CELLINI, Benvenuto
Figlio di Giovanni d'Andrea di Cristofano e di Elisabetta Granacci, nacque a Firenze il 3 nov. 1500. Il C. stesso cm la sua celebre Vita, i trattati e numerose lettere e scritti ha lasciato estese notizie relative a quasi ogni momento delle sue vicende.
Forse nobilitandolo, il C. ricorda come architetto (p. 8) il nonno Andrea che invece, da una portata al catasto fiorentino del 1487 (Bacci, in Vita, 1901, p. 7 nota), risulta che si definiva muratore: potrebbe però trattarsi d'una contraddizione solamente apparente, dovuta a quelle che erano le incerte denominazioni dell'epoca. Il padre Giovanni nacque a Firenze nell'anno 1451 ed è verosimile che fosse ingegnere quale il C. lo dichiara (p. 11), rammentandolo specializzato nel costruire i ponti" (forse da intendere come ponteggi), macchine ad acqua per la lavorazione del panno e altri congegni, e accennando al fatto che il gonfaloniere Soderini lo impiegò (1502-1512) "in cose molte importantissime" (p. 13). In effetti è certo che nel febbraio 1505 Giovanni riceveva uno stanziamento dalla Signoria fiorentina per aver costruito il palco dal quale Leonardo da Vinci avrebbe dovuto dipingere la Battaglia di Anghiari nella sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Di sicuro, inoltre, fu membro, in qualità di piffero, dell'orchestra di Firenze, prima al servizio dei Medici, poi della Repubblica; e come tale fece parte della commissione, nominata il 25 genn. 1504, che doveva decidere della collocazione del David di Michelangelo e propose che l'opera fosse messa nella corte del palazzo della Signoria (G. Milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875, p. 621). Uscì di carica nel 1514: aveva occupato il posto dal 1495, o meglio in quest'anno era ritornato a occuparlo, potendo la prima nomina essere fatta risalire al 1478, giacché - al dire del C. - la sua attività di suonatore si protrasse per trentasei anni. Avviò alla musica anche suo figlio, che lo ricorda (p. 11) inoltre quale costruttore di viole, liuti, arpe "bellissime et eccellentissime", soprattutto di "maravigliosi" organi con canne di legno e di clavicembali, "i migliori e più belli che allora si vedessino"; e quale intagliatore in avorio, ma con evidente esagerazione allorché lo presenta come "il primo" a lavorarlo bene. Di tale attività, il C. descrive (p. 12) uno specchio dal diametro di circa 30 centimetri nella cui cornice si trovavano sette tondini recanti, intagliate e intarsiate d'avorio e osso nero, le figure delle Virtù, imperniate in modo da rimanere in posizione verticale pur al ruotare della cornice stessa. L'opera parrebbe essere stata eseguita per Lorenzo il Magnifico o per suo figlio Piero de' Medici, i quali in un certo momento (entro il 1492), per fargli riprendere l'attività di intagliatore, gli avrebbero tolto l'incarico di musico ufficiale, che dovette riacquistare nel 1495. Morì a Firenze nel 1528.
Il C., a partire dal 1513, frequentò, nella città natale, due botteghe di orafi: prima quella di Michelangelo Bandinelli, poi (1515) quella d'Antonio di Sandro detto Marcone. Contemporaneamente, per desiderio del padre, il ragazzo si dedicava allo studio della musica, non senza buoni risultati. Nel 1516 il suo carattere impetuoso ebbe una prima esplosione: coinvolto in una rissa, il C. fu esiliato a Siena, dove per "molti mesi" (p. 18) lavorò presso l'orafo Francesco Castoro. Lo stesso anno, dopo essere ritornato a casa, raggiunse Bologna per studiare musica, dedicandosi però anche all'oreficeria, dapprima con Ercole del Piffero, quindi con un israelita, tale Graziadio. All'oreficeria attendeva anche l'anno seguente, sotto Ulivieri della Chiostra a Pisa, dopo un rientro in famiglia e una fuga immediata. Nel 1519 lo ritroviamo, a Firenze, di nuovo presso Marcone; poi con un altro orafo, Francesco Salimbene. Di altri ancora sarà garzone a Roma (1519-20): Firenzuola de' Georgis e successivamente Paolo Arsago. Dal 1521 al '23, rimpatriato, tornò col Salimbene, poi fu con Giambattista Sogliani. Alla fine del 1523, fuggito a Roma dopo un omicidio per cui ebbe la condanna a morte, veniva accolto da Lucagnolo da Iesi, e nella sua bottega cominciò a produrre gioielli autonomamente, proseguendo (1524) poi presso Giovan Francesco della Tacca.
Nel '24 stesso il C. aprì bottega propria, mentre faceva parte come cornetta dell'orchestra di Clemente VII; il papa gli commise varie oreficerie, così come vari prelati e altri personaggi in vista. Il Sacco di Roma (1527) lo costrinse a riparare in Castel Sant'Angelo, partecipando attivamente alla sua difesa, fra l'altro - secondo quanto egli ricorda nella Vita (né si hanno buoni motivi per non credergli) - con l'uccisione di Carlo di Borbone e il ferimento del principe d'Orange, condottieri degli assedianti (pp. 71 ss.). Dopo il Sacco (5 giugno 1527), come la maggior parte degli artisti lasciò Roma.
Tra due brevi soggiorni a Firenze, risiedette a Mantova (1528), operoso per quella corte, fra l'altro compiendo un sigillo per il cardinale Ercole Gonzaga. Ma già nel 1529 riprese il servizio per il papa come "maestro delle stampe" (doc. I, in Cerasoli, 1894) nella zecca romana, iniziando alcune monete, mentre era ospite dell'orafo Raffaello del Moro. L'anno dopo eseguì altre monete e diede avvio a un bottone da piviale e a un calice per Clemente VII. Il papa si limitò a un solenne rimbrotto allorché il P. uccise l'assassino del proprio fratello, presto (1531) concedendogli il beneficio di mazziere (doc. III, in Cerasoli, 1994). Tuttavia nel 1532, quando da un biennio il C. aveva aperto bottega in Banchi, l'appoggio papale gli venne meno; e nel '34, aggredito un notaio, dovette riparare a Napoli, ben accolto dal viceré. Tuttavia nello stesso 1534, di ritorno a Roma, presentava a Clemente VII la medaglia eseguita per lui, ottenendo l'incarico di dotarla d'un differente rovescio. Il 26 dicembre uccise un orafo rivale, Pompeo de' Capitaneis, però il neopontefico Paolo III gli diede un salvacondotto (doc. IV, in Cerasoli, 1894) e gli commissionò una moneta. Nondimeno l'anno successivo, per sottrarsi all'ostilità di Pier Luigi Farnese, figlio del papa, il C. si rifugiava a Firenze, da dove fece un breve viaggio a Venezia. Nella città natale eseguì alcune monete per il duca Alessandro (per il testone: A. Magnaguti, Ex nummis historia, VI, Roma 1934, n. 325); ma, urtatosi con Ottaviano de' Medici, entro il 1535 si ristabiliva a Roma, e l'anno dopo presentò a Carlo V la copertina di un uffiziolo (dispersa) voluta dal papa appunto per l'imperatore. Nel 1537 raggiunse Parigi, e probabilmente compì una medaglia per re Francesco I, che aveva incontrato a Lione. Però entro dicembre era di ritorno a Roma, dopo una sosta a Ferrara. L'anno successivo, sotto accusa d'essersi appropriato di alcuni gioielli di Clemente VII durante il Sacco, fu rinchiuso in Castel Sant'Angelo, da dove evase quasi subito; ma per esservi imprigionato di nuovo nel '39, fino a dicembre, quando, liberato, trovò ospitalità presso il cardinale Ippolito d'Este, al quale intagliò un sigillo.
A questo punto è possibile un primo bilancio dell'attività del Cellini. Scomparse forse irrimediabilmente le numerose opere di oreficeria (anelli, medaglie per berretta, sigilli nobiliari e prelatizi, acquerecce, pugnali, fibbie, candelieri) eseguite per vari committenti in Toscana e a Roma sino al 1530 e oltre, l'approccio con il fare giovanile è reso possibile tramite le impronte in ceralacca (mm 60 × 170) del Sigillo (1528) per il cardinale Gonzaga, superstite in sei pergamene dell'archivio storico diocesano della Curia vescovile di Mantova (Fondo Capitolo della Cattedrale, serie Pergamene, busta XXIV), raffigurante l'Assunzione della Vergine, cherubini e lo stemma Gonzaga con iscrizione (Tesori d'arte nella terra dei Gonzaga [catal.], Milano 1974, p. 112).
