genere, di agevolazioni fiscali come quelle previste dalla già citata legge italiana n. 512 del 1982, il che dà luogo, di fatto, a una specie di partita di giro tra pubblico e privato.
5. La catalogazione
Recentemente sembra che sia stata messa la sordina anche al problema della catalogazione, un altro dei temi che durante gli anni sessanta e settanta hanno più vivacemente animato le problematiche della tutela del patrimonio culturale. Ciò è avvenuto, almeno in parte, perché quasi tutti gli organismi preposti a questo compito sono oramai entrati a regime, e, al posto delle ambiziose metodologie della completezza storico-filologica dei dati documentari, hanno adottato forme di individuazione dei beni culturali più succinte, quelle dei catalogues sommaires o dei censimenti, nell'intento di corrispondere alle più immediate e concrete funzioni della tutela.
Questo atteggiamento ha tuttavia determinato la conseguenza di limitare le possibilità di integrazione tra i dati documentari stessi, nel quadro della pur fondamentale ricostruzione dei contesti storicamente definiti: limitazione che si riflette, come è ovvio, anche sulla elaborazione di strategie di interventi conservativi meno contingenti.
Se, dunque, le discipline storico-artistiche - nei loro vari orientamenti filologici, iconologici e, entro certi limiti, sociologici - hanno sperimentato un incontestabile avanzamento, tra queste e le attività di catalogazione, nelle loro più recenti accezioni, si è aperta una sorta di cesura. Si tratta di una circostanza che si è avvertita in modo più netto relativamente ai beni comunemente definiti artistici, e in misura assai minore relativamente a quelli archeologici, per i quali le correlazioni contestuali hanno mantenuto l'antica pregnanza che aveva connotato il passaggio dalla ‛antiquaria' alla scienza archeologica vera e propria. Anche per quest'ultima, tuttavia, il sempre crescente favore che incontrano le forme di classificazione tipologica (i corpora) ha finito per farne un'alternativa all'indagine storicizzante a più ampio plesso, pur se ad attenuare i limiti di quella che potremmo definire come una ‛monadizzazione' dei dati documentari è intervenuto lo sviluppo dei metodi di trattamento informatico dei dati stessi: metodi che portano in sé la possibilità - ancorché non sempre individuata né sfruttata - di connessioni relazionali tra banche dati assai diverse tra di loro.
È sintomatico il fatto che l'utilizzazione più avanzata delle tecnologie informatiche si sia data proprio in rapporto ai beni archeologici. Un esauriente censimento delle applicazioni in corso è rinvenibile negli atti dei tre Congressi internazionali sul tema ‛Archeologia e Informatica' organizzati a Roma (1992, 1993, 1995) dall'Istituto per l'Archeologia Etrusco-Italica dell'Università La Sapienza, che pubblica anche un annuario. Altre iniziative hanno raggiunto, proprio grazie a una utilizzazione altamente originale delle stesse tecnologie, traguardi più compiutamente storiografici; tra queste merita speciale menzione il Census of antique art and architecture known in the Renaissance, portato a termine nel 1994 grazie a una collaborazione tra il Warburg Institute di Londra, la Bibliotheca Hertziana di Roma e il Getty Information Institute.
Nel campo degli studi storico-artistici, l'applicazione dell'informatica all'opera di catalogazione appare meno originale, oppure si configura come riflesso di ricerche non destinate specificamente a tale uso. Sul versante della catalogazione, invero, il fatto stesso che si sia verificato un ripiegamento su forme di censimento ha reso sufficienti i programmi standard messi a punto dalle ditte produttrici di software, ormai virtualmente compatibili tra di loro.
D'altra parte, iniziative rivelatesi fallimentari hanno imposto quanto meno una pausa di riflessione: ricordiamo, ad esempio, quella intrapresa dall'Italia tra il 1986 e il 1988, nota col nome di ‛Giacimenti culturali', di affidare progetti parcellizzati di catalogazione a improvvisati consorzi di imprese private. Al contrario, la Seconda conferenza internazionale sul tema dell'elaborazione automatica dei dati e dei documenti di storia dell'arte - organizzata dalla Scuola Normale Superiore in cooperazione con il J. Paul Getty Trust e l'Istituto per il Catalogo e la Documentazione di Roma (Pisa, settembre 1984) - aveva offerto una panoramica molto più vasta di progetti e di esperienze.
