BERARDO DI CASTAGNA (DI CASTACCA)
Sulle origini e sulla casata di B., uno dei più fedeli e autorevoli collaboratori di Federico II dagli inizi dell'attività politica dello Svevo fino alla sua morte, le notizie sono poche e variamente interpretate dalla critica.
La stessa denominazione del dignitario è stata tramandata con forme diverse dalla storiografia erudita, sicché B. è "de Costaca" secondo Ferdinando Ughelli, "de Castaca" dalla testimonianza di Rocco Pirri, "de Costa" in virtù delle attestazioni di Francesco Lombardi e Conrad Eubel. Nel 1955 la questione sembrava definitivamente risolta da Francesco Giunta, grazie all'ausilio dell'edizione a stampa del Breve Chronicon, dove si legge che Federico nel 1215 incaricò "Berardum de Castaca archiepiscopum Panormitanum" (p. 894) di partecipare ai lavori del IV concilio lateranense. Da quella data la variante "di Castacca", sostenuta da Francesco Giunta anche sulla scorta dell'autorità di Jean-Louis- Alphonse Huillard-Bréholles che la proponeva in alternativa a "Costa", apparve come la più attendibile. Nel 1975, però, Norbert Kamp, in seguito all'esame di fonti mai prima prese in considerazione, optava per "de Castanea" (di Castagna). Lo studioso tedesco prendeva le mosse da un documento del 1230 emesso a Foggia, dove si legge: "ante presentiam Berardi de Castaneis Panormitani archiepiscopi" (Regesto di S. Leonardo, 1913, nr. 181, p. 116), cui accostava la lezione di un manoscritto del sec. XIV del Breve Chronicon, conservato nella Biblioteca Regionale di Napoli sotto la segnatura VIII C 9, nel quale B. è detto "de Castanea", forma, secondo Kamp, prevalente nelle attestazioni del Duecento. La denominazione proposta sulla base di tali testimonianze ha consentito a Kamp di identificare le origini geografiche e familiari di B. e di fornire qualche notizia biografica anteriore alla sua nomina ad arcivescovo di Bari nel 1207. Precedentemente alle ricerche confluite in Kirche und Monarchie si pensava che B. appartenesse a una nobile famiglia barese, come avevano, fra gli altri, sostenuto Antonio Beatillo, Ughelli, Pirri e Agostino Inveges accolti da Giunta, il quale, peraltro, aveva segnalato come errata l'affermazione di Louis Jadin, secondo cui B. sarebbe stato tra i consiglieri di Costanza dopo la morte di Enrico VI: con l'imperatrice aveva, invece, collaborato Berardo di Conversano. In effetti un certo numero di protagonisti della storia del Mezzogiorno d'Italia tra sec. XII e XIII sono denominati "de Castanea" e provengono dall'Abruzzo, dove si riscontrano diverse varianti di tale toponimo. Kamp non ritiene che debbano essere prese in considerazione le località con questo nome che si trovano in Molise, Calabria, Sicilia o nei pressi di Avellino. In Abruzzo, piuttosto, acquista rilievo Castagna vecchia, vicino all'attuale Castel Castagna, a sud di Teramo, situata poco a nord delle rovine di Pagliara, luogo di origine dei conti svevi di Manoppello, nel cui ambiente figuravano alcuni "de Castanea". Manerio de Castanea nel 1240 arruolava in Abruzzo cavalieri per l'esercito di re Enzo, mentre Berardo de Castanea, omonimo dell'arcivescovo, era nel 1242-1243 giustiziere in Terra di Bari e possedeva feudi in Basilicata. Forse è lo stesso Berardo de Castanea che partecipò, tra i fidi di Manfredi, alla battaglia di Benevento. Altri esponenti del ceppo familiare furono Sernavacca, nel 1255 giustiziere in Basilicata, Gentile, insediato in Terra d'Otranto che, tra l'altro, nel 1232 compare come testimone in un atto di B., Mainardo, Manucio ed altri membri del ramo trasferito in Basilicata, coinvolti poi nell'impresa di Corradino. Appare, quindi, plausibile l'appartenenza di B. a una nobile famiglia abruzzese, incardinata anche in Basilicata e Terra d'Otranto e fedele ai conti di Manoppello.
Altri documenti, inoltre, consentono di chiarire ulteriormente alcuni aspetti della vicenda di B. prima del 1207. Quando i conti Gentile e Manerio di Manoppello nel 1198 fondarono un ospedale a Roccamontepiano, nel loro seguito figurava un "Berardus de Castanea". Costui nel 1200 era "magister et procurator totius terre domini […] Gualterii Troiani episcopi et cancellarii" (Kamp, 1973-1982, p. 578 n. 77), cioè di Gualtiero di Palearia (v.), fratello dei conti di Manoppello. È ragionevole supporre che tale funzionario possa identificarsi con B., che quindi, in gioventù, sarebbe stato vicino al potente Gualtiero di Palearia, acquisendo quelle competenze retoriche, cancelleresche e giuridiche che avrebbe ampiamente mostrato durante la sua lunga carriera ecclesiastica e diplomatica. Non è poi da escludere che l'elevazione di B. alla cattedra arcivescovile di Bari nel 1207 fosse stata caldeggiata dallo stesso Gualtiero.