Dalla Vita apprendiamo che il C., mentre sotto la guida degli svariati orafi coi quali si allogò via via apprendeva gli elementi tecnici della professione (ma, forse, i suggerimenti più efficaci li desunse dagli esempi del lombardo Caradosso, fortunato produttore in Roma di oreficerie e medaglie), attese a un tirocinio analogo a quello usuale per gli aspiranti artisti di allora: copie dai cartoni di Leonardo e Michelangelo per gli affreschi - non eseguiti - in Palazzo Vecchio di Firenze, dai sarcofaghi classici del Camposanto pisano, dai quaderni di antichità lasciati da Filippo Lippi, la cui incisa grafia dovette impressionare il tirocinante, non insensibile - parrebbe - nemmeno all'allucinato nitore delle sculture del Torrigiani. A Roma, poi, egli ricorda (pp. 37 ss.) la dimestichezza che lo legava ai "gioveni" di Raffaello, intenti a concludere le imprese rimaste interrotte per la morte del maestro, e lo studio da lui condotto sugli affreschi vaticani del Sanzio stesso e del Buonarroti. Il sigillo Gonzaga rivela i fruttuosi contatti col raffaellismo tardo, imbevuto cioè di elementi michelangioleschi, come rivelano l'agile prestanza delle figure (componenti l'Assunzione della Vergine), il loro inserimento, in moti vorticosi e drammatici, l'ampiezza dell'ambiente pur entro gli angusti limiti dell'operina. Caratteri affini si riscontrano, con la cautela imposta dall'esame indiretto, nel disegno settecentesco, probabilm. di F. Bartoli (Londra, British Museum, Print Room), che riproduce il bottone per il piviale di Clemente VII, slegato nel 1797 (T. Thurston, Two lost Masterpieces..., in The Burlington Magazine, VIII [1905-06], pp. 38 s., tavv. 1 s.).
Poco dopo, fors'anche per la suggestione esercitata da dipinti di Sebastiano del Piombo, l'artista si orienta più risolutamente verso Michelangelo: ne testimoniano i due rovesci per la medaglia di Clemente VII (Firenze, Bargello), specie il secondo, con Mosè, in cui l'atteggiamento del profeta assume una articolata dinamicità prima ignota al Cellini. Il soggiorno fiorentino del 1535, offrendogli il destro di esaminare le tombe medicee in S. Lorenzo, uno fra i massimi raggiungimenti del Buonarroti, conferma il C. nella devozione al "gran Michelagnolo" (da lui "e non da altri io ho imparato tutto quel che io so"), sia pure attraverso l'interpretazione che ne stavano dando i primi manieristi. Così, egli allungava il modulo delle figure, raccogliendole in ritmi ondulati e scioltamente aperti, come nel S. Giovanni inciso sul giulio di Alessandro de' Medici (Vienna, Münsterkabinett). Il manierismo, è noto, si alimentava altresì di un assiduo "ritorno" al Quattrocento, che nel C. si concretò in un forte interesse soprattutto per Donatello. Desinenze donatelliane, quantunque nel preponderare dei rinvii a Michelangelo, si ravvisano infatti nelle altre monete per il duca Alessandro; mentre accenni ai pergami di Donatello per S. Lorenzo improntano le Storie di s. Ambrogio e del Battista nel sigillo per il cardinale, d'Este (noto da un'impronta nel Museo di Lione: Plon, 1881 tav. X, 1; Camesasca, 1955, tav. 5). Frattanto, nell'attendibile ipotesi che la medaglia di Francesco I (Parigi, Bibl. Nat.; Londra, Victoria and Albert Museum) spetti al 1537, il C. aveva fornito una prova di ritrattista acuto e stringato, come le medaglie e le monete precedenti non mostravano; e nel rovescio della medaglia francese, se la Fortuna giacente appare un fresco richiamo alla Notte michelangiolesca, il Cavaliere che si accinge a colpirla s'imparenta con analoghe immagini di Leonardo.
Rimessosi dalle traversie della prigionia, grazie ai buoni uffici del cardinale Estense il 22 marzo 1540 il C. riprendeva la via della Francia per entrare al servizio di quel sovrano. Dopo aver ucciso un maestro delle poste a Siena, durante una sosta a Ferrara eseguì, o meglio iniziò, alcune opere per il duca Ercole. Verso metà settembre era a Fontainebleau, quasi subito proseguendo per Parigi con la corte. Nella capitale ricevette calorose accoglienze da Francesco I, che due anni dopo gli concedeva la naturalizzazione francese, assegnandogli il castello del Petit Nesle a Parigi. Nel 1543 risulta compiuta, per il re, la famosa saliera ora a Vienna (Kunsthistorisches Museum) che egli aveva abbozzata a Ferrara per Ercole d'Este, e nel 1544 l'artista consegnava il Giove (perduto), la prima delle dodici statue-torciere d'argento ordinate dallo stesso Francesco (le altre, rimarranno allo stadio di abbozzo, tranne la Giunone, forse fusa ma di sicuro neppure essa terminata); inoltre definiva i modelli per la Porte dorée, detta di Fontainebleau (catal., Paris 1972), di cui vennero compiuti la Ninfa (Parigi, Louvre), e due Vittorie, pure in bronzo, disperse dal secolo scorso, ma delle quali restano i calchi (Parigi, Louvre), e progettava la colossale fontana della medesima reggia, di cui appena alcuni elementi giunsero allo stadio di modello in grandezza definitiva. L'anno dopo il C. abbandonò Parigi, così precipitosamente da lasciare adito al sospetto che si fosse impossessato, o volesse farlo, di parte dell'argento affidatogli per le commissioni reali; e, passando per Lione (7 luglio), rivalicava le Alpi.
Col secondo soggiorno francese si arriva al nodo cruciale dell'iter stilistico del Cellini. La saliera viennese costituì il pezzo forte per quanti, dei vecchi critici, intesero asserire il virtuosismo gioielleresco dell'autore e la povertà delle sue doti plastiche. Mirabili le qualità tecniche, specie per la maestria con cui appaiono stesi gli smalti secondo una gamma di colori preziosamente svariati in modo da coordinare le figure e gli altri elementi modellati. Che poi nel suo complesso l'opera sia sembrata stucchevole per la copia dei dettagli e sproporzionata per l'innaturale allungamento dei corpi, dipende da una lettura inadeguata. Vista infatti coi personaggi principali di fianco, la composizione si risolve in una, simmetria alquanto rigida; ma se l'osservatore si colloca in posizione un poco sopraelevata (quella suggerita dalla logica della destinazione), la saliera rivela ogni sua parte armoniosamente inserita entro un coerente sviluppo di linee, esprimendo impulsi formali di straordinario vigore. Tuttora numerosi i riferimenti al Michelangelo delle tombe medicee, sia nel nudino femminile steso sul tempietto (il recipiente del pepe), sia nei nudi dello zoccolo. Per le figure maggiori - Nettuno, appunto, e soprattutto la Terra - e per le allegorie dei Venti applicate sulla base si pone il quesito dei rapporti col fervido cantiere artistico di Fontainebleau, dove dal 1530 aveva predominato il Rosso, cui nel '40 subentrò il Primaticcio, e dove, assieme alla prepoderanza di anticlassicismo peninsulare, prima toscano, poi bolognese, gli apporti di artisti italiani d'altre regioni, e fiamminghi, spagnoli, tedeschi, oltre che francesi, determinarono modi espressivi coi quali la tensione manieristica giunse a inaudite coesistenze di cerebralismi estenuati ed esibizioni di naturalezze capillari, di sintesi scattanti e complicazioni morbose, di aulicità esclusiva e naturalismo triviale.
Nella saliera di Vienna l'adesione del C. al nuovo gusto è rivelata dall'antinomia fra la composta snellezza delle figure principali e la massiccia, perfino caricaturale muscolosità dei Venti, entro un contesto di colorata esuberanza ornamentale. pure tipica delle tendenze elaborate a Fontainebleau. L'apparato per il portale della reggia fornisce un'altra prova di mutamento linguistico. Indipendentemente dai legami che potrebbero imparentarle a ideazioni similari del Primaticcio, le forme della Ninfa sono pensate in funzione della lunetta ambiente, atteggiate e. allungate per adeguarvisi in tutto; e con la flessuosa architettura umana concorda lo svolgersi del drappo che l'incornicia per poi stemperare le proprie ondulazioni in quelle delle acque sottostanti. Stupendo saggio di stile "rustico" (altro elemento di Fontainebleau), completano l'immagine vari animali, che un delicato lavorio di cesello rende in ogni minuzia. Ancora, alternativamente scivolando e infrangendosi sulle superfici polite o screziate, la luce dona all'assieme un'astratta levità, e poiché la lunetta era destinata all'aperto, dall'incombere dei raggi solari si sarebbe creata una massa d'ombra sotto la figura nuda, attenuandone certo tigido parallelismo con la base della composizione. Sui fianchi della lunetta, la coppia di Vittorie a bassorilievo doveva esaltare codeste dinamiche interiori, accentuando o concludendo taluni motivi, come quello del drappo arcato, che appunto ricompare nei calchi delle due opere disperse. Meno agevole da valutare, nell'economia generale della porta, la prevista presenza d'un paio di Satiri-cariatidi a mo' di stipiti; che comunque dal disegno (New York, coll. Woodner: J. Bean-F. Stample, Drawings from New York coll. s., I [catalogo], New York 1965, n. 82; W. H. Schab, Woodner Coll., New York 1971, nn. 14 s.), unica testimonianza superstite, lasciano intuire un'attiva partecipazione alla vicenda plastica del complesso, opponendo all'aristocratica cerebralità delle parti superiori una nota di carnale naturalismo. A proposito del foglio con uno di questi satiri, la sua qualità grafica appare così agile e penetrante da sottrarre attendibilità all'autografia celliniana asserita, pur autorevolmente, per altri disegni, cominciando da quello (Louvre) con una delle dodici statue-torciere, la Giunone, verosimilmente da declassare, per l'accademica inerzia, a lavoro di bottega eseguito a Firenze (I Maestri del disegno, C. Monbeig-Goguel, Il manierismo fiorentino, Milano 1971, tav. XIII). Rimane tuttavia da accennare al fatto che, nel corso del soggiorno francese, il C. si orientò verso il gigantesco, modellando in gesso per la fontana di Fontainebleau un Marte alto 16 metri, da gettare in bronzo. L'improvviso rimpatrio interruppe l'impresa.
