BENOZZO di Lese (detto Benozzo Gozzoli)
Pittore. Nacque a Firenze nel 1420, morì a Pistoia il 4 ottobre 1497. Né in documenti coevi, né in epigrafi, né in quadri firmati il nome di Benozzo appare seguito dal cognome di Gozzoli, aggiunto soltanto nella seconda edizione delle Vite del Vasari e da allora adottato arbitrariamente. Figlio di Lese o Alessio di Sandro, B. è nominato per la prima volta il 25 gennaio 1444 quando pattuisce di lavorare per tre anni con Lorenzo e Vittorio Ghiberti alle porte del bel S. Giovanni. Nel marzo 1447 lavora col Beato Angelico nel Vaticano e nel giugno ad Orvieto. Dal 1450 al '52 dipinge a fresco in Montefalco le storie di S. Francesco e nel '53 in Viterbo le storie di S. Rosa (oggi perdute). Nel 1459 decora con il corteo dei Magi le pareti della cappella medicea nel palazzo Riccardi a Firenze, nel 1463-65 affresca il coro di S. Agostino in S. Gimignano. Dal 1467 in poi la vastissima decorazione del Campo Santo di Pisa occupa B. quasi ininterrottamente; terminato l'enorme lavoro nel 1484, si trattiene a Pisa e nei dintorni altri dieci anni dipingendo tabernacoli, gonfaloni e bandiere. Nel gennaio 1497 lo troviamo a Firenze occupato in una perizia: e a Firenze, nell'ottobre dello stesso anno, egli chiude la sua operosa vita.
Educato all'arte nel modo migliore presso i migliori maestri, prima con l'Angelico nel convento di S. Marco, dove la sua mano d'aiuto è riconoscibile in alcune delle celle e specialmente nelle due abitate da Cosimo il Vecchio, poi con i Ghiberti nel lavoro delle porte, che dovette limitarsi per lui ad opere di modellazione delle parti ornamentali e di rifinitura, poi ancora con l'Angelico a Roma e ad Orvieto, s'emancipa tardi verso una via sua. A Roma aveva lavorato poco più che da garzone nella decorazione della Cappella Niccolina, nella quale la mano dell'allievo non è distinguibile se non a fatica da quella del maestro; a Orvieto aveva aiutato l'Angelico a dipingere i due spicchi della vòlta della cappella di S. Brizio nel Duomo, la cui decorazione fu terminata assai più tardi da Luca Signorelli; in entrambe le opere il discepolo era stato obbedientissimo al maestro e la collaborazione sua appare soltanto là dove egli intorbida le tinte e non riesce, neppure sotto la guida immediata del domenicano, a raggiungerne la cristallina purezza del colore. Soltanto a trent'anni B. dipinge da solo a Montefalco; ve lo troviamo timido ancora e impacciato, già determinato nel suo stile di pura tempra fiorentina, avendo negli occhi le storie francescane di Giotto, ad Assisi, ma oscillante fra indecisioni e inesperienze, pur nella sua schietta vena di facile novellatore. Già vi si delinea quel suo gusto dell'episodio piacevole e quel suo naturalismo nel tratteggiare il paesaggio allietato da architetture policrome, che diverranno sempre più tipici dell'arte di lui. Si deve supporre che negli affreschi di Viterbo si dimostrasse più maturo, se dopo sei anni l'arte sua si manifesta in così pieno rigoglio nella cappella fiorentina del palazzo mediceo: entro un paesaggio accarezzato come un giardino si snoda la Cavalcata dei Magi (v. tav. CLXV), corteo di principi del Rinascimento con pardi, aquile, falconi, come per una partita di caccia; le pareti della cappella appaiono come coperte da mirabili arazzi in tessuti di verde e d'oro ravvivati da squilli di rossi, gialli, bianchi e turchini; la piacevolezza del colore, la gaiezza del particolare festoso, la mescolanza ingenua di elementi sacri e di elementi profani in una visione di vita fanno di quest'opera, degna della corte medicea e del magnifico Lorenzo, uno degli esempî più attraenti e più tipici della pittura fiorentina del Quattrocento.