Nel frattempo era emersa una questione fondamentale, quella terminologica, che condizionava non solo l'utilizzazione delle tecnologie informatiche, ma poneva in primo piano il requisito della validità informativa dei dati in generale (quelli derivanti dalla catalogazione come quelli derivanti da ricerche diversamente finalizzate). La questione terminologica fu aperta nel 1979 con il Convegno su ‛Lessici tecnici delle arti e dei mestieri', organizzato a Cortona dalla Scuola Normale Superiore, e fu sperimentata concretamente a livello di glossario e di etimologie con lemmari e strumenti manualistici più elaborati, come ad esempio i Dizionari terminologici preparati ed editi dal citato Istituto Centrale per il Catalogo tra il 1980 e il 1987. Tale questione ha messo in moto una folta schiera di ricerche che sono state poi confrontate nel Convegno Terminology for museums, organizzato nel settembre 1988 a Cambridge dalla Museum Documentation Association inglese, al quale hanno partecipato circa un centinaio di esperti di varie nazioni.
Gli sviluppi ulteriori - e cioè il passaggio dalle nomenclature alle connessioni relazionali tra i termini e la correlata analisi dell'uso differenziato che dei termini stessi fece la letteratura artistica fino a tempi recenti - sono stati realizzati sotto forma di thesauri, talvolta anche montati su CD ROM contenenti immagini esemplificative di manufatti artistici o di iconografie. Ma il problema che ne è derivato, quello dell'effettivo utilizzo di tali strumenti di definizione lessicale nella pratica corrente della catalogazione (oltre che nella letteratura artistica attuale), resta ancora aperto: una Guide for indexing and cataloging with art and architecture thesaurus, edita nel 1991 dal Getty Information Institute, se per un verso mostra come quel thesaurus sia stato utilizzato in circa duecento musei, biblioteche e servizi di catalogazione americani, per altro verso lascia trasparire una certa reticenza ad assoggettarsi a tale disciplina, pur nell'ambito di una lingua, l'inglese, nella quale la sedimentazione dei lessici storici non è stata così complessa come nell'italiano e nelle altre lingue neolatine.
Altro sussidio alla catalogazione è infine costituito dalle varie indagini sulla storia ‛materiale' dei beni culturali, quindi anche sulla storia del collezionismo: soltanto ora si comincia a intraprendere iniziative sistematiche, anche se si sono fatte più frequenti le edizioni critiche di antichi inventari (quelle cioè che non si limitano alla loro trascrizione testuale) e le analisi comparate delle ‛guide' e della varia letteratura periegetica. Vanno comunque segnalati, almeno come modelli, da una parte l'edizione comparata dello Studio di pittura, scoltura et architettura nelle chiese di Roma di Filippo Titi nelle sue varie redazioni (1674-1763), curata da B. Contardi e S. Romano (Firenze 1987), dall'altra il già ricordato Provenance index che, sorto come sezione del Getty Art History Information Program, nel 1985 si è trasformato in un consorzio tra dodici biblioteche e archivi europei e americani, prendendo il nome di Provenance documentation collaborative. Finora il frutto più consistente di tale organismo è stato l'Index of paintings sold in the British Isles during the nineteenth century, curato da Burton B. Fredericksen e del quale fino al 1994 sono stati editi cinque volumi: vi si ripercorrono, tra l'altro, le vicende terminali della disastrosa dispersione delle collezioni gentilizie italiane alla fine del Settecento.
Non risulta invece che siano state messe a punto analoghe iniziative volte a ricostruire le vicende dei beni culturali accertabili, ormai, non più solo in base a fonti bibliografiche o archivistiche, bensì dalla ricognizione ‛sul campo' che si attua per mezzo della catalogazione. Ciò è dovuto anche al fatto che i risultati della catalogazione restano confinati quasi soltanto negli archivi delle istituzioni di tutela, che ne fanno un uso logicamente strumentale, mentre di rado entrano nel circuito della ricerca archeologica e storico-artistica in senso proprio. Si sono difatti diradate, anche per gli elevati costi editoriali, pubblicazioni che già sullo scorcio del secolo scorso avevano costituito un vanto di quelle stesse istituzioni: ad esempio, le pubblicazioni della Kunsttopographie dei paesi di lingua germanica, quelle dell'Inventaire général des monuments et des richesses artistiques de la France; e in Italia la serie dei Cataloghi delle cose d'antichità e d'arte, alla quale in tempi lontani avevano collaborato personalità quali Pietro Toesca, Luigi Coletti, Wart Arslan e Antonino Santangelo, è ferma dall'immediato dopoguerra.
