Beni pubblici e beni collettivi
Il presente saggio, muovendo dal risalente dibattito dottrinale in materia di beni pubblici e collettivi, analizza la più recente giurisprudenza delle Corti apicali: in particolare, viene qui considerata la sentenza 11.5. 2017, n. 103, con cui il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale della l. reg. Sardegna, 11.4.2016, n. 5, con riferimento alle modalità di sclassificazione dei cd. “usi civici”. Tenendo conto, seppur implicitamente, della presa di posizione delle S.U. civili della Corte di cassazione del 2011, la Consulta formula con questa sua sentenza una lettura nuova dei beni pubblici e collettivi, in una prospettiva costituzionalmente orientata. Il lavoro analizza, inoltre, le ipotesi di riforma legislativa della materia, a partire dal disegno di legge delega elaborato dalla “Commissione Rodotà” del 2007, evidenziandone tuttavia i limiti, con specifico riferimento alla tutela dei beni collettivi.
Per beni pubblici devono intendersi l’insieme delle cose, giuridicamente concepite, tanto mobili quanto immobili, appartenenti allo Stato ovvero ad altro ente pubblico (a qualsiasi titolo, purché esso sia sufficiente a garantirne godimento e disponibilità all’ente di riferimento), ma anche ad una comunità di persone individuate o comunque facilmente individuabili, in ragione non soltanto delle caratteristiche naturali intrinseche dei beni, ma anche della loro funzione e della loro rilevanza sociale1. Come è possibile desumere da questa definizione, i beni collettivi altro non sono che una particolare species di beni pubblici: i cd. “usi civici”, al riguardo, ne costituiscono la tipologia forse più nota e diffusa, anche perché più risalente nel tempo2. Per uso civico deve qui intendersi quel diritto che spetta a tutti coloro che fanno parte di una determinata comunità, ovvero alla collettività individuata e/o individuabile nel suo complesso, di godere di determinati beni immobili appartenenti ad un ente pubblico (di norma il demanio)3. Si parla, in questo caso, di “uso” perché il diritto in questione consiste e si manifesta in attività relative al godimento di un determinato bene, mentre si aggiunge l’aggettivo “civico” per indicare come questo diritto di godimento spetti ai componenti delle collettività di riferimento uti cives4.
A ben vedere, tuttavia, se si alza lo sguardo dal c.c. e dalla legislazione speciale che regola la materia, ci si rende conto che la Costituzione non parla mai di beni pubblici (né tanto meno di beni collettivi), ma soltanto di “proprietà” pubblica e privata (art. 42, co. 1, Cost.). Si tratta di una disarmonia sistemica di non poco rilievo, soprattutto se si tiene conto che, pur trovando un sostegno nel dato positivo, restano comunque le sole disposizioni del codice a riconoscere e regolamentare, anche per risalenti ragioni storiche, la categoria dei beni pubblici. A ciò si aggiunga poi il fatto che, per un retaggio ormai secolare, la materia resta ancora disciplinata a partire dalla tripartizione mutuata dal pensiero rivoluzionario francese, ossia: “demaniopatrimonio indisponibilepatrimonio disponibile”5. Negli ultimi anni, tuttavia, anche in ragione di un rinnovato interesse da parte della giurisprudenza della Cassazione, sembra essere ritornata in auge una ricostruzione dogmatica della materia a lungo non valorizzata. Si fa qui riferimento alla tesi risalente, ma ribadita sempre in maniera costante nel corso dei decenni, da Aldo Maria Sandulli il quale, in un’importante voce enciclopedica del 19596, proponeva di approcciarsi al tema prescindendo dalla definizione giuspositivistica di bene pubblico, per farvi rientrare invece tutti quei beni serventi, per le loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche, al soddisfacimento di un interesse dell’amministrazione, ovvero funzionali agli interessi sociali della collettività e, in senso ampio, dello Statocomunità7. In effetti, una recente presa di posizione sul punto da parte delle S.U. civili sembra aver recuperato questo diverso approccio teorico, che meglio tiene conto dell’evoluzione sociale della materia. Con questo cambio di passo, inoltre, le S.U. civili hanno saputo meglio ancorare al testo costituzionale questa particolare tipologia di beni la cui concettualizzazione, risalente al periodo pre-repubblicano, risultava priva di un robusto e solido ancoraggio normativo alla legge fondamentale. Dunque, le S.U. civili, con la sentenza 14.2.2011, n. 3665, hanno avuto