A Cosimo I de' Medici, che lo ricevette benevolmente, l'artista celebrò da par suo i lavori avviati per il re di Francia. A sostegno delle parole, il C. dovette far eseguire da qualche allievo disegni come quello citato della Giunone, appunto, con ogni verosimiglianza limitandosi a qualche ritocco. Forse proprio quei promemoria risolsero il duca a commissionargli il proprio ritratto e il Perseo per la loggia dei Lanzi. Il primo (Firenze, Bargello) venne fuso già nel 1546, dopo che il C. aveva soggiornato a Venezia per sottrarsi all'accusa di sodomia; nel tempo stesso furono probabilmente iniziati anche il corpo di Medusa per il Perseo e l'Apollo marmoreo ora nel Bargello. Al 1548-49 spettano il restauro di un antico Ganimede e l'avvio del Narciso in marmo (entrambi al Bargello), e la fusione della figura principale del Perseo, oltre alle prime trattative per importanti opere destinate al duomo di Firenze, trattative proseguite a lungo ma senza esito. Poi, fra il 1552 e il '54, il C. risiedette a Roma per consegnare a Bindo Altoviti il suo busto, ora a Boston (I. Stewart Gardner Museum); e dopo il ritorno prese parte ai lavori di rafforzamento della cinta fiorentina. Nell'aprile 1554, finalmente, l'inaugurazione del Perseo.
Nell'autobiografia è detto che la "prima opera" gettata in bronzo a Firenze fu il busto di Cosimo I; ma di sicuro tale fusione venne sperimentata col rilievo del Cane (Bargello), documentato già nel 1544-45. Entro la breve arca della targhetta, l'affettuosa raffigurazione vibra nello sbrigliato graduarsi dei piani, per cui dal tuttotondo del muso si passa allo stiacciato degli arti; le forme, pur tanto articolate, appaiono più salde che nei lavori francesi per gli immediati riferimenti a modelli classici. E classica si presenta la severa astrazione dell'imponente busto ducale, a evidenza concepito per una collocazione alquanto elevata, da dove i particolari - specie quelli della lorica - si sarebbero disciolti nella mole complessiva, favorendo la piena definizione dei ritmi strutturali. Questi ultimi sembravano davvero realizzare le "otto vedute" che il C. postulava "tutte di egual bontà" per una scultura, e che concorrono a fare del Cosimo I una presenza incombente, tanto più che la sua fissità scrutatrice era acuita dal biancore dello smalto applicato sugli occhi. Proprio perché, evidentemente destinato invece a una visione ravvicinata, presenta un impianto intimamente diverso, basato su agiate sequenze di direttrici verticali - anziché di oblique proiettate "contro" il riguardante, come nel busto al Bargello - e su una minore definizione dei dettagli - più consona alla chiarezza della pietra -, si può pensare che il Cosimo I marmoreo del M. H. De Young Memorial Museum di San Francisco sia un originale celliniano, sebbene condotto a termine da altri (W. Heil, in The Burlington Magazine, CIX [1967], pp. 4-12). In ogni caso, quanto il C. fosse sensibile alle esigenze della destinazione è provato dal Bindo Altoviti che, libero da impegni a una "propaganda" monumentale di ordine eroico-dinastico, appare risolto nel meditato groviglio della barba, la cui protervia chiaroscurale sfuma, in alto, nella soffice trama della cuffia e si contrappone, verso il basso, alla tenera modulazione del drappeggio (C. Avery, in The Connoisseur, CXCVIII [1978], 795, pp. 62-72).
Ma ormai l'esempio di Michelangelo e il "ritorno" manieristico al Quattrocento imponevano il marmo. A parte il restauro del Ganimede (Firenze, Bargello), infelice nel disperdere l'originale dinamica del torso antico, e l'eventuale Cosimo I di San Francisco, il C. si cimenta nell'Apollo con Giacinto e nel Narciso (Firenze, Bargello). L'impianto del primo, memore del David di Donatello, salda le due figure mediante impulsi vivacissimi e risulta attuato - prescindendo dai guasti e dalla grossolanità dovuti a un prosecutore (l'opera era rimasta incompiuta) - con nervosa efficacia di rilievi muscolari a fior di pelle. Nell'altro gruppo, la positura alquanto artefatta può anche essere stata imposta dalla necessità di impiegare un blocco avariato da "dua buchi" (Vita, p. 356); è certo che la sua inquietudine richiama modelli ellenistici, la cui derivazione appare meglio in una terracotta del Victoria and Albert Museum, preparatoria del Narciso marmoreo e richiamante pure il Giona in S. Maria del Popolo a Roma, ideato da Raffaello e scolpito da L. Lotti. La fattura del marmo al Bargello mantiene integra nel modellato la freschezza della terracotta londinese; si trasforma invece l'impetuoso avvisarsi della figura. Questa, pur conservando la palpitante mobilità dell'abbozzo, è raccolta con un ritmo più rattenuto e nondimeno più teso nella semplicità del profilo ad arco svolgentesi dalla gamba antistante al braccio levato, e rivela la modulata vicenda delle superfici con una sensibile graduazione di forme, tale da indurre l'osservatore a una serie di vedute successive. I lineamenti di Narciso risultano abbastanza consueti nella statuaria di quel tempo, ma sotto lo scalpello del C. si illanguidiscono in una sensuale strematezza consona al decadente lirismo delle membra acerbe.
La compiuta testimonianza della plastica celliniana si conserva nel Perseo (Firenze, loggia dei Lanzi) e nell'abbozzo di cera al Bargello, modellato prima del Cane. Il bozzetto manifesta la vigorosa capacità di sintesi conseguita dal C. nel plasmare forme sospese tra l'astratto e l'analitico, e che si snodano, in ritmica concordia di studiati profili. Tale purezza si appanna nel monumento definitivo, forse per il desiderio di costruire un polemico pendant alla Giuditta di Donatello, allora anch'essa sotto la loggia dei Lanzi: ovvero perché, dilatata a dimensioni gigantesche, la scattante linearità dell'abbozzo avrebbe sconcertato. Di sicuro, nell'intento di "posare" più salda la figura dell'eroe, i singoli elementi disobbediscono alla stringata euritmia espressa nella cera: per esempio, la scimitarra finisce con ingombrare quasi ogni veduta. Tuttavia, grazie all'ampio snodarsi del modellato, il monumento assorbe l'abbondanza dei dettagli, attuando una solida unità, per cui rimane la scultura più importante "fra le costruzioni classicamente rinascimentali del Sansovino e la figura serpentinata del Giambologna" (Kriegbaum, 1940). La base, che echeggia quella della Giuditta donatelliana, entro un complicato intreccio di "mostri" michelangioleschi presenta le statuine di Giove, Danae con Perseo fanciullo, Minerva, Mercurio (gli originali si trovano al Bargello).
Valga, per tutte, l'eletta coesione di baldanza articolata e placida grazia che esalta quest'ultimo - guizzante nella dinamica dei bilichi possenti, fra una estrosità sbrigliatissima e un rigoroso talento di eleganza ordinatrice - a giustificare l'enorme prestigio del C. tra i fonditori di piccoli bronzi d'ogni tempo. Infine, a compensare la frastagliata gracilità della base rispetto al gruppo soprastante, il C. le sottopose il rilievo della Liberazione d'Andromeda (l'originale è al Bargello), ove come non mai l'ex orafo sembra conscio delle, ragioni dell'arte, subordinando i bruschi passaggi fra il tuttotondo e la traccia incisa del più leggero stiacciato non a una legge di prospettiva geometrica o ad altri elementi narrativi, bensì all'impegno di creare fieri sbattimenti tra luce e ombra, suscitatori di vortici tumultuosi che intensificano l'inquietante drammaticità della visione. Caduta in disuso dal Quattrocento, la tecnica del bassorilievo fu così recuperata dal C. avendo presenti i modi del Ghiberti, ma conducendola a un sottile pittoricismo in precedenza sconosciuto (per le questioni tecniche ed economiche relative al Perseo vedi G. Somigli, Notizie storiche sulla fusione del Perseo..., Milano 1958, e B. Bearzi-F. Melis, in B. C. artista e scrittore, pp. 45-55, 57-60).