B. non compare nella documentazione relativa all'arcivescovado di Bari prima del luglio 1209. La sua elezione, tuttavia, può essere anticipata, come ha sostenuto per primo Ughelli, al 1207, quando, il 3 marzo, morì il predecessore Doferio. Gregorio, cardinale diacono di S. Teodoro, che assistette alla consacrazione di B., è menzionato come legato apostolico in Puglia dal dicembre di quell'anno. Se consideriamo che la sua firma in calce ai privilegi papali manca a partire dal giugno, possiamo ipotizzare l'assunzione di B. alla carica di arcivescovo di Bari nella seconda metà del 1207. Il prelato, che doveva essere fra i trenta e i quarant'anni, entrò immediatamente nelle grazie di Federico e nel luglio 1209 ottenne alcune concessioni, motivate dal sovrano con i "grata servitia" che "fideliter" (Nitto De Rossi-Nitti, 1897, p. 143 n. 74) B. aveva prestato. Può darsi che l'attestazione, più che riconoscere i meriti di B., rispondesse a esigenze di circostanza, ma è possibile che l'arcivescovo di Bari, fin dall'inizio della sua opera, avesse assunto quel ruolo di mediazione e collegamento con Innocenzo III ampiamente documentato per gli anni successivi. Risultavano indubbie, peraltro, le benemerenze di B. nella gestione del territorio barese, dove l'azione di Doferio era stata negli ultimi tempi poco efficace e tiepida nei confronti di Federico. Il nuovo arcivescovo, invece, aveva preso il sopravvento sulla Chiesa di S. Nicola e aveva sedato ribellioni, opposizioni e malumori. Gli atti di Federico, sottoscritti dal gran protettore di B., il cancelliere Gualtiero di Palearia, sanzionavano la donazione all'episcopio di due terre fabbricabili nei pressi del porto per edificarvi delle botteghe ad uso della cattedrale, concedendo così al clero capitolare di partecipare ai commerci della città, e del casale di Laterza, già appartenuto a Riccardo Logoteta. Poco dopo B. otteneva anche il castrum Bitricti; nella successiva conferma del luglio 1210 il presule compare per la prima volta come familiaris di Federico. Intanto la Puglia veniva minacciata dalla discesa di Ottone IV, cui Bari si sottomise nel dicembre del 1211, ma a quella data B. era già al fianco di Federico. Nel settembre Innocenzo III aveva indotto gli elettori tedeschi a dichiarare decaduto Ottone e a nominare, in sua vece, Federico, sicché, mentre l'imperatore rientrava in tutta fretta in Germania per riprendere il controllo della situazione, la dieta tedesca inviava in Sicilia Anselmo di Justingen per comunicare allo Svevo le importanti risoluzioni. La stella di Gualtiero di Palearia andava tramontando e la giovane età di Federico consigliava di affiancargli una guida accorta e fidata per il lungo viaggio verso la Germania. B., che si era segnalato per la sua lealtà e non si era compromesso nelle precedenti vicende del Regno di Sicilia, fu scelto dal papa come legato pontificio. Iniziava nel 1212 la lunga esperienza di B. come consigliere e moderatore delle decisioni dello Svevo. Nel settembre Federico era dinanzi a Costanza, precedendo Ottone che si accingeva a farvi il suo ingresso trionfale, ma il vescovo Corrado di Tegerveld gli impedì di varcare le porte della città. La situazione rischiava di diventare pericolosa, quando intervenne B. che, nelle sue funzioni di legato, rinnovò la scomunica a Ottone e consentì allo Svevo di ottenere il primo successo che lo avrebbe condotto alla definitiva vittoria. La riconoscenza del nuovo re di Germania non si fece attendere e giunse nel dicembre 1212, allorché da Spira Federico, confermando precedenti donazioni fatte alla Chiesa di Bari, lodava la devozione e l'alto valore dei servigi resi dall'arcivescovo, il quale non si era sottratto a danni, spese e pericoli pur di rimanere fedele al suo signore. B. seguì il sovrano nei suoi spostamenti almeno fino al luglio del 1213, sottoscrivendo gli atti di cancelleria e fornendo la sua preziosa e ponderata assistenza.