modo di ripensare il loro approccio al tema dei beni pubblici e collettivi, sottolineando come oggi non sia più possibile limitarsi, in tema di individuazione degli stessi, all’esame della sola normativa codicistica, ma bisogna necessariamente riferirsi anche alle norme costituzionali che, pur non contemplando – come detto – alcuna definizione dei beni pubblici, né ponendo in essere alcun tipo di classificazione o tassonomia al riguardo, comunque stabiliscono una serie di principi rilevanti. In questo modo, partendo dagli artt. 2, 9 e 42 Cost. e dalla loro diretta applicabilità, le S.U. hanno avuto modo di affermare che il principio della tutela della personalità e del suo corretto svolgimento all’interno dello Stato sociale, si realizza « … anche nell’ambito del “paesaggio”, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della “proprietà” dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultano, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività». Si prende così atto, da parte delle S.U., di una nuova esigenza giuridica, già manifestatasi a livello sociale, meritevole di tutela da parte dell’ordinamento positivo, che impone di « … guardare al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica. Ciò comporta che … più che allo Stato-apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato-collettività, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettiva realizzazione di questi ultimi». La conseguenza di questo ragionamento conduce la Corte a spingersi oltre la tradizionale dicotomia “beni pubblici-beni privati”, completamente schiacciata sull’individuazione della titolarità giuridica del bene, per valorizzarne invece, a fini definitori, anche la relativa funzione sociale e gli interessi collettivi che i singoli beni catalizzano. Pertanto, concludono le S.U., «… là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini».
La recente sentenza C. cost., n. 103/2017, trae origine dall’impugnazione, da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, della l. reg. Sard., n. 5/2016 – in particolare dell’art. 4, co. 24252627, in riferimento agli artt. 117, co. 2, lett. s), e 118 Cost. –, che prevedeva la possibilità di sclassificazione degli usi civici sardi da parte del solo legislatore regionale. Al di là del merito della quaestio legitimitatis, dalla lettura di alcuni passaggi argomentativi di questa sentenza, ad avviso di chi scrive, sembrerebbe emergere una più analitica ricostruzione della rilevanza costituzionale dei beni pubblici e collettivi da parte della Consulta, anche alla luce della citata sentenza delle S.U. In particolare, colpisce il lettore la definizione che la C. cost. formula degli usi civici, quando osserva che nella disciplina positiva che regola questa particolare tipologia di beni, il sintagma “usi civici” deve essere concepito in modo “polisenso”, ossia « … onnicomprensivo dei fenomeni di titolarità e gestione di beni comuni da parte di una collettività organizzata e dei suoi componenti. Carattere comune di questi istituti giuridici (differenziati sul territorio nazionale: domini collettivi, regole, cussorge, ademprivi, etc.) è la gestione di alcuni beni in comune per finalità prevalentemente agro-silvo-pastorali, finalità che ebbero particolare rilevanza in passato nelle collettività rurali caratterizzate da un’ampia diffusione dell’economia di sussistenza» (così al punto 3.1. del “Considerato in Diritto”). Andando al di là della mera qualificazione positiva, pertanto, che pure viene tenuta in considerazione e valorizzata, la C. cost. osserva come ciò che effettivamente rileva, ai fini della definizione di un bene collettivo quale uso civico, siano i suoi “caratteri morfologici” e le sue “peculiari tipologie d’utilizzo”, in sé meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali afferenti al patrimonio collettivo. Da qui, secondo la Consulta, la necessità di distinguere correttamente tra l’alienazione dell’uso civico, che sottoporrebbe il bene alla disciplina civilistica della proprietà privata, ed il suo mutamento di destinazione che, invece, ha come obiettivo quello di mantenere, pur nel cambiamento d’uso, «un impiego utile (del bene) alla collettività che ne rimane intestataria» (così al punto 3.2. del “Considerato in Diritto”). Se, quindi, è soltanto di competenza statale alienare il patrimonio collettivo (e quindi sclassificarlo), in capo alla Regione resta comunque la possibilità di statuire le modifiche alla destinazione dell’uso