La vicenda ultima del C. è soprattutto contrassegnata da iniziative rimaste senza sbocco, specie perché dopo la metà del secolo ebbero sopravvento i suoi competitori Bandinelli e Ammannati, più sottomessi - nell'operare come nel Porgere - ai rigori dell'etichetta impostasi alla corte di Firenze (per i due pulpiti del duomo vedi Carteggio artistico inedito di don Vincenzo Borghini, pubbl. a cura di A. Lorenzoni, Firenze 1913, pp. 164-172; D. Heikamp, Nuovi documenti..., in Rivista d'arte, XXXIII [1958], pp. 35-38, e in Paragone, 1966).
Trovandosi impedito a "fare", il C. si pose a "dire", ossia a scrivere di sé e dei propri lavori, perché Cosimo I intendesse quale artista fosse colui che era condannato all'inoperosità dopo il trionfo del Perseo. All'inacerbita delusione si accompagnarono disavventure con la giustizia: prigionia per busse all'orafo Giovanni di Lorenzo nel 1556, e per sodomia nel '57. L'anno dopo ricevette il primo degli ordini ecclesiastici minori; nel '59 offriva alla duchessa Eleonora - in cambio dell'appoggio per l'assegnazione del Nettuno in piazza della Signoria, poi eseguito dall'Ammannati - il Crocifisso marmoreo (Escorial) che in un testamento del 1555 l'artista aveva destinato alla propria tomba in S. Maria Novella. Inoltre nel 1558 cominciò la stesura della Vita, che doveva interrompere nel '62 dopo avere rinunziato agli ordini ecclesiastici (1560) e dopo che gli era nato un figlio (1561) da Piera de' Parigi, che sposò segretamente nel 1562 stesso, e in forma solenne nel '67. Fra il 1563 e il '64 eseguì disegni per il sigillo dell'Accademia fiorentina del Disegno, che rappresentò alle esequie di Michelangelo. Nel '65 avviava la stesura del Trattato dell'oreficeria e del Trattato della scultura, stampati tre anni dopo, quando si associò con gli orafi Gregori; ma per breve, giacché nel 1569 (anno di nascita del secondo figlio) prendeva a riscatto la bottega degli orafi Ardinghelli, abbandonandola pochi mesi dopo. Il 13 febbr. 1571, ormai in agonia, fece scrivere a Francesco de' Medici, designandolo erede di tutte le proprie sculture "finite et non finite" (cosicché venivano annullati anteriori testamenti, del '55, '62, '64 e '65), e lo stesso giorno moriva.
Fu sepolto nella chiesa della SS. Annunziata nella cappella dei pittori.
Scomparsi i progetti relativi ai lavori che non poté realizzare, rammentati i disegni per il sigillo dell'Accademia (Monaco, Graphische Sammlung; Londra, British Muscum: v. Calamandrei, pp. 123-146, 165-171) come cose di modesto impegno, tranne quello con Apollo (Monaco, Graphische Sammlung) drammaticamente chiaroscurato, e accennato al cosiddetto abbozzo in bronzo del Perseo (Bargello), che in verità potrebbe costituire una preziosa ripresa del tema, forse per la duchessa Eleonora (Plon, 1883), condotta avendo presente il modelletto in cera, resta da esaminare il Crociflisso dell'Escorial (Calamandrei, pp. 59-98; Parronchi, 1967; Lavin, 1978). Qui, il gusto mai sopito per la resa di ogni particolare, così atta al metallo, trova una persuasiva applicazione nel marmo. Il biancore della figura dialoga col nero della croce, e contribuisce alla suggestione dell'opera, enucleata sull'urgenza di inattesi divari: la lineare, ritmata esilità del corpo opposta alla mole del capo, accresciuta a sua volta dal rigoglio dei capelli e della barba; la calma spossata della testa stessa, allo sciolto snodarsi delle membra; il misticismo, del tema, alla cruda nudità del Redentore. Più che fra i maestri quattrocenteschi, l'ispirazione sembra attinta in epoche remote - eppure l'arcaica astrattezza del risultato è carica di tensioni inaudite: magnifico approdo d'un percorso in cui ardore e inventiva, oltre che in virtuosità raffinate e sempre vigili, trovarono costante sostegno in una cultura estesa e penetrante.
Ad eccezione degli sfoghi poetici contro la durezza del carcere romano e dei sonetti della prigione fiorentina (1556), la produzione letteraria del C. è concentrata nel declinante decennio 1558-68 in cui scrisse la Vita, i due Trattati, Dell'oreficeria e Della scultura, i quattro Discorsi sopra l'arte, uno dei quali frammentario, e una non esigua raccolta di Rime. Le circostanze che promossero questa fervida attività di scrittore ci sono note attraverso un passo del primo trattato (cap. XII: "Lavorare di minuteria"), laddove il C. rievoca orgogliosamente il discoprimento del suo Perseo nella piazza della Signoria (1554) tra una statua di Donatello e una di Michelangelo, ma anche la sua disperazione a breve distanza di giorni per l'improvviso voltafaccia del duca Cosimo, chiuso in sdegnoso riserbo tanto di fronte alla sua richiesta di tornare a lavorare in Francia quanto di fronte all'offerta di nuove opere. "Standomi così disperato, - precisa il C., - e reputato che questo mio male venissi da gli influssi celesti che ci perdominano, però io mi messi a scrivere tutta la vita mia e l'origine mio e tutte le cose che io avevo fatte al mondo; e così scrissi tutti gli anni che io avevo servito questo mio glorioso signore duca Cosimo. Ma considerato poi quanto e' principi grandi hanno per male che un lor servo dolendosi dica la verità delle sue ragioni, io rimediai a questo; e tutti gli anni che io aveva servito il mio signore duca Cosimo, quegli con gran passione e non senza lacrime, io gli stracciai e gitta'gli, al fuoco, con salda intenzione di non mai più scrivergli. Solo per giovare al mondo, e per essere lasciato da quello scioperato, veduto che m'è impedito il fare..., così io mi son messo a dire".
Il passo è particolarmente importante per la genesi di quel capolavoro narrativo che è la Vita ed anche per ricostruire le ragioni della sua interruzione. Il C. vi mescola verità e menzogne, mentre tralascia episodi disonorevoli: quelli degli anni 1556-57 (con due carcerazioni per violenza e per sodomia) sui quali tace anche nella Vita. Nel merito, dichiara d'aver stracciato e bruciato tutta la parte relativa ai suoi rapporti col duca, che invece il manoscritto conserva integralmente. In realtà, dal momento che i Trattati si pubblicavano (1568) con l'imprimatur ducale che gratificava la devota sottomissione espressa nelle dediche a Ferdinando e Francesco, figli di Cosimo, l'autore si sforzava di allontanare i sospetti principeschi da un materiale memorialistico scandaloso e lesivo del prestigio cortigiano: tenuto nascosto ma non ignorato, e perciò da lui spacciato per distrutto, pur tra lagrime e passione. Inoltre, il C. confessa la sua forzata conversione alla letteratura (da homo faber in homo dicens), ma trascura il fatto che la decisione di interrompere l'autobiografia estende l'impedimento del "fare" anche al "dire" e conferma le circostanze conflittuali che gli avevano dettato iI racconto della Vita e gliene impedivano la prosecuzione e la diffusione. Nella sostanza però la nascita del libro, e insieme l'inaugurazione di una nuova attività di scrittore, è qui ricostruita con un'aderenza alle reali motivazioni, polemiche e autoapologetiche, dell'iniziativa autobiografica certo maggiore della baldanza con cui il narratore, nell'introduzione al racconto della Vita, si specchia nella sua trascorsa esistenza e guarda felicemente, nello spareggio - "di alcuni piacevoli beni e di alcuni inistimabili mali", al cammino ancora da compiere. Benché sorretto da un temperamento indisciplinabile e da un'inesauribile esaltazione vitalistica, il C. non può ignorare il retroscena esistenziale e professionale che lo mortifica come artista e gli fa qstinatamente cercare occasioni di riscatto con petulanti rievocazioni dei suoi meriti e delle ingiustizie subite, anche fuori dal registro memorialistico. Tipiche in questo senso le sue ultime suppliche alla Signoria (1570) per contestare computi di vecchie provvigioni: piati queruli e cavillosi, dove non esita di raffigurarsi come "gran martire" e voce di Dio che preannuncia rovine per i suoi persecutori con lo stesso eccesso di difesa e il minaccioso profetismo esibito nella Vita.