Il rilievo assunto da B. nel seguito dello Svevo e la profonda stima nutrita da Innocenzo III per le accorte iniziative del legato richiedevano ormai che l'arcivescovo di Bari fosse sollevato a più cospicui incarichi. Dal dicembre del 1212 la sede episcopale di Palermo era vacante per la rimozione di Parisio, decisa dal papa nonostante l'opposizione di Federico; la successione sembrava difficile perché era necessario fare una scelta gradita sia al pontefice sia al sovrano. Nel settembre del 1213, superando i tentennamenti del capitolo palermitano e l'immobilità del legato pontificio Gregorio di S. Teodoro, Innocenzo III nominò B. arcivescovo di Palermo, accompagnando l'elezione con lodi che evidenziavano come il presule ormai conducesse un'irrinunciabile opera di collegamento tra Federico e la Curia pontificia. In tale occasione B. probabilmente rientrò in Italia e si recò a Palermo; nel maggio 1214, quando il papa scomunicò il conte di Celano, si trovava già presso la Curia di Innocenzo III e nel giugno successivo era giunto a Ulma per ricongiungersi infine a Federico, i cui atti sottoscrisse fra il 1214 ed il 1215. Fin dalla nomina ad arcivescovo di Palermo si prospettava, cioè, la condotta di B., che avrebbe considerato l'impegno nella sua diocesi come secondario rispetto alle gravi incombenze politiche assegnategli dalle autorità pontificia e regia. L'arcivescovo, comunque, pur non distinguendosi come un pastore mosso da particolari pulsioni spirituali, si interessò a consolidare i beni della sua Chiesa, ricevendo nell'aprile 1215 dallo Svevo la conferma dei precedenti privilegi di Parisio e la concessione di altri doni, tra cui il castello di Caccamo. Anche in tali circostanze Federico riconosceva "devotionem et fidem atque sinceram sollicitudinem et continuos labores pro nobis et pericula Berardi Panormitani archiepiscopi, experti fidelis et familiaris nostri" (Historia diplomatica, I, p. 372). Nel novembre Innocenzo III convocò il concilio e B. abbandonò la Germania per parteciparvi, insieme al marchese di Monferrato, come difensore dei diritti regi dello Svevo contro le pretese di Ottone. Riccardo di San Germano ricorda tale intervento sottolineando che l'arcivescovo condusse la sua orazione, nella seduta preliminare, "eleganter satis" (1936-1938, p. 71). Secondo Giunta, durante i lavori conciliari B. conobbe s. Domenico e, affascinato dal santo, introdusse a Palermo i Frati predicatori. La notizia, ricavata sostanzialmente da Pirri, non riceve però alcuna conferma dalle fonti: anzi, durante l'età sveva, pare che i Domenicani non riuscissero ad imporsi a Palermo, a differenza di quanto era accaduto a Messina. B., grazie alla partecipazione al concilio, aveva ulteriormente rafforzato la sua posizione agli occhi di Federico e del nuovo papa, Onorio III, il quale, alla fine del 1216, gli inviò una lettera in cui ribadiva la fiducia concessagli dalla Curia pontificia fin dall'epoca di Innocenzo. Intanto l'arcivescovo era ritornato in Germania, dove aveva accompagnato la regina Costanza con il figlio Enrico e dove ottenne, nel dicembre, altre concessioni per la sua Chiesa. Esaurita la missione in terra tedesca, B. rientrò in Sicilia, svolgendovi, tra il 1217 ed il 1220, la delicata funzione di balio generale e preparando il terreno per il ritorno di Federico. Non soggiornò quindi, se non saltuariamente, a Palermo, ma si recò ove la sua presenza si rese necessaria, come, per esempio, nel maggio 1217 a Cefalù. Con il locale vescovo, Aldoino, ebbe un'accesa disputa intorno ad alcuni diritti rivendicati da B. all'autorità regia. Svolse anche le mansioni di giudice delegato da Onorio III riguardo ad alcuni processi, la cui sentenza il papa confermò nel 1219, e, verosimilmente, governò la diocesi palermitana impedendo ogni diminuzione della propria autorità: se ne ha sentore da una lettera di Federico del 27 luglio 1219, con la quale lo Svevo esorta il presule e le autorità cittadine a non molestare e a non far molestare i Frati teutonici. Secondo una pia tradizione, priva peraltro di qualsiasi attendibile riscontro, nel 1220, mentre risiedeva a Cefalù per una cura delle acque, B. si sarebbe incontrato con il santo carmelitano Angelo che lo avrebbe guarito: probabilmente fin da allora l'arcivescovo soffriva della malattia reumatica che lo avrebbe a lungo tormentato negli anni a venire.
A partire dal 1220 la presenza di B. come consigliere di Federico si fece ancora più intensa. Non abbiamo attestazioni sulla sua partecipazione all'incoronazione imperiale, anche se Kamp la ritiene assai probabile. Nel 1221 era comunque a Capua dove cooperava con l'imperatore per la costituzione della Curia. In tale occasione, secondo una testimonianza di Enrico d'Isernia, Pier della Vigna, "exilibus parentibus […] et fama […] obscura" (J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865, p. 11 n. 1), si raccomandò a lui che, colpito dalle doti di dettatore del giovane, ne favorì l'accesso tra i più stretti collaboratori dello Svevo. Per sei anni, fino al 1227, B. non si mosse dal fianco di Federico che, con energia, andava riorganizzando il Regno di Sicilia. L'arcivescovo di Palermo fu infaticabile, sostenendo il suo sovrano nella difficile opera di governo del Mezzogiorno e di interventi nel resto d'Italia, con una continua assistenza espressa in pareri e suggerimenti. Lo troviamo, quindi, insieme a Federico ad Apricena e Capua nel gennaio-febbraio 1223, all'assedio di Celano nell'aprile, a Messina nel giugno, a Catania nel febbraio-marzo 1224, a Rimini nel marzo 1226. Contemporaneamente B. non abbandonò il delicato ruolo di intermediazione con l'autorità papale, svolto dal lontano 1212. Nel 1222, infatti, su designazione di Onorio III, fece parte del collegio elettivo