Benvenuto Cellini: La Vita - Introduzione
L'opera artistica e letteraria di Benvenuto Cellini è, da secoli, fissata nel ritratto che l'autore fa di sé nella Vita: è perciò assai difficile intessere un discorso critico senza mettere in primo piano, come eccezionali o almeno singolari, le qualità dell'uomo. Alle affermazioni di genialità che Benvenuto fa abbondantemente di sé va unita la coscienza della propria maestria che giustifica il dottrinarismo dei Trattati: per di più quanto riferirono i contemporanei sulla scontrosità e suscettibilità dell'artista (ab uno disce omnes) trovò buona esca nelle vivacissime parole che la pubblicazione dell'autobiografia suscitò nello spirito - per taluni aspetti, congeniale nel campo letterario - di Giuseppe Baretti. Si aggiunga la temperie romantica pronta a mettere in evidenza nell'opera dell'orefice e nella narrazione dello scrittore i modi schiettamente individuali d'un carattere.
Così Benvenuto finì per diventare un modello, anzi un eroe e forse anche un mito: era un po', per intendersi, il rappresentante di un'Italia dei pugnali, dei veleni e degli intrighi quale poté vagheggiarla uno spirito lucidissimo eppur romanticamente inquieto come Stendhal. Non senza ragione il suo Fabrizio del Dongo evade - nella Chartreuse de Parme - dalla Torre Farnese come il Cellini aveva fatto da Castel Sant'Angelo!
L'uomo ha così messo, nel Cellini, lo scrittore in seconda linea: e, se i Trattati sono stati relegati dalla critica letteraria nel mondo della tecnica e le Rime vengono ancora considerate come un ameno passatempo dell'artista, la Vita è soprattutto sentita come sfogo di un'individualità che non avrebbe avuto degno coronamento nel suo secolo, anzi essa è perfino stata considerata come documento sic et simpliciter di un'esistenza d'artista e d'uomo del tutto fallita. Aut Caesar aut nihil. Benvenuto, grande ammiratore di Michelangelo, era vissuto in un secolo di colossi. Aveva finito per essere schiacciato dalle «cose più grandi di lui». Per di più la prosopopea della confessione estrema (inizialmente ammantata di modestia) avrebbe mostrato ai posteri quanto Benvenuto non era riuscito a rendere nelle sue creazioni. Ma quante volte un lettore attento della Vita, nella presunta naturalezza e spontaneità di quel fraseggiare, trova sottigliezze che sono documento di una cultura tutta particolare! Giustamente è stato fatto notare che Benvenuto è uno scrittore di tipo plebeo, ma senza averlo fatto apposta! Si potrebbe osservare che egli è un orafo che prende la penna in mano (o detta), un cesellatore tutto abbandonato ai particolari della frase e tutt'altro che classico (cioè armonico) nel costruire i periodi e nel rendere i pensieri in modo tradizionale, per intenderei, dall'età di Platone a quella del Bembo. Per effusa che sia la sua particolare psicologia nel dettare al ragazzetto, più esperto di lui a tener la penna in mano senza fatica (meglio è lavorar di cesello nel «bottone» d'un piviale), si vede che egli sa rendere incisivamente figure e tratteggiar movimenti fino alla caricatura. Raggiunge, comunque, un'evidenza che si direbbe figurativa e che dà al gusto della parola (così tipica nel Cinquecento) un sapore tutto particolare.