La stesura della Vita fu iniziata nel 1558 e condotta già molto innanzi nel maggio dell'anno successivo quando il C. ne inviò il manoscritto a Benedetto Varchi perché lo rilimasse e ritoccasse. Come si ricava dalla lettera celliniana del 22 maggio 1559, Varchi si rifiutò di correggere quel "simplice discorso" autobiografico svolto in quel "puro modo", cioè sinceramente, senza apparenti alterazioni della verità. Il C. si dichiarò soddisfatto delle decisioni dell'accademico fiorentino, improntate certo a perspicacia di lettura ma forse anche a prudenza cortigiana. La collaborazione stilistica infatti poteva apparire solidarietà con un contenuto memorialistico pericoloso di cui bisognava lasciare l'intera responsabilità al protagonista-autore, trattandosi peraltro di un soggetto bizzarro, cui si sarebbe potuto applicare il cliché storico-antropologico di un'affezione categoriale: quel "certo che di pazzia e di salvatichezza" che Giorgio Vasari attribuiva agli artisti, finché "la chiarezza e lo splendore" di Raffaello non sarebbero sopraggiunti per dimostrare la possibilità di luminose eccezioni. Lo stesso Vasari nella seconda edizione delle Vite (1568) preferì non compromettersi con la biografia del C. rinviando i lettori alla Vita eai Trattati che diffusamente ne contenevano i dati "con molta più eloquenza e ordine" di quanto egli avrebbe potuto fare. Comunque accreditò la fama della singolarità del C., "in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo pur troppo dire il fatto suo con i principi, non meno che le mani e l'ingegno adoperare nelle cose dell'arti" (Vite, a cura di G. Milanesi, Firenze 1881, VII, p. 623).
Il manoscritto della Vita non era dunque rimasto sconosciuto se Vasari ancora nel 1568 ne poteva prevedere la pubblicazione con una segnalazione d'effetto pubblicitario per il richiamo all'autore nei termini caratteriali adoperati dallo stesso duca Cosimo in un giudizio ("terribile uomo") che il C. registra nell'autobiografia. Tuttavia già due anni prima, nel 1566, C. aveva deciso di interrompere bruscamente il racconto con l'accenno di un viaggio a Pisa compiuto nel 1562. Sulle ragioni di questa interruzione la spiegazione contenuta nel Dell'oreficeria non lascia dubbi. Può avervi influito però la reazione dei primi confidenziali lettori. Pur senza pretese ideologiche, la Vita tutt'intera, e in particolare l'ultima sezione mediceo-fiorentina, era diventata un testo incomodo e sconveniente. L'ottica memorialistica, impudicamente ravvicinata a papi cardinali sovrani principi, sorpresi senza controllo esteriore, dietro le quinte, denudava l'immagine di rito dei potenti: di Cosimo in particolare, monarca instabile e capriccioso, se non addirittura sordido, un esemplare "più di mercante che di duca" (come si legge in un appunto fortemente cassato in margine al manoscritto), contrastante con la equanime regalità di Francesco I ed ovviamente col ritratto apologetico tracciato dal Varchi e in genere dalla contemporanea storiografia del principato. Di fatto, proprio perché istituiva la possibilità di un discorso sulle corti, memorialistico anziché trattatistico, da parte di una "Persona che ha saputo pur troppo dire il fatto suo", la Vita finiva per smentire i modelli storiografici ufficiali e quelli dei trattati cortigiani e accademici, oltre che della varia letteratura umanistica de officiis ovvero de regimine principis e di quella successiva, assolutistica e tridentina, della ragion di Stato. Pur senza manifestare l'intenzionalità polemica delle scritture anticortigiane, per esempio, di Pietro Aretino; pur essendo vincolata a esasperate rivendicazioni personali, la Vita poteva ricevere dal pubblico, una volta stampata, il crisma di un anticodice della regalità e quindi dei doveri del cortigiano e del suddito.
Il C. capì che il libro non avrebbe oltrepassato la soglia dell'imprimatur e si autocensurò senza tuttavia distruggere l'opera. Tatticamente anzi ne recuperò le irrinunciabili motivazioni polemiche e difensive nei Trattati scritti tra il 1565 e il 1567 e non suscettibili di impedimenti editoriali in ragione della loro più esplicita funzione, quella didattico-professionale. Questa comunque non ne occulta la genesi pervicacemente autoapologetica, simile a quella della Vita di cui prendono il posto appellandosi direttamente ai lettori ai quali l'autore chiede "compassione" e "sdegno" per la "seconda causa (forse la più potente)" che lo ha mosso a comporli, cioè per le offese e le ragioni del suo risentimento personale (si veda l'introduzione al Dell'oreficeria). L'interferenza autobiografica è frequente in questi manuali d'arte che meriterebbero di non essere relegati nel limbo storico della letteratura specialistica. Il C. anima le trattazioni tecnico-pratiche col richiamo alla sua esperienza e ai suoi successi. Ma rivendica anche il pregio delle due arti da lui esercitate, risalendo ai precedenti quattrocenteschi (della rinascita fiorentina) che autorizzano a suo parere l'iscrizione dell'oreficeria nella formazione dei massimi scultori e pittori, e soprattutto argomentando con ostinazione il primato della scultura sulla pittura; un primato che aveva già proclamato nel Discorso allegato, con un sonetto di segno opposto del Grazzini (il Lasca), all'Orazione di G. M. Tarsia per le esequie di Michelangelo (Firenze 1564).
A questa disputa tra le due arti è condizionata una serie di quattordici sonetti, perlopiù contro il Lasca, esaltanti l'eccellenza della plastica in quanto arte che imita più direttamente il procedimento con cui la natura forma le cose dando rilievo con "tondi" prima che con "ombre". Dopo i colossi di Fontainebleau, il Perseo e il Crocefisso di marmo, bianco, il C. sentiva d'essere un maestro di quell'arte. Difendendone il primato, egli esaltava anche il suo magistero di orafo promosso a scultore di corte, poi di nuovo degradato a lavori di bottega: "Fé Perseo Benvenuto, e Cristo in crocie; / e perché ei ben mostrava la scultura, / gli han tolto il pane e dato in su la vocie (sonetto 14, vv. 9-11). Motivi analoghi ritornano in altre sezioni del suo non esiguo canzoniere comprendente sonetti del carcere fiorentino (del 1556), da aggiungere al sonetto e al capitolo della prigionia romana, altri sonetti spirituali, amorosi, filosofici, rime di vario metro, frammenti, madrigali. Nella tonalità discorsiva in cui i vari temi si dispongono è possibile rintracciare grezzi depositi di memorie dantesche petrarchesche bernesche michelangiolesche, riprodotte senza particolari intenzionalità di recupero culturale, come citazioni di vocabolario lirico corrente. Maestro di questa colloquialità poetica era appunto il Lasca in quegli anni di ritornante municipalismo fiorentino. Il C. è incapace di imitarne la sciatta ma efficace fluidità. Tuttavia non rinuncia ad assegnare una patente di originalità alla sua poesia qualificandola come "boschereccia" (in quanto priva di "parole belle e rare", ossia cittadine) e arrivando per alcuni sonetti (Sogni) a prolisse "dichiazioni" di senso alla luce di un'altrettanto "boschereccia" filosofia e nel gusto delle esposizioni accademiche di rime volgari in voga nell'ambiente mediceo. L'artista inoperoso trasferiva così il suo agonismo dalla scultura alla letteratura, vagheggiando forse qualche gratificazione istituzionale pur nei limiti del suo esercizio poetico che lo arrestavano entro soglie pregrammaticali. Con strumenti formali d'accatto la lirica non poteva essere il suo nuovo spazio di scrittore dopo la preclusione di quello autobiografico: all'interno del quale, invece, quei limiti non erano vincolanti, anzi aiutavano, come aveva tempestivamente intuito il Varchi, a promuovere un sorprendente caso di antiletteratura.