per la Sicilia, proponendosi come il capo della Chiesa del Regno e, l'anno seguente, fu accanto all'imperatore durante l'incontro col pontefice a Ferentino. Nel 1227 Gregorio IX, succeduto sul soglio pontificio ad Onorio III, pose Federico di fronte alle sue responsabilità riguardo alla crociata, precedentemente sempre eluse dallo Svevo. L'imperatore si impegnò allora in un'opera diplomatica preparatoria della spedizione che, naturalmente, fu principalmente affidata a B., incaricato di sondare le intenzioni dei sultani d'Egitto e di Damasco. Nell'ottobre del 1227 l'arcivescovo di Palermo partì per il Cairo, avviando le trattative con al-Kāmil, successivamente si recò a Damasco dove trovò un ambiente ostile. Il sultano al-Mu῾aẓẓam, infatti, alla richiesta di restituzione dei territori conquistati dal Saladino, rispose che non aveva altro da dare se non "il taglio della spada" (Amari, 1880, p. 246). B., allora, ritornò al Cairo, dove le conversazioni con al-Kāmil furono più proficue ed impostarono, dal punto di vista diplomatico, l'anomala crociata di Federico. A testimonianza della buona disposizione del sultano d'Egitto l'arcivescovo portò in dono al suo signore, nel gennaio 1228, "elephantem unum, mulos et pretiosa quedam alia munera" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 149). B. era accompagnato da un ambasciatore del sultano, Fakhr al-Dīn, evidentemente sbarcato nel Regno per continuare il negoziato. Le relazioni con Gregorio IX erano ancora abbastanza buone, tanto che l'arcivescovo il 10 gennaio ebbe riconfermati dal papa tutti i privilegi della sua Chiesa. Giunta, sulla scorta di Michele Amari, sostiene che poco dopo B. ritornò, insieme al dignitario egiziano, presso al-Kāmil per perfezionare gli accordi. Kamp, riferendosi alle ricerche di Eduard Winkelmann, afferma invece che il presule non si mosse dal Regno; d'altra parte non ci sono documenti che chiariscano dove B. si trovasse tra il gennaio ed il maggio del 1228, quando la sua presenza è attestata a Barletta. Qui, il 6 maggio, sottoscrisse un atto, ma principalmente prese parte alla dieta che sanciva importanti decisioni riguardo alla reggenza e all'eventuale successione di Federico. Nel giugno fu teste di un atto imperiale rilasciato a Brindisi, dopo di che si imbarcò con il sovrano per la Palestina e rimase al suo fianco fino all'incoronazione gerosolimitana dello scomunicato Svevo (18 marzo 1229). Risulta, quindi, priva di fondamento la notizia di Bartolomeo di Neocastro, secondo cui B., insieme all'arcivescovo Giacomo di Capua, sarebbe stato "balius in regno Sicilie" (1921-1922, p. 115) durante lo svolgimento della crociata. Il presule palermitano, che aveva avviato, con l'ambasceria del 1227, il successo diplomatico dell'impresa di Terrasanta, dopo il precipitoso ritorno nel Regno, il 10 giugno 1229, per fronteggiare l'invasione papalina, fu ancora accanto all'imperatore. Condusse, quindi, le trattative di pace con la Curia pontificia, colloquiando con il prelato Lando di Reggio, amico personale di Gregorio IX. Nel maggio 1230 era a Foggia presso la residenza imperiale e tra il luglio e l'agosto di quell'anno presenziò all'armistizio di San Germano ed alla pace di Ceprano. Ancora una volta B. era stato il tramite fra Federico ed il Papato; tuttavia gli avvenimenti del 1228-1230 segnavano una notevole differenza. Precedentemente l'arcivescovo aveva esercitato la sua opera di mediazione tra interlocutori sostanzialmente solidali; dopo la rottura del 1228 B., pur impegnandosi a smussare gli angoli della contesa e a convincere l'imperatore a comportamenti meno radicali, fu costretto ad assumere un atteggiamento univoco, che lo allontanò inevitabilmente dalle posizioni pontificie.
Probabilmente nella seconda metà del 1230 B. fu colpito da una recrudescenza della malattia reumatica e ritornò alla sua diocesi da cui mancava da lungo tempo. Fu, quindi, assente durante l'elaborazione, la promulgazione e l'applicazione delle Costituzioni di Melfi. Sul soggiorno palermitano del presule siamo informati da uno scambio epistolare intrattenuto con il vecchio amico Pier della Vigna. Si tratta di cinque lettere ‒ tre di B. e due del maestro notaio della cancelleria ‒ da cui, accanto a notizie sulla salute dell'arcivescovo, emerge principalmente il ruolo centrale rivestito da B. nella corte fridericiana e il suo ininterrotto interesse per gli affari di stato. Scritte tra l'estate del 1230 e il novembre 1231 si concentrano principalmente sui problemi posti dai traditori, specie dal balio del Regno Rinaldo di Spoleto, attivi durante la crociata del 1228-1229, e testimoniano come, anche da lontano, l'arcivescovo di Palermo intervenisse con competenza nelle questioni che più impegnavano l'imperatore assieme ai suoi stretti collaboratori. Pure in tali circostanze B. appare come il più autorevole mediatore tra la monarchia sveva e Gregorio IX, da cui peraltro nel marzo 1231 riceveva una richiesta di indagine circa le prevaricazioni esercitate sul clero regnicolo dai giustizieri di Federico. Alle sollecitazioni di Pier della Vigna perché presto rientrasse a corte, l'arcivescovo adduceva a giustificazione le sue precarie condizioni di salute, aggravate dal pestifero clima della "felix illa vel infelix Panormitana civitas" (Giunta, 1964, p. 109), dimostrando, con tali espressioni, una notevole insofferenza per l'angusto ambiente dell'ormai, di fatto, ex capitale del Regno. A partire dal dicembre del 1231, comunque, B. ritornò accanto a Federico. A Ravenna fino al marzo 1232, nell'aprile fu ad Aquileia e, nel dicembre, ad Apricena. Nominato giudice d'appello, pronunciò nello stesso anno una sentenza riguardo alla lite tra il vescovo di Ravello, Pietro, e Roberto "de Monte Militum", concernente il possesso