Si consideri il godimento tutto speciale che l'artista manifesta nelle pagine più famose (l'esorcismo nel Colosseo, la fuga da Castel Sant'Angelo, la visita di Francesco I all'atelier parigino) e si valuterà meglio il suo libro come un grande affresco del secolo e non solo come documento autobiografico di difesa contro artisti rivali o mecenati gretti e taccagni. Le vanterie di Benvenuto sono spesso fine a se stesse: non giova fermarsi alla caratterizzazione (talora tutt'altro che simpatica) che l'autore fa di sé. È anzi bene vedere come - sia pure deformandoli - egli rappresenta «gli altri». L'umanità di Benvenuto, specie negli affetti familiari, non è mai da trascurare. E forse un amorale come fu lui si dipinse, per troppo alto sentire, più nero di quanto in realtà non fosse. Tanto che in primo luogo c'è sempre lui- nella Vita- con le meschine sue rimostranze, la sua alterigia fuori posto, i suoi ripicchi. Si finisce pertanto col legger l'opera in funzione di documento biografico, qua e là frastagliato di mirabili quadretti d'ambiente. In merito poi al carattere- alquanto eslege, sia pure nell'età del Rinascimento- non è giusto considerarlo nei limiti d'una «vita esemplare». Non foss'altro che come antifrasi. Anche come documento, la Vita è una composizione «letteraria» come tante altre: l'autore, che di sé ha un altissimo quanto a volte fin infantile concetto, deforma i fatti della sua esistenza in una continua proiezione nel futuro. Per quanto la narrazione rimanga poi in tronco, si potrebbe osservare che, per tutti i suoi giorni, Benvenuto non ha fatto che litigare, con la parola e col pugnale. E si lasci pure alla vanteria continua il compito di fare da mordente, fra l'essere e il vagheggiare.
Benvenuto s'attende sempre grandi cose dai contemporanei e dai posteri, dati i suoi meriti d'artista e le sue qualità di uomo; fida nell'aiuto di Dio un po' troppo invocato, anche per futilità d'un momento, fra inenarrabili delitti e turpitudini: ma è sufficiente controllare alcune vanterie (tra cui la cifra dei compensi avuti per le sue opere: compensi asse riti favolosi, mentre spesso furono assai scarsi) per considerare la Vita come un atto di fede d'un artista.
È fors'anche un sogno di nuova e più concreta fama, e non solo la giustificazione di un'attività appassionata che il secolo non apprezzava appieno. Era pur il tempo di Michelangelo e dell'assedio di Firenze. Benvenuto, che per il Buonarroti mantiene una stima più che degna di lode (salvo a far curiosi ragionamenti sulla vecchiezza del grande: e questo in merito alle proprie possibilità di vincere il concorso della statua di Nettuno) non ha alcuna preoccupazione in fatto di problemi politici e spirituali. Egli è, per sua confessione, un povero orefice che lavora per chi lo paga: naturalmente i mecenati più larghi (o più promettitori) di borsa si trovano fra imperatori, papi, granduchi. La logica di Benvenuto ha un modo tutto particolare di manifestarsi.
La critica letteraria non può mai dimenticare di trovarsi di fronte all'autobiografia di un artista del Cinquecento. Al pari del lettore comune il critico si lascia spesso suggestionare dai casi della narrazione. Ma dell'orefice «che scrive» bisogna fare il giusto conto. Non basta interessarsi alla materia antiaccademica (e perpetuamente ribelle come per vulcanica ebollizione) della Vita. Per quanto visionario sia il Cellini e non si periti a manifestarlo, il suo stile risente profondamente della sua tecnica di cesellatore. Come sbalza figurine sul bronzo, così sa tratteggiare con rapidi movimenti personaggi che passano un istante dinanzi agli occhi: papi, re, solenni politici d'Italia e di Francia.
Lo studio analitico della Vita (dal fraseggiare all'aggettivazione alla sintassi) va accompagnato dalla valutazione di un'opera di oreficeria quale il Perseo della Loggia dei Lanzi o di statue quali il Narciso e l'Apollo e Giacinto, ora al Museo Nazionale del Bargello, e il Crocifisso dell' Escurial e, in genere, dall'apprezzamento delle medaglie di Clemente VII e di Paolo III e dei sigilli di Ercole II Gonzaga e di Ippolito II d'Este. Le saliere d'oro di Francesco I o la Ninfa di Fontainebleau (più che i busti ancor realistici fin nella stilizzazione - di Cosimo I o di Bindo Altoviti, dove si vede nell'artista lo sforzo di essere quello che voleva essere e non fu, cioè un classico della grande Toscana) sono il documento più tipico del cosiddetto manierismo celliniano. Si tratta perciò di valutare con quale gusto, anzi con qual raffinato godimento l'artista descrive i casi della sua irregolare esistenza, come accarezza (è il termine) il suo scoppietto, come parla delle sue prestigiose abilità di cacciatore e di spadaccino. E, se non trascura di maneggiare il pugnale con un avversario che non ha sempre di fronte ma di spalle, è perché i colpi (con ripetuta confessione dell'interessato) «non si danno a patti».