del bene che, in quanto transitorie, una volta venute meno, automaticamente fanno ritornare il bene nell’alveo del godimento collettivo. Conclude, infatti, la Corte affermando che i beni d’uso civico restano « … inalienabili, inusucapibili ed imprescrittibili e la loro sclassificazione, che è finalizzata a sottrarre in via definitiva alla collettività di riferimento il bene, è un evento eccezionale subordinato alle specifiche condizioni di legge, tra le quali mette conto ricordare che le zone oggetto di legittimazione o di alienazione non interrompano la continuità del patrimonio collettivo, pregiudicandone la fruibilità nel suo complesso» (punto 4.1. del “Considerato in Diritto”). Il vizio di fondo della l. reg. Sard., in sintesi, consisteva nell’equiparare gli effetti della sclassificazione degli usi civici con il loro mutamento di destinazione: infatti, soltanto la sclassificazione è finalizzata al cambio di qualificazione giuridica del bene collettivo e, quindi, eventualmente alla sua alienazione, in ragione della sottoposizione dello stesso al regime civilistico. Infine, si consideri come la rilevanza costituzionale di questi beni venga ricostruita dalla Consulta richiamando due suoi importanti precedenti: il primo è la sentenza del 11.7. 1989, n. 391, con cui veniva riconosciuto a chiare lettere che nell’ordinamento costituzionale vigente prevale – nel caso dei beni civici – l’interesse « … di conservazione dell’ambiente naturale in vista di una (loro) utilizzazione, come beni ecologici, tutelato dall’articolo 9, secondo comma, Cost.» (così al punto 3 del “Considerato in Diritto”); il secondo, invece, è la sentenza 20.2.1995, n. 46, con cui la Corte, ribandendo la connessione inestricabile dei profili economici, sociali e ambientali che inquadrano gli usi civici tra i beni pubblici, ne ricollega la tutela costituzionale al combinato disposto dei principi dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà (così al punto 3.3. del “Considerato in Diritto”).
Come si è già avuto modo di evidenziare, gli sviluppi giurisprudenziali in materia e, in particolar modo, la recente sentenza della C. cost, qui analizzata, dimostrano la necessità di un ripensamento complessivo di quella parte del c.c. dedicata alla regolamentazione dei beni pubblici che, essendo stata scritta prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, inevitabilmente mostra oggi tutti i suoi limiti (teorici e applicativi). Come è noto, proposte in questo senso non sono mancate nel recente passato: piace qui ricordare la proposta di riforma del capo I, titolo II del III libro c.c. elaborata dalla Commissione istituita presso il Ministero della giustizia il 21.6.2007, meglio nota come “Commissione Rodotà” la quale, dopo ben dieci mesi di lavori, audizioni e discussioni, aveva presentato un disegno di legge delega che, tuttavia, non ha avuto alcun seguito parlamentare8. Dai lavori della Commissione emerge una volontà chiara e lucida di riformare questo importante settore dell’ordinamento giuridico, oltre che di ripensare le categorie dogmatiche ad esso sottese, proprio al fine di dare attuazione al dettato costituzionale, superando così il concettualismo astratto del c.c. a favore della concreta realizzazione della funzione sociale che i beni pubblici tendono a catalizzare nella società. Tra le innovazioni più significative del disegno di legge delega, vanno annoverate, per la loro rilevanza teorica, tra le altre:
a) un ripensamento dell’idea di “bene giuridico” che tenesse conto anche delle nuove frontiere patrimoniali delle utilità immateriali: in questo senso, la Commissione si proponeva di classificare i beni pubblici in funzione delle utilità che esse generano a favore delle persone, in connessione con la dimensione costituzionale dei diritti fondamentali;
b) il superamento della dicotomia “demaniopatrimonio indisponibile”, per approdare ad una nuova e diversa tassonomia giuridica, legata più che all’ontologia, alla funzione economicosociale dei singoli beni. Ciò significa, come è stato evidenziato, che una tassonomia di questo tipo non possa più basarsi su un’ontologia naturalistica ma sociale, in quanto le utilità generate dai beni si distinguono tra loro in funzione della fruizione dei beni da parte delle collettività direttamente interessate9;
c) l’introduzione, nell’ordinamento giuridico, di tre nuove categorie di beni: quelli comuni, quelli ad appartenenza pubblica necessaria e quelli pubblici sociali e fruttiferi.