6. La formazione professionale
La complessità della gestione del patrimonio culturale si è enormemente accresciuta sia in rapporto ai nuovi campi di attività, come quelli promozionali della ‛valorizzazione', sia - soprattutto - in rapporto all'impiego delle moderne tecnologie. Ciò ha ovviamente comportato non solo modifiche nella struttura delle professionalità tradizionali, ma anche il sorgere di professionalità di tipo nuovo, e non soltanto quelle che, come s'è visto sopra, Fumaroli aveva definito dei ‛funzionari tecnocrati', che determinano nuove esigenze di formazione.
Per quanto riguarda le professionalità di tipo nuovo, si constata una grande differenziazione dei modi nei quali il problema è stato affrontato. Procedendo, necessariamente, per esemplificazioni essenziali, occorre in primo luogo distinguere le soluzioni adottate nelle nazioni nelle quali esistono organismi centralizzati preposti alla gestione dei beni culturali da quelle messe a punto nei paesi privi di tali strutture.
Rientra nei primi casi il modello efficientissimo della École du Louvre, secondo il quale la responsabilità della formazione, almeno dei quadri direttivi (nel caso specifico non solo di quelli del Louvre stesso, bensì di tutti i musei, anche non ‛nazionali'), viene assunta dalla struttura stessa di gestione. Purtroppo questo modello, dal quale nella stessa Francia è germinata la più recente École Nationale du Patrimoine, in altre nazioni non è stato quasi mai seguito.
In Italia, i sistemi di qualificazione professionale sono stati adottati soltanto a livello dirigenziale, cioè per i più alti gradi del personale; inoltre, tali sistemi sono orientati soltanto sulle mansioni amministrative anziché sulla formazione tecnico-scientifica. Quest'ultima è rimasta confinata nelle tradizionali scuole di specializzazione post-laurea in archeologia e in storia dell'arte, le quali, oltre a risultare palesemente inadeguate, si sono oramai ridotte di numero. Si è cercato pertanto di sopperire con l'istituzione di corsi di laurea o anche con vere e proprie Facoltà ‛dei beni culturali' (a Udine, a Viterbo, ecc.) distinte dalle Facoltà di lettere. L'esito di queste iniziative - sulle quali peraltro si sono accese vivaci discussioni - non è al momento verificabile: ancora nessuno di quanti hanno portato a termine tali corsi è entrato effettivamente nelle professioni per le quali è stato preparato, anche a causa del blocco generale delle assunzioni nel pubblico impiego; resta, inoltre, irrisolto il problema dello stato giuridico dei titoli rilasciati da quei corsi.
Tuttavia la necessità di mantenere intatta nell'ambito delle facoltà umanistiche l'organica correlazione tra le discipline storiche di indirizzo e l'istruzione all'uso delle tecnologie di ricerca (e di gestione) ha dato vita a speciali organismi: il Centro interdisciplinare di servizio per l'automazione nelle discipline umanistiche dell'Università di Roma ‛La Sapienza' e il Centro di ricerche informatiche per i beni culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, che pubblica anche un proprio bollettino. Ma si tratta sempre di corsi per la formazione dei quadri direttivi, mentre mancano ancora corsi della scuola secondaria finalizzati alla formazione per le altre molteplici mansioni tecniche - gli specifici ‛mestieri' - proprie dei beni culturali.
In altre nazioni le soluzioni sono state più particolareggiate e anche più pragmatiche. Bastino anche qui un paio di esempi. Un istituto altamente specialistico qual è il Victoria & Albert Museum di Londra ha recentemente istituito, in collaborazione con la School of Humanities del Royal College of Art, un corso biennale sulle ‛arti decorative' e la cultura del Rinascimento: l'obiettivo è quello di formare una classe di esperti che possano trovare impiego principalmente come curators di musei, ma anche come docenti nelle scuole professionali nonché, eventualmente, presso case di antiquariato. Negli Stati Uniti, invece, alla University of California a Berkeley si tengono ogni anno stages di durata mensile, gestiti dal Museum Management Institute che è un'altra delle emanazioni del Getty Trust. Lo scopo di questi stages è di promuovere aggiornamenti atti ad assicurare un livello professionale qualificato a coloro che, nelle situazioni assai differenziate e autonome dei musei americani, sono responsabili tanto delle attività gestionali e amministrative quanto di quelle educative e della organizzazione delle esposizioni.
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