di un bene presso Aversa. Nel febbraio 1233 B. si recò a Bari, dove dinanzi all'imperatore, all'arcivescovo Marino Filangieri e a Buonconsiglio, vescovo di Bitetto, consacrò e dotò l'altare principale. Successivamente seguì Federico che si trasferiva in Sicilia per sedare le rivolte scoppiate nell'anno precedente e, sicuramente, prestò il suo consiglio, i cui effetti traspaiono dalle posizioni conciliative assunte dall'imperatore dopo la severa punizione dei ribelli più ostinati. Nel 1234, infine, assistette il suo signore durante l'incontro di Rieti con Gregorio IX. Pur assorbito da tali gravi incombenze, non tralasciò di curare, sia pur da lontano, la sua diocesi, ricevendo possedimenti terrieri da Stefano di Partinico, e fu tra gli esecutori testamentari del conte Aldoino di Ischia Maggiore. Nel 1235 dovette sostenere il clero ed il capitolo palermitani che si opponevano alla penetrazione dei Francescani, tanto da indurre il papa a ricorrere al più conciliante arcivescovo di Messina, Lando, che mostrava spiccate simpatie per i Frati mendicanti. Si limitò, soltanto, a concedere a pochi eremiti di sistemarsi nel territorio di Caccamo.
Il 1235, tuttavia, fu caratterizzato da avvenimenti molto più rilevanti. Federico II, che si allontanava dal Mezzogiorno per recarsi in Germania, nella dieta di Fano nominò un consiglio di reggenza del Regno di Sicilia formato dal maestro giustiziere Enrico di Morra, da Giacomo, arcivescovo di Capua, da Tommaso d'Aquino e dall'arcivescovo di Palermo cui si aggiunse, in un secondo momento, Pietro, vescovo di Ravello. Il consiglio, dotato di ampi poteri riguardo alle questioni laiche ed ecclesiastiche, fu attivo fino all'estate del 1238. Secondo Giunta, B. limitò la sua azione quasi esclusivamente al campo ecclesiastico, collaborando, collegialmente con i suoi colleghi, soltanto alla decisione del giugno 1235 presa a Capua e relativa alla fortificazione di Rocca Ianula sopra San Germano. Si interessò, invece, particolarmente all'annosa questione concernente i diritti del vescovo di Cefalù Aldoino, di cui si era occupato negli anni precedenti. Dopo la sentenza della Curia pontificia favorevole al vescovo, B. gli restituì i diritti del porto di Cefalù. Nel 1237, poi, fu incaricato di valutare, insieme agli altri ecclesiastici del consiglio, l'idoneità di Pandolfo di S. Stefano a ricoprire la carica di abate di Montecassino. Grazie all'utilizzazione di altri documenti, Kamp ha, inoltre, appurato che l'arcivescovo palermitano si impegnò, in collaborazione con i colleghi che si avvicendavano nelle incombenze della reggenza, anche nella riscossione delle imposte e nella paga delle truppe dislocate in Lombardia, operando, preferibilmente, da Melfi. L'ultima attestazione, relativa alla reggenza di B., è del 19 luglio 1238. Il 26 luglio si era costituita una lega antifridericiana tra il papa, Venezia, Genova, Milano e Piacenza: l'imperatore, allora, convocò B. in Lombardia e nell'agosto lo inviò, insieme a Nicola vescovo di Reggio Emilia, Taddeo da Sessa e Ruggero Porcastrella, da Gregorio IX, che si trovava ad Anagni, "pro pace inter ecclesiam et imperium reformanda" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 197). Le conversazioni rimasero però in una fase interlocutoria, senza raggiungere alcun risultato apprezzabile, sicché B. nell'ottobre si spostò a Cremona, ancora impegnato nel tentativo di confutare le accuse papali. Nel novembre, con l'arcivescovo di Messina Lando, Tommaso d'Aquino e Ruggero Porcastrella, ritornò presso Gregorio, ma anche questa volta non si pervenne a esiti concreti. Nel dicembre l'arcivescovo scortò l'imperatrice Isabella dal Regno in Lombardia. Nel 1239 subì, insieme a Federico, la scomunica e la sospensione dalle funzioni ecclesiastiche (comunque, dopo il luglio di quell'anno), ma non cessò di collaborare con l'imperatore che, attraverso numerosi atti, sottolineava la propria volontà di pace, espressa nelle ambascerie cui aveva partecipato B. e indirizzata "contra hereticam pravitatem, et pro ecclesiastica libertate, et de reformandis Ecclesie et imperii juribus" (Historia diplomatica, V, p. 301). Nel febbraio 1240 ricondusse l'imperatrice nel Regno, dove ritornò anche Federico, che il presule accompagnò negli spostamenti da Foggia a Capua avvenuti nel maggio seguente. La lotta fra lo Svevo e il Papato era ormai diventata aperta: avvicinandosi l'inizio dei lavori del concilio convocato da Gregorio, Federico II ordinò agli ecclesiastici siciliani di rientrare nelle loro sedi e fece catturare i cardinali francesi che si erano imbarcati il 25 aprile 1241 a Genova per recarsi presso il papa. Si trattava di un'azione molto grave che suscitò le reazioni di Luigi IX: costui inviò una lettera all'imperatore chiedendo la liberazione dei prelati, ma non ebbe una risposta positiva. La questione dei cardinali imprigionati rappresentava un problema assai grave, sicché B. inoltrò una petizione al suo signore, caldeggiando la liberazione degli ostaggi. Nonostante fosse stato scomunicato, l'arcivescovo riprendeva il suo ruolo centrale nei difficili rapporti di mediazione con la Curia pontificia. Nello scritto, infatti, sono presenti esortazioni di ordine religioso, relative alla profonda ingiuria inferta alla Chiesa, insieme a considerazioni di carattere più propriamente politico e diplomatico. I consigli del saggio ecclesiastico furono accolti e i cardinali messi in libertà. Successivamente Federico pensò di ricorrere alle armi per risolvere il contenzioso con Gregorio, ma la morte del papa, avvenuta il 22 agosto del 1241, lo indusse a una politica di attesa, protratta fino al giugno del 1243, quando (dopo la breve e insignificante parentesi di Celestino IV) fu eletto Sinibaldo Fieschi col nome di Innocenzo IV.