Rinviato tuttavia di due secoli per l'interruzione del racconto, il caso Cellini scoppiò nel 1764, e proprio come uno straordinario fenomeno di antiletteratura, quando Giuseppe Baretti lo dichiarò aperto nel fascicolo ottavo della Frusta letteraria, tornando a parlare della Vita dopo un accenno fattone nella stessa rivista. Il manoscritto (Mediceo-Palatino 234 della Laurenziana di Firenze) era rimasto inedito finché nel 1728il naturalista Antonio Cocchi non lo pubblicò a Napoli, ma ancora prudentemente, con la falsa indicazione di Colonia e senza data, peraltro non suscitando reazioni di rilievo. Solo più tardi, nel 1762 la ristampa della sua prefazione in una raccolta di Discorsi toscani provocò l'impennata critica e umorale del Baretti proprio per la patente difformità tra la vivacità pittoresca del materiale rinvenuto, quanto mai a lui congeniale, e l'insipidezza erudita del referto allegato ("cosa insulsa e melensa"). La mediazione della Frusta resta fondamentale per la valutazione successiva della Vita e per la fortuna del personaggio. La Vita è infatti per Baretti il libro "più dilettevole a leggersi" nella nostra lingua; esibisce una pittura di carattere lasciata al naturale, non così come l'autore era, ma come sentiva di essere, con i suoi difetti tradotti in qualità; fornisce un inedito quadro d'ambiente e di persone mostrate a crudo, con sguardo irrispettoso; ha valore di documento antropologico, in quanto "può giovare assai ad avanzarci nel conoscimento della natura dell'uomo". Proprio in ragione della sua atipicità linguistica, letteraria e umana la Vita fu subito acquisita in un'Europa pronta a valorizzare le esperienze più cariche di originalità, come un, libro contemporaneo, in concorrenza con una massa di scritture autobiografiche e memorialistiche tutte indiziate di singolarità. Casanova la imitò nella Storia della mia fuga dai Piombi e Alfieri nell'autobiografia vi si confrontò, finché Goethe non la tradusse e collaborò a trasmetterne la fama in epoca romantica. Nell'Ottocento quella commistione di spontaneità e di volontà poté fornire sia modelli tipologici naturali, per esempio, ai romanzi italiani di Stendhal sia materiale passionale e melodrammatico, per esempio, a Berlioz, sia infine spunti di teatralismo storiografico al De Sanctis, che fa penetrare il C. di scorcio nella sua Storia della letteratura, ancora con l'energia stendhaliana dell'ultimo "avventuriere" del Rinascimento, "potentissimo di forza e di vita interiore".
La proiezione della Vita nell'orizzonte dell'autobiografia settecentesca, sia pure con il privilegio accordato alla componente avventurosa del racconto, serve ancora oggi a isolare, come è giusto, il libro celliniano dalla serie dei libri di ragguagli e ricordi di artisti anteriori e coevi, dai Commentarii del Ghiberti al Memoriale dell'antagonista mediceo Baccio Bandinelli. In quell'intreccio di rivendicazioni professionali ed esistenziali che sta all'origine dell'autobiografia celliniana e in parte la apparenta alle scritture memorialistiche dei suoi compagni d'arte s'inserisce semmai la suggestione delle Vite del Vasari (prima edizione parziale, 1550) e di quella michelangiolesca redatta da A. Condivi (1553) che inaugurano, soprattutto nei confronti di un modello venerato dal C. qual era Michelangelo, quel culto della personalità artistica cui anch'egli aspirava. Ma, esercitando questo culto in prima persona, il C. va oltre: ingloba nella narrazione tutte le sue esperienze, da quelle infantili e adolescenziali a quelle della maturità, senza stabilire gerarchie di valore su cui rapportarle e caricando ciascun avvenimento, tragico e comico, della stessa pienezza di significati etici e pratici. Innestando nella cronaca dell'ascesa professionale il racconto delle sue singolari vicende umane il C. inaugura con spavalda noncuranza dei suoi limiti letterari una struttura narrativa nuova: trasforma l'autobiografia da itinerarium spirituale, metamorfosi morale e religiosa (forma rimasta tipica da Apuleio a s. Agostino e a Petrarca) in rappresentazione di se stessi, mimesi della propria azione. La coincidenza tra ethos e praxis, la piena concordia tra egocentrismo del personaggio e sviluppo narrativo non sono perciò riportabili solo a parametri psicologici. Promuovendo fenomeni di scrittura, essi imprimono alla Vita un carattere inedito: piuttosto che di un riepilogo retrospettivo, di un'invezione romanzesca.
La Vita prende infatti spesso il ritmo di un racconto picaresco; assume un andamento avventuroso e furfantesco che il C. asseconda alternando la verità del documento biografico con esagerazioni o bugie quando queste servano a ribadire la sua incrollabile convinzione di essere, "il primo omo del mondo". Pertanto le sequenze descrittive non sono quasi mai circoscritte nella loro funzionalità autobiografica, anche laddove l'avvenimento lo costringe a cercare spunti di difesa e giustificazioni. Persino i fatti che impegnano di più la sua moralità e onorabilità, i suoi delitti, acquistano nell'autore che li rievoca una compiaciuta dimensione romanzesca, diventano bravate non riportabili alla logica della vendetta o del diritto di difesa, cui ancora ubbidiscono l'assassinio dell'uccisore del fratello (I, par. 51) e quello dell'orefice Pompeo (I, par. 72). L'uccisione del maestro delle poste a Siena (II, par. 4) è in realtà un regolamento di conti per banali soperchierie che lascia nella memoria, anziché tracce di pentimento, le immagini di una movimentatissima rissa. Quanto alla lezione inflitta a un avaro albergatore sulla strada per Ferrara (I, par. 79), il gusto burlesco del commento comico e del ritratto caricaturale iscrive l'episodio nella tradizione dell'epica ribalda e furfantesca che fa capo al Morgante, mentre la violenza esercitata sulla modella parigina, l'infedele Caterina, con la regolarità delle "medesime busse" intervallata da conviti di pace e "piacevolezze carnali" (II, par. 28 ss.), appare l'attualizzazione di un topos misogino di tenace resistenza letteraria. Anche la disponibilità a varie esperienze fa del C. un eroe picaresco. Ha fretta di uscire dall'anonimato di bottega e di procacciarsi una rispettabilità professionale, ma indulge al piacere della beffa equivoca, quasi facendosi rilasciare attestati di inventore di burle da tavola che lo imparentano al grande concittadino Filippo Brunelleschi (I, par. 30). Si vanta come improvvisato artigliere nel Sacco di Roma della morte e del ferimento dei più grandi condottieri imperiali e si fa benedire questi ed eventuali altri tiri micidiali "in servizio della Chiesa apostolica" con un "patente crocione" di Clemente VII (I, par. 24-37). Pratica la negromanzia in sedute notturne al Colosseo rivelandosi per la prima volta in preda a una paura che gli procura apparizioni demoniache, di evidente suggestione comico-dantesca", dissolte parodisticamente da rumori ed effluvi triviali (I, par. 64). Fa dell'esperienza carceraria l'occasione per rivelare a se stesso e agli altri tutt'intera. la sua capacità di dominare le circostanze: l'evasione da Castel Sant'Angelo, annunciata al castellano come prova delle sue doti miracolistiche, è eseguita nel perfetto controllo dei mezzi fisici e delle opportunità materiali (I, par. 107-109); i tormenti di Tor di Nona e della seconda detenzione in Castello lo iniziano con fervore spiritualistico a pratiche ascetiche che gli fanno riabilitare le sofferenze come accesso alla visione di Dio (I, par. 117 ss.).
Questa immedesimazione col flusso degli avvenimenti indurrebbe a leggere nella Vita la testimonianza di una perfetta integrazione tra natura e arte che consente a uno scrittore non professionale di ritrovare il tempo perduto rivivendolo senza schermi, in presa diretta, e senza curarsi di proporzionare temi e sviluppo del racconto. Tuttavia il piacere di raccontare non annulla il conflitto da cui si origina la condizione autobiografica. Caso mai lo trasferisce dall'interno all'esterno, coinvolgendo non i meccanismi psichici che nel C. sono automaticamente regolabili, ma il rapporto con le forze esterne: destino (gli "influssi celesti che ci perdominano"), fortuna, società, tanto più ostili quanto più sacrificano l'opera del "virtuoso". Nello scarno vocabolario ideologico del C. "virtù" è una parolamito che ricorre con ininterrotta frequenza e come indice di, insuperabili contraddizioni. Paolo III decreta che i virtuosi, "gli uomini unici nella loro professione come Benvenuto non hanno da essere ubrigati alla legge". Invece sarà proprio quel papa a farlo rinchiudere in carcere, donde lo libererà casualmente, nella crisi di rigetto di una sua periodica "crapula assai gagliarda". Francesco I sembra esaltare la sua virtù non solo elevandolo a scultore di corte e assicurandogli un signorile soggiorno in un castello parigino, ma sanzionando a parole un principio di uguaglianza tra sovranità e genialità (II, par. 22). Di fatto non gli potrà evitare l'avversione degli artisti concorrenti e della sua favorita, i processi per accuse infamanti, gli obblighi più severi della sudditanza che lo costringeranno a lasciare la Francia quasi in fuga e a riparare a Firenze dove Cosimo lo accoglierà con parole tanto incoraggianti da vestirlo di "falsa isperanza" e da fargli poi sentire più acutamente il suo rovescio di fortuna.