Singolare fortuna quella della Vita. Non voluta correggere dal Varchi a cui la sottopose l'autore (lo storico deve aver sentito la potenza espressiva di quella narrazione), essa venne pubblicata a Napoli - con la falsa data di Colonia- nel 1728. Quale entusiasmo abbia poi suscitato in un lettore quale Giuseppe Baretti è noto da un celebre scritto della sua «Frusta letteraria». È necessario avere sott'occhio quello scritto - del 1763 - '64 - per comprendere come abbia potuto allignare un ritratto dell'uomo Cellini, ancor efficace nella critica dei nostri giorni.
«... Noi non abbiamo alcun libro della nostra lingua» dice il critico «tanto dilettevole a leggersi quanto la Vita di quel Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo nel puro e pretto parlare della plebe fiorentina. Quel Cellini dipinse quivi se stesso con sommissima ingenuità, e tal quale si sentiva di essere: vale a dire bravissimo nell'arte del disegno e adoratore di essa non meno che de' letterati, e spezialmente de' poeti, abbenché senza alcuna tinta di letteratura egli stesso, e senza saper più di poesia, che quel poco saputo per natura generalmente da tutti i vivaci nativi di terra toscana. Si dipinse, dico, come sentiva d'essere, cioè animoso come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, superstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio di amici, ma poco suscettibile di tenera amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cirimonie e senza affettazione; con una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d'essere molto savio, circospetto e prudente. Di questo bel carattere l'impetuoso Benvenuto si dipinse nella sua Vita senza pensarvi su più che tanto, persuasissimo sempre di dipingere un eroe. Eppure quella strana pittura di se stesso riesce piacevolissima a' leggitori, perché si vede chiaro che non è fatta a studio, ma che è dettata da una fantasia infuocata e rapida, e ch'egli ha prima scritto che pensato ...».
Così nel secolo del gusto e del genio ii Baretti vide nel Cellini uno scrittore di natura che non si perdeva nelle imitazioni delle poetiche del Cinquecento, fra le raffinatezze del petrarchismo e le artificiosità del boccaccismo. Il polemista della «Frusta» proclamava così nell'autore della Vita «il meglio maestro di stile che s'abbia l'Italia». Eliminato il canone dell'imitazione, che dai classicisti del Rinascimento all'Arcadia formava l'ossatura d'ogni educazione letteraria, il Baretti esaltava in tal modo lo stile naturale del Cellini.
Il romanticismo avrebbe poi fatto il resto proclamando l'individualità d'ogni artista e il culto della grandezza e della sincerità: avrebbe, quindi, lodato nel Cellini anche le qualità deteriori e apprezzato la sua lotta - più che strenua, anzi forsennata di proposito - contro tempi più o meno retrivi. Si aggiungano le ricostruzioni che si potrebbero già definire «romanzate» ante litteram. Si citi, ad esempio (anche se stesa per necessità editoriali), una specie di traduzione della Vita apprestata dal Lamartine nel 1866.
È piuttosto un rifacimento, anzi un esame di quell'opera ripresentata ai lettori francesi dato che in gran parte della narrazione si parlava della Corte di Francesco I, di Fontainebleau, del Petit Nesle e di Madame d'Étampes. Ma come ben nota Orazio Bacci (parlando di quella fatica del poeta francese delle Méditations nell'introduzione alla sua edizione critica della Vita), le note storiche apposte al lavoro contengono errori «veramente madornali»: con un Masaccio che sarebbe stato «un des fondateurs de l' École italienne dans l'onzième siècle» e con la curiosa prospettiva cronologica d'un Savonarola che «ennemi des Médicis et cherchant la faveur du peuple le [il Cellini!] fit condamner et bannir». Incerti, questi, d'un quadro di fantasia, anche se il principale ritrattato non sarebbe alieno dal favorire una nuova deformazione dei fatti. Almeno il Goethe, così ricco di spirito settecentesco, tradotta la Vita e pubblicatala dapprima nel 1796-'97, scriveva un'appendice sul carattere italiano in relazione al Cellini e ai suoi tempi. E, come disse Eugenio Camerini in una sua non dimenticata prefazione della Vita, il Goethe si era invaghito di due tipi «originali e bizzarri»: il Cellini e il personaggio a cui si intitola il Neveu de Rameau del Diderot. Tradusse quindi l'opera francese, ma la versione del libro autobiografico del Cellini «fu lavoro più lungo, e forse più grato, per l'affetto, la conoscenza, e anche la pratica che il Goethe aveva dell'arti del disegno».