Tornò B. a dipinger campagnolo nelle Storie di S. Agostino a S. Gimignano. Vi figurò il giovane Agostino nelle scuole di Tagaste e di Cartagine, il viaggio del Santo dall'Africa in Italia, il suo insegnamento di retorica a Roma, il viaggio a Milano e l'incontro con S. Ambrogio, la conversione, il battesimo, i colloquî col fanciullo sulla riva del mare e con gli eremiti nel deserto, le varie vicende del Santo fino alla morte e alle esequie, in diciassette riquadri nei quali mise quanto poté d'invenzione piacevole, d'episodî popolareschi, di note paesistiche vivaci; ma vi ricompaiono i personaggi affollati e distratti, come figuranti sulla scena, che già si eran visti a Montefalco. L'arte sua è però più esperta, specialmente in quel Martirio di S. Sebastiano nella collegiata di S. Gimignano in cui B. ritrova i più efficaci accenti che arricchirono la cappella medicea. Dopo aver dipinto tavole e tabernacoli per le campagne senesi, sempre operoso e modesto, non disdegnando gli umili lavori, B. affronta sulla parete volta a mezzogiorno nel Campo Santo pisano il più ampio spazio che mai fosse offerto alla gloria d'un pittore. Vi dipinge le Storie della Genesi dalla creazione dell'uomo fino all'uscita di Noè dall'arca, continua il ciclo con le Storie del Vecchio Testamento, vi prodiga la sua fantasiosa vena di narratore facile e piano. I documenti pisani coevi permettono di seguire passo per passo quella opera che il Vasari chiamò "terribilissima", da quando cioè si rizzarono i primi ponti in Campo Santo a quando venne pagata a B. l'ultima storia del Vecchio Testamento. Il pittore cominciò le Storie (v. tavole CLXVI a CLXVIII) con una lieta scena di vendemmia nel quadro dell'Ebbrezza di Noè, sbrigliando quella sua immaginazione narrativa che non aveva potuto manifestare nell'angustia dello spazio a Montefalco, a Viterbo, a S. Gimignano. Le continuò con la pittura dei lavori campestri, dei più fantasiosi edifici d'architettura, dei più ampî orizzonti di paese, quando dovette rappresentare la Maledizione di Cam, la Costruzione della torre di Babele, la Vita di Abramo, l'Incendio di Sodoma, le Nozze di Giacobbe con Rebecca, le Storie di Giuseppe ebreo e quelle di Mosè, la Caduta di Gerico, l'Incontro di Salomone con la regina di Saba. Egli vi rivela un'ampiezza di concezione, una libertà d'invenzione, una ricchezza di fantasia che compensano l'eccessivo allineamento dei personaggi in talune storie, l'affollamento dei particolari, l'insufficiente sintesi degli elementi espressivi. La vita della città, delle campagne, le danze delle donne e i giochi dei fanciulli, le visioni bizzarre di architetture policrome, la freschezza del paesaggio, la gaiezza delle feste B. seppe ritrarre con fluida vena, lieta di sgargiante colore, in quel luogo dei sepolcri, sì che l'immensa pagina dipinta e aperta al sole è pur oggi viva d'una sua freschezza spontanea, d'un suo perenne sorriso. Purtroppo la vastissima opera è giunta fino a noi gravemente alterata nei colori, svanita e inaridita nell'intonazione generale, perduta in alcuni degli ultimi riquadri, rosa da una tabe mortale che lentamente ma fatalmente la uccide. I pisani ne furono così entusiasti, allorché l'opera fu compiuta, che vollero donare a B. in vita il luogo per la sua sepoltura in Campo Santo presso alle sue pitture e presso ai sepolcri dei cittadini più illustri che la patria onorava.
B. fu mediocre pittore di tavole. Ne esistono di lui parecchie: a Narni una Madonna, un'altra a Terni e un'altra a Berlino; a Sermoneta, nella chiesa parrocchiale, rimane una Vergine in coro d'angeli, assai primitiva; nella galleria degli Uffizî una graziosa predella e a Brera un frammento di altra predella; del 1461, è una tavola dipinta per la compagnia di San Marco a Firenze, ora nella galleria nazionale di Londra; presso S. Gimignano e nel museo civico di Pisa sono altre tavole d'altare dipinte per varie chiese; nel museo del Louvre è emigrato il Trionfo di S. Tomaso d'Aquino e nella raccolta Horne a Firenze è l'ultimo lavoro di B., una Crocifissione dipinta su tela a Pistoia. In tutte queste pitture il colore di B. è torbido, le figure hanno l'aria imbambolata, la composizione è affollata, pigiata nell'ambito della cornice, salvo che in qualche storietta delle predelle composta e colorita con brio. Si sente che B. era a disagio nel piccolo spazio delle ancone, bramoso com'era di novellare su ampie pareti. Ma quando narrò storie, quando ritrasse la vita, fu degno compagno del Ghirlandaio, di Filippo Lippi, di Masolino, novellatori fiorentini. Non ebbe discepoli se non mediocri, fra cui Zanobi Machiavelli; influì con l'arte sua sugli umili frescanti umbri, su qualche decoratore laziale. Giusto è su lui il giudizio del Vasari: "Ancoraché e' non fusse molto eccellente a comparazione di molti che lo avanzarono nel disegno, superò nientedimeno col tanto fare tutti gli altri dell'età sua; perché in tanta moltitudine di opere gli vennero fatte pure delle buone".
Bibl.: Vita di B. G. di Giorgio Vasari con introd. e note di R. Papini, Firenze 1912 (con la bibl. precedente). V. anche: C. Lasinio, Pitture a fresco del Camposanto di Pisa, Firenze 1818; Rosini e De Rossi, Lettere pittoriche, Pisa 1916; I. B. Supino, Il Camposanto di Pisa, Firenze 1896; H. Stokes, B. G., Londra 1906; U. Mengin, B. G., Parigi 1909; R. Papini, Il deperimento delle pitture murali del C. S. di Pisa, in Boll. d'arte, 1909, pagine 441-457; A. Venturi, Storia dell'arte ital., VII, i, Milano 1911; E. Contaldi, B. G., Milano 1928; G. J. Hoogewerff, B. G., Parigi 1930.