Con la sua ingenua boria di parvenu il C. credeva di poter realizzare quell'interdipendenza tra virtù (intesa come genialità artistica) e potere che anche nel trattato Dell'oreficeria esalta come occasione della rinascita e della rivelazione dei grandi artisti, da Brunelleschi al "maraviglioso Michel' Agniolo Buonaroti". Tanto più egli è portato a indicare nell'incomprensione dei potenti la causa della decadenza dell'arte e a trascurare di individuare in quella interdipendenza tra arte e potere, che l'accresciuta domanda delle corti europee in pieno Cinquecento aveva esasperato, le ragioni della condizione subalterna dell'artista. Di fatto, proprio la personalizzazione del suo rapporto col principe committente finirà per togliergli non solo spazio operativo ma anche il diritto di opporre "la verità delle sue ragioni". Da questa frustrata volontà di "ragionare", non di "favellare" o "cicalare" (distinzione particolarmente cara al C. e argomentata più volte nei suoi scritti), nasce però lo scrittore. Per questo la Vita non è un memoriale affrettato e trasandato. Dalla nascita e dai segnali prodigiosi di una infanzia e di una adolescenza già combattiva fino alle pagine dell'arduo esperimento della fusione del Perseo (II, par. 75-77), il racconto è percorso da una tensione costante che carica di un valore esemplare tutta la materia biografica e costruisce i fatti su un unico livello strutturale, sulla misura del personaggio che li vive, non su quella della carriera artistica che essi dovrebbero illustrare. Da qui l'impressione che si riceve a contatto con la prosa celliniana di un parlato naturalmente irregolare rispetto allo standard delle scritture cinquecentesche postbembiane. Le sconnessioni sono evidenti; ma si avvertono quando il C. si sforza invano di organizzare il periodo con i supporti della retorica, i parallelismi, le antitesi, le replicazioni, che spingono la sua bizzarra affabulazione al limite della ipersintatticità. Intenzionalmente il C. non perseguiva programmi antiaccademici o anticlassicisti, piani per alterare la norma, producendo in vitro un primo modello di franco narratore. Una necessità autoapologetica, agonisticamente tesa a rivendicare la sua "virtù" come manifestazione di eccezionaIità professionale e naturale, lo costringeva a forzare lo schema del "ricordo" d'artista, a trasformarlo in una "vita", in una costruzione narrativa che assumeva per il rilievo del personaggio dimensioni fornanzesche. Quello scarto, vitale e formale, produceva una profonda innovazione, valutabile solo sulla distanza secolare che divide la composizione dalla pubblicazione. Indica forse per la prima volta la contiguità, e l'interscambio, tra autobiografia e romanzo e assegna al "simplice discorso" di un illetterato un'importanza imprevedibile nella formazione delle moderne strutture letterarie.
Opere: Il testo della Vita, conservato nel codice Mediceo-Palatino 234 della Laurenziana di Firenze, è autografo solo in parte; per il resto, tranne aggiunte e correzioni del C., è di mano del garzone di bottega Michele di Goro cui l'artista lo dettava. La prima edizione è di A. Cocchi, Colonia s. a. (ma Napoli 1728); l'edizione critica fu curata da O. Bacci, Firenze 1901 (ristampata ibid. 1961, con presentazione di B. Maier). Il Maier ha curato la più recente raccolta integrale dell'opera letteraria del C. (Vita, Trattati, Discorsi, Rime)con dieci lettere: B. Cellini, Opere, Milano 1968. Fra le edizioni annotate vedi quelle di E. Camerini, Milano 1873; P. D'Ancona, ibid. s. a. (ma 1927); E. Carrara, Torino 1926 (ristampata a cura di G. C. Ferrero, ibid. 1959); L. Borgese, Milano 1944; M. Gorra, Torino 1954; E. Camesasca, Milano 1954; G. Cattaneo, ibid. 1958; G. C. Ferrero, Torino 1971 (con scelta di altre opere); G. Davico Bonino, ibid. 1973.
I trattati dell'oreficeria e della scultura (con i Discorsi e i Ricordi intorno all'arte, Lettere, Suppliche, Poesie)sono stati pubblicati a cura di C. Milanesi, Firenze 1857 (ristampati ibid., 1893), e quindi in La vita seguita dai Trattati dell'oreficoria e della scultura e dagli Scritti sull'arte, a cura A. John Rusconi e A. Valeri, Roma 1901. Il testo del Milanesi è stato migliorato dal Maier nelle edizioni citate delle Opere. Trattati e Discorsi sono contenuti nel volume delle Opere di B. Castiglione, G. Della Casa, B. Cellini, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli 1960. Delle Rime, prima dell'edizione Maier, si disponeva di quella annotata a cura di A. Mabellini.
N. Borsellino
Fonti e Bibl.: Manca una bibl. aggiornata e completa sul C.; si vedano quindi le note bibliografiche nella biografia critica tuttora fondamentale di E. Plon, B. C. …, Paris 1883, con la Nouvelle appendice…,ibid. 1884, dello stesso autore; S. J. A. Churchill, Bibliografia celliniana, in La Bibliofilia, IX (1907-1908), pp. 173-177, 262-269; M. H. Bernath-G. F. Hill, in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, Leipzig 1912, pp., 276 s.; G. Urbini, Breviario bibliografico, in Scritti di B. C., Milano 1923, pp. LXXXIII-XCI.
Le fonti principali sono naturalmente gli scritti celliniani per i quali si veda l'elenco all'interno della voce; per le citazioni in questa contenute si fa riferimento all'edizione della Vita curata dal Bacci.
In P. Calamandrei, Scritti e ined. celliniani, a cura di C. Cordié, Firenze 1971, oltre alla raccolta degli scritti (1930-1961) del Calamandrei sul C., si trova (pp. 179-249) un utilissimo indice cronologico dei documenti con relative collocazioni; gli stessi documenti (a pp. 251-331) sono disposti in ordine alfabetico in relazione ai personaggi a cui viene fatto riferimento (tutto questo materiale è propr. della famiglia Calamandrei). Grazie alla cortesia dell'Archivio, di Stato di Firenze si dà qui di seguito la collocazione attuale dei vari testamenti e codicilli del C.: Notarile Antecosimiano B. 1549, Testamenti, cc. 214 (10 sett., 1555), 223 (6 maggio 1556), 239 (15 apr. 1558); Notarile Antecosimiano F 87, cc. 22 (24 marzo 1561), 44 (9 ott. 1562), 78 (12 nov. 1564), 82 (8 ott. 1565), 112 (22 apr. 1567), 114 (23 apr. 1567), 242 (28 marzo 1569).
Si veda inoltre sul C. artista: F. Cerasoli, Docum. inediti su B. C., in Arch. stor. dell'arte,VII (1894). pp. 372-374; L. Forrer, Biographical Dict. of medallists..., I, London 1904 pp. 375-385; VII, ibid. 1923, pp. 169-171; A. Cahn, Medaillen und Plaketten des XV. bis XVII. Jahrhundert (catal.), Frankfurt 1928; L. Planiscig, Piccoli bronzi italiani del Rinascimento, Milano 1930, ad Indicem; I. B. Supino, in Enciclopedia italiana, IX, Roma 1931, pp. 663-666; E. Kris, Goldschmied-Arbeiten... (catal.), I, Wien 1932, n. 35; G. Gerola, Il medaglione in cera del granduca Francesco de' Medici creduto del C., in Dedalo, XII (1932), pp. 91-102; A. Medea, Arte ital. alla corte di Francesco I, Milano 1932, pp. 97-103; A. Venturi, Storia dell'arte ital., X, 2, Milano 1936, pp. 461-489; G. Castelfranco, Il Perseo da vicino, in Emporium, XLIII (1937), pp. 118-126; F. Kriegbaum, Marmi di B. C. ritrovati, in L'Arte, XLIII (1940), pp. 3-25; W. R. Valentiner, Two unknown bronze statuettes..., in Art Quarterly, II (1939), pp. 35-47 (Giove dell'Inst. of arts di Detroit e in coll. priv. a New York); H. Klapsia, B. C., Berlin-Fiedenau 1943; L. Berra, Una spia di B. C. a G. Bernardi..., in Archivi d'Italia, XVII (1950), pp. 209-222; A. K. Givelegov, B. C. ..., in Rass. sovietica, V (1954) 4, pp. 9-32; C. L. Ragghianti, in Sele Arte, II (1954), pp. 59-60; E. Camesasca, Tutta l'opera del C., Milano 1955; A. Del Vita, G. Vasari e B. C., in IlVasari, XV(1957), pp. 124-134; D. Heikamp, Rapporti fra accademici ed artistinella Firenze del '500, ibidem, pp. 139-163 passim; G. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafid'Italia, I, Roma,Roma 1958, pp. 270 s.; H. Landais, Les bronzes italiens de la Renaissance, Paris 1958, ad Indicem; C. W. Brentano, A 1526 C. letter, in The Art Bull., XLI (1959), p. 269; In memory of W. R. Valentiner Masterpieces of Art (catal.), Raleigh, N. C., 1959, nn. 15-19; C. Tibaldi, B. C. a Mantova, in IlVasari, XVIII(1960), pp. 130-132; W. Braunfels, B. C. Perseus und Medusa, Stuttgart 1961; B. Simonetta, Le medaglie di B. C., in Riv. ital. di num., LXIII (1961), pp. 69-78; A. Grote, C. in gara, in IlPonte, XIX(1963), pp. 73-94; E. Camesasca, Per la medaglia di Lorenzino de' Medici, in Il Vasari, XXI (1963), pp. 166-169 (e Due lettere del C., ibid., pp. 39 s.); J. Pope-Hennessy, A Sketch-model by B. C., in Victoria and Albert Museum Bulletin, I (1965), pp. 5-9; I maestri della scultura, D. Heikamp, B. C., Milano 1966; D. Heikamp, In margine alla vita di B. Bandinelli, in Paragone,XVII (1966), 191, pp. 53-62 passim; L. Berti, Il Principe dello studiolo, Firenze 1967, p. 37; G. F. Hill-G. Pollard, Renaissance Medals from the Samuel H. Kress Collection at the National Gallery of Art (Washington),London 1967, ad Indicem; G. C. Argan, Esempi di critica sulle tecniche artistiche, Roma 1967, pp. 83-85; A. Parronchi, Ilmodello "de cera alba" del Cristo celliniano all'Escuriale, in Studi urbinati, XLI (1967), pp. 1123-1132; D. Kaczmarzyk, Renesansowy Zamek zelazny Domniemane dzielo Benvenuta Celliniego... [La serrure de fer renaissance oeuvre supposée de B. C.], in Biuletyn Historii Sztuki, XXIX 1967), pp. 497 ss. (riass.