Indubbiamente non bisogna mai trascurare il fatto che il Cellini è un orefice - dal carattere alquanto violento, e, in più, millantatore in non piccola parte - che detta i casi della sua vita mentre sta lavorando in bottega. Al tono autobiografico e visibilmente apologetico si unisce l'abitudine a rendere il particolare vivace e frizzante al di fuori di un vero piano di composizione letteraria: nello stesso tempo l'autore si vale dei mezzi di una grande tradizione prosastica quale quella del Cinquecento italiano e, in particolare, del potere espressivo della lingua fiorentina. Persiste il fondo plebeo anche per i contrasti troppo netti del suo carattere; ma si sente che Benvenuto vuoi fare un'opera e non solo lasciare un documento di vita. Dopo tutto - per ridurre più di una volta l'epopea a cronaca, e di pettegolezzi meschini per giunta - il Cellini parla di sé come medaglista, gioielliere, scultore. Egli giustifica le sue azioni - nessuna esclusa, a veder bene - e preannuncia nuovi fatti degni di risonanza.
Del Cellini il Vasari parla in più luoghi delle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, ma soprattutto ne tratta in uno scritto a sé, Degli accademici del disegno pittori scultori e architetti e delle opere loro e prima del Bronzino. Nelle pagine dedicate al Cellini, dopo aver detto del Perseo e del Crocifisso, così afferma: «Ora se bene potrei molto più allargarmi nell'opera di Benvenuto, il quale è stato in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo pur troppo dire il fatto suo con i principi, non meno che le mani e l'ingegno adoperare nelle cose dell'arti, non ne dirò qui altro, atteso che egli stesso ha scritto la vita e l'opere sue, ed un trattato dell'oreficeria e del fondere e gettar di metallo, con altre cose attenenti a tali arti, e della scultura con molta più eloquenza ed ordine che io per avventura non saprei fare ...».
Buon per Giorgetto Vassellario (come lo chiamava il Cellini) se non poté leggere quanto lo riguardava proprio nel manoscritto dello stizzoso artista del Perseo! È comunque vero che l'autore delle Vite comprese, senz'altro, le caratteristiche fondamentali dell'artista, anche se, pur ammirando i caratteri del genio e dell'individualità del tempo suo, osserva che pur troppo (cioè «troppo») il nostro personaggio aveva saputo «dire il fatto suo con i principi». In realtà, il servitor di potenti, ma non del tutto cortigiano, Benvenuto sente in modo eccezionale che l'arte sua è superiore a papi, re e granduchi, e non lo nasconde. Lo dice anzi in un modo che fa venire la mosca al naso agli interessati. Tanto più se quel che dice quella mala lingua di Benvenuto essi lo apprendono per interposta persona, non sempre disinteressata nel mostrar le improntitudini del bizzarro artista.
A buon diritto, nel Seicento, Filippo Baldinucci nelle Notizie dei professori di disegno da Cimabue in qua nel parlare del Primaticcio (ben noto rivale del Cellini a Fontainebleau) veniva a dire di Benvenuto e delle sue gesta, compresa la prigionia in Castel Sant'Angelo, attraverso la compagine della Vita di cui riportava larghi squarci ad illustrazione del Primaticcio stesso. E proprio della Vita diceva: «Di questo manoscritto, parlando pure del Cellino, fecene menzione il Vasari; ma il detto Vasari, che pur seppe essere al mondo quest'opera, per mio avviso, non la vide e non la lesse, perché, se ciò fosse seguito, egli vi avrebbe trovata una certa maniera di parlare della propria persona, che io non so poi, come gli fosse potuto venir fatto il dire del Cellino, anche così in generale, tanto bene quanto ei ne disse».