B. era rimasto al servizio dell'imperatore durante la lunga vacanza del soglio pontificio, spostandosi tra Foggia e San Germano. Nel luglio 1243 fu inviato ad Anagni, presso il nuovo papa, insieme a Pier della Vigna e Taddeo da Sessa "pro bono pacis". Riccardo di San Germano afferma che gli ambasciatori furono accolti benignamente "et benignum ad principem retulerunt responsum" (1936-1938, p. 217), ma in effetti, come risulta da un'epistola di Innocenzo IV, il pontefice si rifiutò di ammettere alla sua presenza la legazione, non volendo intrattenere rapporti con gli scomunicati. La situazione, comunque, andò migliorando e nel settembre un'altra ambasceria, comprendente B., si recò ad Anagni. Per poter ricevere i messi Innocenzo fu costretto a revocare la scomunica a Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, ma fu riluttante nei confronti dell'arcivescovo di Palermo, che alla fine fu, tuttavia, incluso nel provvedimento. Le trattative non giunsero, però, a risultati apprezzabili. Mentre il duello diplomatico continuava, nel 1244 B. ritornò brevemente a Palermo (dove si era già recato nel maggio 1242), impegnandosi, dopo la nomina di Rinaldo d'Acquaviva a vescovo di Agrigento, a risolvere con quella diocesi un'annosa lite riguardo ai confini. Nel gennaio del 1245 ebbe una controversia col capitolo a causa del trafugamento di alcuni oggetti preziosi, ma poco dopo si era già trasferito a Messina e da lì, nel marzo, a Foggia. La sua presenza accanto all'imperatore era resa indispensabile dalla convocazione del concilio di Lione, iniziato solennemente il 28 giugno 1245. Nessuno dei prelati siciliani, ad eccezione di B., partecipò al consesso. L'arcivescovo di Palermo assistette Taddeo da Sessa, ma non sappiamo quale sia stato il suo contributo alla missione: è probabile che gli venisse precluso l'accesso ai lavori. Dopo la condanna e la deposizione di Federico, B. fu nuovamente colpito dalla scomunica, ma non cessò di adoperarsi per cercare una soluzione favorevole all'imperatore. Come capo della Chiesa del Regno, seppur scomunicato, insieme al vescovo di Pavia, agli abati di Montecassino, Cava e Casanova e ai frati domenicani Rolando e Nicola procedette ad un interrogatorio di Federico sulle questioni di fede, al fine di confutare l'accusa di eresia lanciata contro lo Svevo dal concilio di Lione. L'inchiesta, autenticata da un notaio di Lucca, accertava che Federico, interpellato "super articulis contentis in Symbolo et aliis ad fidem catholicam", aveva risposto di credere "firmiter" (Historia diplomatica, VI, p. 426). I risultati dell'indagine, condotta nell'aprile del 1246, nel maggio successivo furono presentati al papa, che, però, non volle ricevere la delegazione di scomunicati che difendeva uno scomunicato. Gli ecclesiastici, tuttavia, dichiarando che "se ipsius Frederici non tanquam imperatoris vel regis, sed velut simplicis christiani nuntios asserebant" (ibid.), riuscirono a conferire con i vescovi portuense e albanese e col cardinale di S. Sabina, ma non ottennero nulla perché fu risposto che avevano svolto un compito che non era stato loro assegnato. Si trattava di un grave insuccesso che convinse B. a schierarsi decisamente e senza infingimenti dalla parte di Federico: la sua lunga attività di mediazione tra il potere imperiale e papale si era ormai conclusa senza poter giungere a quella pacificazione che per lunghi anni era stato il suo obiettivo principale. Nel 1247 fu con lo Svevo a Cremona e a Parma, dove ricevette la conferma di tutti i privilegi della sua diocesi, e nell'ottobre rientrò a Palermo. Pur rimanendo familiaris di Federico, diradò il suo impegno politico e diplomatico, ma continuò a guidare la Chiesa del Regno, secondo una felice definizione di Giunta 'praticamente autocefala', entrando in contrasto, nel 1249, col pontefice riguardo all'assegnazione della cappellania della cattedrale palermitana. Nello stesso anno non intervenne in favore dell'amico Pier della Vigna, caduto in disgrazia, forse perché ormai privo del potere precedentemente raggiunto, verosimilmente perché condivideva la drastica decisione di Federico II, come sembrerebbe confermare una lettera dell'imperatore, probabilmente scritta in quel torno di tempo, in cui viene calorosamente lodata la fedeltà dell'ormai vecchio arcivescovo. Il quale nel 1249-1250 fu ancora a fianco del suo signore durante le misure prese dall'imperatore contro i tentativi del legato pontificio Pietro Capocci per far sollevare il Regno. In occasione della morte di Federico (13 dicembre 1250), B. fu presente alla stesura del testamento dello Svevo, in cui fu ricordato e che sottoscrisse (v. Testamento di Federico II), e fornì l'assistenza spirituale al moribondo assolvendolo dai suoi peccati. Accompagnò la salma nel lungo viaggio verso Palermo, nella cui cattedrale celebrò la funzione funebre nel febbraio del 1251. Da quel momento cessò definitivamente l'attività politica di B., che non si sarebbe più mosso dalla sua sede episcopale. Da Manfredi ricevette, quindi, Gratteri e Isnello