franc. a pp. 520 ss.); J. F. Hayward, A newlydiscovered bronze modello by B. C., in Art atAuction, 1967-1968, London 1968, pp. 260-266; F. Panvini Rosati, Medaglie e placchette ital. dalRin. al XVIII sec. (catal.), Roma 1968, ad Ind.; M. Winner, Federskizzen von B. C., in Zeitschr fürKunstgeschichte, XXXI (1968), 4, pp. 293-304; TheMarble Portrait of Cosimo I de' Medici by C. in San Francisco, San Francisco s. d. [1968]; A. Parronchi, Une tête de satyre de C., in Revue del'Art, 1969, n. 5. pp. 43-45; L. Grassi, Teorici e storia della critica d'arte, I, Roma 1970, pp. 225s.; J. Pope-Hennessy, Ital. High Renaissance and Baroque Sculpture, London 1970, adIndicem; J. Hayward, The Aldobrandini Tazzas, in The Burlington Magazine, CXII (1970), pp. 668-674; E.Camesasca, C.: pro e contro treattribuzioni recenti, in Bolaffi Arte, XI (1971). pp. 22-24; A. Conti, Storia del restauro, [Milano] s. d. [1972], ad Indicem; C. Monbeig Goguel-S. Béguin-J. Thirion, in L'Ecole de Fontainebleau (catal.), Paris 1972, nn. 50 s., 511 s.; Dessins Italiensdu Musée du Louvre, I, C. Monbeig Goguel, Maîtres toscans nés après 1500 ..., Paris 1972, pp. 44-46; B. C. artista e scrittore. Convegnodell'Accademia dei Lincei (Roma-Firenze 1971), Roma 1972; E. Camesasca, Le opere del C., in La vita, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1973, pp. XXXIII-XLVI; Le tecniche, a cura di C. Maltese, Milano 1973, ad Indicem; J. Hayward, La Giunone in bronzo…,in Arte illustrata, VII (1974), pp. 157-163; J. Culme, B. C. and the 19thCentury collector and goldsmith, in Art at Auction, 1973-74, London 1974, pp. 293-296; L. O. Larsson, Von allen Seiten... Seiten, Stockholm 1974, ad Ind.; W. Prinz, Das Motiv "Pallas Athena" führt die Pictura in den Kreis der "septem Artes liberales" ein und die sogenannte C.-Schale, in Meister Festschrift, Hamburg 1975, pp. 165-173; C. Versini, B. C. in Les cahiers de l'AcadémieAnquetin, XXIII (1976), pp. 33-71; Ch. Davis, B. C. and the Scuola Fiorentina…,in North Carolina Mus. of Art Bulletin, XIII (1976). 4, pp. 1-70; W. Harprath, Italien. Zeichnungen des 16. Jahrh.s aus eignem Besitz, München 1977, nn. 27 s.; I. Lavin, The Sculptor's "Last will and testament", in Allen Memorial Art Museum... Bulletin, XXXV (1977-78), pp. 24-39 passim; M. G. Ciardi Duprè-Dal Poggetto, Nuove ipotesi sul C., in Essays presented to M. P. Gilmore, Firenze 1978, pp. 95-106; C.Hermarck, Die Kunst der europ. Gold- und Silberschmiede…,München 1978, adIndicem.
E. Camesasca
Per i più importanti repertori bibliogr. sul C. scrittore vedi B. Maier, Svolgimento stor. della critica su B. C. scrittore, I, Dal Cinquecento a tutto l'Ottocento; II, Gli studi celliniani nel Novecento, Trieste 1950-1951; U. Bosco, Repertorio bibliogr. della letter. ital.,I, 1948-1949; II, 1950-53, Firenze 1953-1960, s. v.; R. Frattarolo, Bibl. speciale della letteratura italiana, in Notizie introduttive e sussidi bibliogr., Milano 1959, II, ad Indicem; E. Esposito, Critica letteraria. Rass. degli studi sulla letter. italiana... 1961, Roma 1962, ad Indicem; 1962, Milano 1964, ad Indicem; C . Cordié, B. C., in Cultura e scuola, II (1963), 7, pp. 26-34; E. Esposito, La cultura italiana. Rass. bibliografica, Roma 1964, ad Indicem; B. Maier, in Opere di B. C., Milano 1968. Aparte le fondamentali pagine del Baretti (citate nel corso della voce), va ricordato lo scritto attribuito a C. Tenca, Sul testo della Vita del C., in Il Crepuscolo, IV(1853), nn. 10, 12, 15. Tra gli altri studi, tralasciando le divagazioni della psicopatologia fine Ottocento (per esempio, R. Renier, Svaghi critici, Bari 1910, pp. 71-91, e F. Querenghi, La psiche diB. C., Bergamo 1913), si vedano O. Bacci, C. prosatore, in Rass. naz., 16 ott. 1896, pp. 857-890; K. Vossler, B. C.'s Stil in seiner "Vita": Versuch einerpsycholog. Stilbetrachtung, in Beiträge zur rom. Philologie, Festgabe für G. Gröber, Halle 1899, pp. 414-451; B. Croce, Problemi di estetica, Bari 1949, pp. 141-152; Id., Sul C. scrittore, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari 1945, III, pp. 168-170; CarteggioCroce-Vossler 1899-1949, a cura di V. de Caprariis, Bari 1951, pp. 2, 7-8, 12-15; T. Parodi, La "Vita" del C., in Poesia e letteratura, Bari 1916, pp. 201-238; E. Carrara, Manierismo letterariodi B. C., in Studi romanzi, XIX (1928), pp. 171-200; Id., Per un sonetto di B. C., in Giornalestorico della letter. ital., t. LXXXVIII (1926), pp. 36-63; Id., C., Torino 1938; M. Pomilio. Gusto episodico e coscienza letter. nella "Vita" diB. C., in Convivium, n.s., V (1951), pp. 667-725; B. Maier, Umanità e stile di B. C. scrittore, Milano 1952 (rec. di M. Fubini, in Giorn. stor. dellalett. ital., CXXXII [1955], pp. 315-19); Id., in B. Cellini, Opere, Milano 1968, pp. 9-30; P. Carli, B. C. e la sua "Vita", in Saggi danteschi…, Firenze 1954, pp. 184-195; G. Cristofani, Integrazione di una frase della "Vita"..., in Lares, XXIII (1957), pp. 15-20; B. Maier, B. C., in I Minori, Milano 1961, pp. 133-155; J. Dussarat, B. C., héros de la Renaissance: étude de son autobiogr., Grenoble 1967; N. Borsellino, C. scrittore, in B. C. artista e scrittore, Accad. Nazion. dei Lincei, Quaderno n. 177, Roma 1972, pp. 17-31; G. Davico Bonino, in B. Cellini, La vita, Torino 1973, pp. VII-XXI; J. Goldberg, C.'s "Vita" in ModernLanguage Notes, LXXIX (1974), 1, pp. 71-83; C. Cases, Goethe traduttore del C., in Atti delsecondo convegno sui problemi della traduzione letter., Monselice 1974, pp. 33-43; M. Guglielminetti, "La vita" di C. e le mem. degli artisti, in Memoria e scrittura…,Torino 1977, pp. 292-386. Sugli aspetti linguistico-stilistici v. C. Hoppeler, App. sulla lingua di B. C., Trento 1921; R. Eggenschwyler, Saggio sullo stile di B. C., Vercelli 1940; M. L. Altieri Biagi, La "Vita" del C. Temi, termini, sintagmi, in B. C. artista e scrittore, pp. 61-163; I. R. Toraldsen, Un'analisi delle costruz. partecipiali assolute nella Vita del C., in Revueromane, X (1975), 2, pp, 306-27; D. S. Cervigni, The "Vita" of B. C. Literary Tradition and Genre, Ravenna 1979.
N. Borsellino