Si aggiungano diverse altre osservazioni del Baldinucci le quali tenevano conto dei rapporti di Benvenuto con artisti del suo tempo, il citato Primaticcio alla Corte di Francesco I e, nella Firenze di Cosimo I, quelli col Bandinelli e con l'Ammannati: «... se noi non volessimo credere che ciò egli facesse per rendergli bene per male, o veramente perch'ei n'avesse paura, perché egli era uomo delle mani, e di tal sorta di colore, come noi sogliamo dire che fanno egualmente scuotere le acerbe e le mature». E si rammenti quanto ancora è detto, sia pure incidentalmente, sull'opera manoscritta lasciata dal Cellini: «... sappia il mio lettore, che costui nell'anno 1566, quattro anni avanti alla sua morte [...] avea scritto in gran parte di proprio pugno un grosso e assai curioso volume di tutto il corso della sua vita, fino a quel tempo, il qual volume oggi si trova, fra molte degnissime e singolari memorie, nella libreria degli eredi di Andrea Cavalcanti, che fu gentiluomo eruditissimo e delle buone arti amico».
Queste testimonianze (in particolare l'ultima) ci riportano, «per l'accenno alla curiosità, alla forma mentis degli storiografi rinascimentali e classicisti in genere, volti alla mirabile aneddotica delle biografie degli artisti, ai loro straordinari casi, alle sorprendenti manifestazioni della loro virtù». Così dice Bruno Maier (da annoverare ai nostri giorni fra i più attenti e sagaci esegeti del Cellini, sia per indagini sulla Vita, da lui di recente presentata e annotata, e sulle Rime, sia per un utilissimo Svolgimento storico della critica su Benvenuto Cellini scrittore al quale rimandiamo fin d'ora il lettore). Dello studioso piace riportare un esatto giudizio che contribuisce a considerare la Vita celliniana nell'atmosfera delle confessioni d'artisti del tempo: «Tale è, in fondo, l'atteggiamento del cinquecentista Vasari e del secentista Baldinucci: e si noti che tale atteggiamento è proprio anche del nostro Cellini, il quale con una simile ottica spirituale guardò in se stesso e intorno a sé, e costruì così la sua vita e quel grandioso, michelangiolesco - se vogliamo - personaggio, che tutta la domina dall'alto, campeggiando sublime ed eroico sopra la folla variopinta e molteplice degli altri personaggi». Si tenga conto della posizione spirituale del Cellini - che fu per il Cinquecento una specie di forsennato e di omicida (spesso per futili motivi) quale sarà poi drammaticamente l'ancor più famigerato Caravaggio - e si noti come a tale passionalità compressa egli trovasse un certo sfogo nel dettare la Vita oltre che nel dedicarsi alle minuzie tecniche dell'oreficeria. Ma è anche naturale che i lettori d'oggi - abituati a ben altri avventurieri e ad ancor più truculente confessioni di vita vissuta - chiedano allo scrittore qualcosa di più che non il mero documento di un'esistenza irregolare o il resoconto, più o meno cronologico, dell'attività d'un artista insofferente di disciplina.
Per di più oggi le Rime e i Trattati sono assai meno letti di quanto si creda perché manca ad essi un soffio creativo che li faccia valutare in sé e per sé. Si potrebbe arguire che sono un'appendice d ella Vita, cioè dell'opera in cui rifulge, nel meglio e peggio, un artista non dimenticato proprio per elementi che son proprio il contrario di quelli del suo carattere: cioè la finezza minuta delle rappresentazioni, l'esattezza delle visioni di natura e simili. Indubbiamente anche il Perseo - con la statua di lui, col tronco della Medusa e con tutti i particolari della base del monumento - rimane impresso nell'animo degli ammiratori (e in quale splendido scenario) come un gioiello d'oreficeria: e lo stesso busto dell'artefice che i visitatori trovano sul Ponte Vecchio (ed è opera di Raffaello Romanelli) conferma, tra quelle botteghe e in quel panorama, la fiorentinità del Cellini. Forse non è mai da dimenticare il lato idillico e contemplativo del suo spirito pur nelle manifestazioni più irruente di un carattere incontrollato. Chissà che non abbia intuito qualcosa di questo apparente contrasto Ottone Rosai (anch'egli «artista che scriveva» e, per di più, nelle sue mitiche origini dichiaratamente «teppista», ma più raffinato di quanto non si creda nella sua stessa ricerca di popolare schiettezza) quando affermava in Via Toscanella: «La vita del Cellini la scrissi io quattrocent'anni fa». L'affermazione è del 1930. I secoli non contano, e passano, come l'Arno sotto il Ponte Vecchio. Era indubbiamente una vanteria piena di ingenuità: più che come confessione, si manifestava come una aspirazione ad un tipo di creatore che mal si confaceva coi modi soliti all'Accademia, fors'anche quella famosa di Firenze; intendiamo quella del Disegno, progenitrice di quella di Belle Arti. Il richiamo a Benvenuto è, comunque, suggestivo.