Manca tuttavia in questo disegno di legge delega un ripensamento della categoria dei beni collettivi, limitandosi la Commissione a chiedere genericamente al legislatore (e al Governo) una modifica della legislazione speciale per armonizzarla con le novità che si sarebbero dovute introdurre nell’ordinamento giuridico, a partire dalla nuova categoria dei “beni comuni”. Si tratta, ad avviso di chi scrive, forse del limite maggiore della riforma proposta dalla «Commissione Rodotà» che, al riguardo, non ha saputo dare il giusto riconoscimento a questa particolare tipologia di beni che, anche in ragione del loro radicamento sociale, necessitavano – come tuttora necessitano – di una maggiore attenzione legislativa e, conseguentemente, di una maggiore tutela giuridica. I beni collettivi, infatti, hanno sempre rappresentato, nella storia del nostro Paese, una tipologia di proprietà completamente autonoma e distinta tanto da quella privata, quanto da quella pubblica. Si tratta, del resto, di una particolare specie di beni il cui riconoscimento giuridico, ancor prima che essere legato ad un astratto dibattito dottrinale, è stato oggetto di rivendicazioni sociali e politiche che hanno caratterizzato la storia del movimento contadino, soprattutto agli inizi del XX secolo, rivendicazioni che ancora oggi ritornano prepotentemente all’attenzione degli studiosi10. Assorbiti da sempre nella più ampia categoria dei beni pubblici e, oggi, schiacciati dall’emersione della nuova categoria dei “beni comuni”, i beni collettivi rischiano di cadere in una zona grigia di indistinzione teorica che porta con sé anche il rischio dell’oblio di una serie di battaglie sociali, tanto nel meridione quanto nel settentrione d’Italia, che hanno saputo dare dignità giuridica a questo particolarissimo modo di utilizzare la terra.
1 La definizione nel testo ricalca, in parte, quella di Cerulli Irelli, V., Beni pubblici, in Dig. pubbl., II, Torino, 1987, 273.
2 Per un excursus storico al riguardo, si veda ancora Cerulli Irelli, V., Beni pubblici e diritti collettivi, Padova, 1983, 302 ss.
3 Così Zaccagnini, M.Palatiello, A., Gli usi civici, Napoli, 1984, 3. Si veda, inoltre, l’icastica definizione che degli usi civici – e delle proprietà collettive in generale –, ha formulato Grossi, P., «Un altro modo di possedere». L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977, 78: «Non il mostriciattolo barbarico da relegare in soffitta, non il peccato storico da farsi perdonare, da dimenticare, ma una soluzione che aveva avuto il solo torto di non essere fatta propria dalla cultura vincente e di non rivelarsi congeniale a una società dalle spietate scelte individualistiche».
4 Così Cerulli Irelli, V., Proprietà pubblica, cit., 212.
5 Cerulli Irelli, V., Beni pubblici, cit., 275.
6 Cfr. Sandulli, A.M., Beni pubblici, in Enc. dir., V, Milano, 1959, 277 ss.
7 La tesi sandulliana, più legata alla lettera della Costituzione, è rimasta sostanzialmente immutata nel corso degli anni: cfr. Sandulli, A.M., Manuale di Diritto amministrativo, XV ed., 2, Napoli, 1989, 755 ss.
8 Per una sintetica rassegna dei lavori della Commissione, si veda Reviglio, E., Per una riforma giuridica dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Pol. dir., 2008, 531 ss.
9 Reviglio, E., Per una riforma giuridica dei beni pubblici, cit., 534.
10 Per una testimonianza diretta in questo senso, si veda Cinanni, P., Abitavamo vicino alla stazione. Storia, idee e lotte di un meridionalista contemporaneo, Soveria Mannelli, 2005.