in luogo delle 500 once assegnategli da Federico e si dedicò all'amministrazione della diocesi, occupandosi di questioni modeste e molto lontane dalle precedenti incombenze, come l'accordo con Gualtieri Fisaulo circa l'acqua del Gabriele e l'acquisizione di una vigna presso Messina, donata da Sergio Musseta. Sotto Corrado IV mantenne il rango di familiaris, ma le sue ultime rilevanti vicende riguardarono i rapporti con Innocenzo IV. Questi, nell'aprile del 1251, gli inviò una dura lettera rinfacciandogli le sue colpe, ma facendogli intravedere il perdono e la riabilitazione dalla scomunica in ragione della tarda età se avesse collaborato con il legato papale Marino Filangieri, arcivescovo di Bari. B. non rispose, forse perché Marino era frattanto scomparso (nel luglio). Non abbiamo altre notizie fino alla sua morte, avvenuta l'8 settembre del 1252.
La lunga parabola di B. attesta che questo ecclesiastico fu tra i più autorevoli collaboratori di Federico II, che sostenne attraverso una sottile e continua attività diplomatica, da cui emerge il ruolo assunto dall'arcivescovo nella Curia imperiale. Egli, fin dalle sue prime esperienze politiche, non solo si incaricò di tenere un ininterrotto filo negoziale con l'autorità papale, ma si prodigò per appianare i gravi contrasti che l'energica politica dello Svevo suscitava ad ogni pie' sospinto con Gregorio IX e Innocenzo IV. Pur patrocinando, infatti, con lealtà e coerenza gli argomenti del suo signore, B., attraverso un'instancabile opera di mediazione, espressa in legazioni diplomatiche e consigli offerti a Federico, cercò in tutte le maniere di evitare irreparabili rotture con la Curia pontificia, che avrebbero segnato il preludio del crollo imperiale. Specie dopo gli insuccessi del 1246, tutta la tela tessuta da B. fu irrimediabilmente rovinata, ma nella valutazione dell'arcivescovo di Palermo si impone l'apprezzamento dei suoi notevoli sforzi per ricondurre i rapporti fra Papato e Impero nell'alveo di un corretto confronto politico. Se lo strappo definitivo tra Federico e la Chiesa giunse abbastanza tardi, i meriti furono in gran parte di B., il quale arricchì la sua azione politica grazie ad un retroterra culturale di notevole spessore. Definito da Pier della Vigna "curie alumpnus" (Giunta, 1964, lettera III, p. 107), dovette, in gioventù, studiare diritto, dal momento che la specializzazione in utroque costituiva un ottimo viatico per una rapida carriera ecclesiastica, come accadde appunto a B. che, prima dei quarant'anni, occupò la cattedra barese. Inoltre, la sua consuetudine con la cultura giuridica appare ulteriormente provata dagli incarichi ricoperti durante i concili del 1215 e 1245, quando ebbe modo, specie nel IV concilio lateranense, di sostenere le sue tesi con l'ausilio di una dottrina adeguata all'importanza della posta in gioco. Dalle testimonianze dei contemporanei e dai pochi scritti di B. giunti fino a noi emerge anche l'alta sapienza retorica dell'arcivescovo. Riccardo di San Germano riferisce che la sua orazione in difesa di Federico tenuta davanti ai padri conciliari nel 1215 coinvolse gli astanti ("ab ore ipsius pendentibus universis") per l'eleganza dell'esposizione ("cum eleganter satis preponeret in audientia omnium"; 1936-1938, p. 71). Egli era, peraltro, in stretta consuetudine con i più ornati dettatori della Curia fridericiana, come Pier della Vigna e Tommaso di Capua, con uno dei quali intrattenne un forbito scambio epistolare. Delle tre lettere inviate a Pier della Vigna, da quella indirizzata al capitolo palermitano e dall'esortazione all'imperatore affinché liberasse i cardinali precedentemente imprigionati, emergono "l'accurata osservanza della grammatica, l'eleganza dell'espressione, l'uso frequente di flosculi, di traslati, di similitudini, di sentenze e di bisticci" (Giunta, 1964, p. 103). Non a caso, quindi, le missive al capitolo e all'imperatore furono inserite nella raccolta del ms. Fitalia, I B 25, della Biblioteca della Società siciliana per la storia patria di Palermo, confezionato a fini didattici nella prima metà del sec. XIV. I vivaci interessi culturali e l'ampiezza di prospettive politiche distrassero B. dai suoi compiti pastorali nelle diocesi di Bari e di Palermo. Senza dubbio alcuno egli trascurò la cura spirituale delle anime a lui affidate e, almeno per quel che riguarda Palermo, visse con esplicita insofferenza i periodi di residenza nella sua sede: fu, tuttavia, costantemente impegnato, come i suoi più avvertiti colleghi, a far acquistare piena attuazione alla normativa giuridica episcopale. B., in sostanza, interpretò ai più alti livelli le tendenze degli ambienti intellettuali della Curia di Federico. Dotato di una cultura sofisticata, naturalmente inclinato all'arte diplomatica, molto attento agli orientamenti politici in atto, che cercò di volgere in favore dello Svevo, alla fine uscì sconfitto perché, come il suo signore, impegnò ogni energia per l'affermazione di un'idea imperiale ormai estranea, nella sostanza, alla sensibilità dei contemporanei.