Il giudizio della critica oscilla, da secoli, dalla valutazione dell'interesse documentario e psicologico della Vita alla comprensione dei suoi motivi artistici: ad ogni modo, oggi non sono pochi i critici - e di più tendenze - a considerare il carattere letterario di una tale esposizione. Più che di realtà in senso positivistico (senza pur giungere alla formulazione di un surrealismo della Vita) si può parlare di evocazione o, piuttosto, di ricreazione del reale. Benvenuto avrebbe fatto di sé un mirabile «ritratto immaginario». E con eccellenti doti di scrittore, anche se non di accademia.
Pagine vive e scultorie e pagine frettolose e pettegole si alternano nell'opera del Cellini: la sua cultura fu scarsa, quanto a libri, ma egli colse nell'aria più di un elemento che con le lettere era perfettamente intonato. Quanto alla sua tecnica di orafo (più utile indubbiamente di quella di suonator di piffero, assai amata da suo padre) bisogna dire che gli servì anche per formare il suo stile. Non sarebbe esagerato dire che Benvenuto vide le cose (e le narrò) con occhio d'artista figurativo. La sua stessa morale lo faceva agire in conformità a tutto un modo di valutare il prossimo: naturalmente in rapporto alla sua frenetica ed esuberante sensualità. La sua è una voglia di vivere, una sete di dominio racchiusa nel circolo delle rivalità di mestiere. Con parola più semplice si potrebbe dire che si tratta di prepotenza. Comunque è amoralità di chi non sospetta nemmeno che ci siano freni sociali all'agire in conseguenza di alcuni semplicissimi princìpi di natura.
Il Cellini era quello che era. La sua Vita è il frutto più tipico di tutta la sua esistenza di uomo e d'artista. Volerla differente è un non senso. Tanto più se non si dimentica che il Varchi rinunziò a porvi addosso le mani di correttore.
Bisogna, per altro, considerare la Vita nella sua compagine psicologica, e, quindi, nei suoi motivi artistici e letterari. Diremo col Croce - attento lettore proprio d'un irregolare antiaccademico come Benvenuto - che «dove scrive male, scrive male e spiace; ma dove sembra che scriva male, e pur piace, vuoi dire che in realtà non scrive male. Questa è una proposizione puramente teorica. Come stiano le cose nel caso particolare è da vedere con un'analisi particolare». Così diceva il 2 novembre 1900 all'amico Vossler. E nel novembre '50, cogliendo occasione da alcune restrizioni sull'arte del Cellini espresse con forse eccessiva vivacità da Giovanni Comisso, affermava che «troppo semplicistica psicologia» è quella del Baretti, che «confonde la parola propria con le voci e i giri di frasi che prime vengono alle labbra, e troppo ingenua illusione che il Cellini, e gli altri scrittori che si trovano nel suo caso, in quel loro mettere in iscritto o dettare non abbiano già nella loro mente e corretta e ricorretta e affinata e carezzata la loro locuzione, e appreso dalle impressioni degli ascoltatori e dai loro visi stesi dove convenga rinforzarla e dove attenuarla e velarla; sicché, invece delle credute pagine improvvisate, danno di queste edizioni rivedute e corrette. Senza dire che è notissimo che la prosa semplice e ingenua suoi essere la più a lungo travagliata. Né il Cellini è il solo poco letterato che scriva pagine che si fanno talora ammirare e invidiare dai letterati, nel parlare delle quali non bisogna dimenticare per quelle vive e belle le altre (e ve ne sono nello stesso Cellini) in cui la mancanza di scuola e di disciplina producono i cattivi effetti che sono da aspettare».
Con questa osservazione espressa rapidamente ma con grande acutezza il Croce mostrava «quel che è vivo e quel che è morto» in un capolavoro ammirato da quasi due secoli e mezzo dietro un concetto dell'individualità condotto quasi all'esasperazione per certe esigenze della polemica romantica. Si può comunque sempre apprezzare, nella limitazione di alcuni aspetti troppo appariscenti della Vita se intesa nella sfera del genio e della natura, una tendenza della critica attuale a non considerare quel libro fuori della tradizione artistica e letteraria del Cinquecento. Gli stessi ragionamenti negativi, tanto dell'autobiografia come tale quanto di molta produzione dell'orefice e dello scultore, trovano la loro giustificazione nel mondo spirituale dell'artefice e nel particolare tipo di un libro inteso come documento di un'intera esistenza.
D'altra parte bisogna distinguere - più nettamente che non si faccia di solito - la testimonianza dello scrittore dall'attività dell'artista figurativo. Indubbiamente suggestionati dalla Vita, i critici non hanno sempre valorizzato la produzione dell'orafo e dello scultore. Come diceva il Kriegbaum, acuto scopritore del Narciso e dell'Apollo e Giacinto già creduti dispersi, «la fama universale dell'autobiografia di Benvenuto Cellini, tradotta da lungo tempo in tutte le lingue, ha fino ad oggi ostacolato la storiografia dell'arte nel tentativo di dare del Cellini artista quel giusto apprezzamento che egli merita». A sua volta, il Ragghianti fa notare la necessità di non usare come canone interpretativo il materiale psicologico della Vita, ed osserva: «L'immagine di sé che il Cellini ci ha lasciato in quel capolavoro che è la sua autobiografia, dove è inutile distinguere fra il reale e l'immaginario, perché in realtà si tratta di un auto-romanzo, l'immagine delle sue ire, delle sue violenze, delle sue gesta superbe, delle sue passioni sfrenate, delle sue estasi mistiche, del suo ingegno colossale, della sua originalità inaudita, della sua nobiltà eccellente, delle sue sofferenze da Cristo, delle sue gioie dionisiache, raccolta in una prosa che è tra le più creative della letteratura italiana, grava ed ha gravato ovviamente sull'immagine che dell'artista si può ottenere dall'analisi della sua opera figurativa. Quegli, che nella biografia accoltella, percuote, iracondamente urla, si vendica, compie prodezze di valore degne degli eroi plutarchiani, vive con imponenza alla pari dei monarchi e dei papi, grandeggia nella fortuna e nella sfortuna con uno spirito sempre eroico, favolosamente egocentrico, è in arte un sottilissimo, un raffinato, un estenuato, schivo da ogni "terribilità" michelangiolesca, piuttosto uno squisitissimo melico rotto ad ogni flessibilità capillare del ritmo, della linea, della forma (ed ecco perché ancora nel Settecento lo amarono, intuitivamente, mentre l'Ottocento scorse più che tutto la sua magistralità, la perfezione anche esterna del suo fare). Ricco di nostalgie, inquieto e sentimentale, anche ambiguamente "decadente": di fatti la sola opera non riuscita di lui e il programmatico Perseo, contrapposto voluto a Michelangelo. Sensuale, carezzatore epidermico, vibrante per la scoperta di ascose e rare sensibilità, quasi strematore di ogni venustà della forma e di ogni pieghevolezza dell'oscillare ritmico; e con una cultura formidabile, una scelta perfino furba, un ricorso ad esperienze eccentriche o inapprezzate o scadute nel gusto, che lo allinea assieme al Pontormo. Contraddizione? Impossibilità di questo apparentemente insanabile contrasto fra vita e opera? Questo potrebbe sembrare a chi non sa sufficientemente distinguere fra le forme diverse dell'umanità e porre con la necessaria delicatezza i loro rapporti». Fatto il paragone col D'Annunzio per lo scarso rapporto fra le sue gesta e la poesia de La pioggia nel pineto, il Ragghianti afferma: «Chi ha spiegato o spiega l'opera con la Vita, o viceversa, non distinguendo non intende, con l'esito di restare estraneo o lontano dalla qualità specifica dell'arte celliniana». Con queste parole, che illustrano la posizione dell'artista figurativo, piace anche conchiudere questa nostra presentazione della Vita di Benvenuto nel quadro letterario del Cinquecento.