Fonti e Bibl.:Historia diplomatica Friderici secundi, ad indicem; Breve chronicon de rebus Siculis, ibid., I, 2, p. 894; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I-II, Berolini 1874-1875: I, nrr. 4810, 8993, 10070; II, nrr. 11121, 14615; Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches [...], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901, ad indicem; Les registres d'Innocent IV, a cura di E. Berger, I-IV, Paris 1884-1921: I, nrr. 93, 1988; II, nrr. 5342, 5410; Regesta Honorii papae III, a cura di P. Pressutti, I-II, Romae 1888-1895: I, nr. 111; II, nr. 3930; G.B. Nitto De Rossi-F. Nitti, Le pergamene del duomo di Bari, I, 952-1264, Bari 1897, ad indicem; Regesto di S. Leonardo di Siponto, a cura di F. Camobreco, Roma 1913, nr. 181, pp. 116 ss.; Bartolomeo di Neocastro, Historia Sicula (aa. 1250-1293), in R.I.S.2, XIII, 3, a cura di G. Paladino, 1921-1922, pp. 6, 115, 116; Annales Siculi, in appendice a Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis, ibid., V, 1, a cura di E. Pontieri, 1925-1928, p. 119; Riccardo di San Germano, Chronica, ibid., VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938, ad indicem. Numerosi documenti sono contenuti nelle opere indicate in bibliografia, da cui si può avere una completa informazione sulle altre raccolte comprendenti atti relativi a B. e sulle cronache che, comunque, accennano alla sua attività. Gli scritti di B. si leggono in F. Giunta, Uomini e cose del Medioevo mediterraneo, Palermo 1964, pp. 105-117. A. Beatillo, Historia di Bari, principal città della Puglia nel regno di Napoli, Napoli 1637, p. 119; A. Inveges, Annali della felice città di Palermo, III, Palermo 1651, p. 537; F. Lombardi, Compendio cronologico delle vite degli arcivescovi baresi, I, Napoli 1697, p. 77; F. Ughelli, Italia sacra, VII, Venetiis 1721, coll. 623 ss.; R. Pirri, Sicilia Sacra, I, Panormi 1733, coll. 137-148 (riprod. anast. a cura di F. Giunta, Sala Bolognese 1987); M. Garruba, Serie critica de' sacri pastori baresi, Bari 1844, p. 197; E. Winkelmann, Geschichte Kaiser Friedrichs II. und seiner Reiche, II, Berlin 1863, pp. 10 ss. e passim; M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, II, Torino 1880, p. 246; A. Giannone, Il codice di Fitalia. Studio diplomatico-storico, "Archivio Storico Siciliano", n. ser., 31, 1914, pp. 93-135; F. Carabellese, Il comune pugliese durante la monarchia normanno-sveva, Bari 1924, pp. 129-142; M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di C.A. Nallino, III, Catania 1938, pp. 650 ss.; F. Giunta, L'arcivescovo Berardo (1170 [?]-1252), "Archivio Storico Siciliano", ser. III, 6, 1955, pp. 7-45 (ora in Id., Uomini e cose del Medioevo mediterraneo, Palermo 1964, pp. 65-117); A. Pratesi, Berardo de Castacca, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 781-783; N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung. Bistümer und Bischöfe des Königreichs 1194-1266, München 1973-1982, pp. 576-581 e 1129-1137; E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, ad indicem; C. Villa, Raccolte documentarie e ambizioni storiografiche: il 'progetto' del manoscritto Fitalia (Palermo, Biblioteca della Società siciliana per la storia patria I B 25), in Confini dell'umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. De Nichilo-G. Distaso-A. Iurilli, in corso di stampa. P.B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873, pp. 856, 931; C. Eubel, Hierarchia catholica medii aevi, I, Monasterii 19132, pp. 128, 388; L. Jadin, Bérard de Castaca, in Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, VIII, Paris 1935, coll. 322-324.