BERARDO
Di famiglia fiorentina - "nobilissima gente progenito Florentiac urbis", dice Giovanni grammatico nel prologo al Regesto di Farfa di Gregorio di Catino - resse per nove anni l'abbazia di Farfa, secondo abate di questo nome, dopo esserne giunto a capo in circostanze eccezionali. Alla morte di Berardo I (nov. 1089), di cui B. era forse parente ("qui consanguineus dicebatur antecessoris domni Berardi", Gregorio di Catino, Chronicon, II, p. 209), il monaco Rainaldo era stato eletto abate in modo tumultuoso, senza rispetto delle norme tradizionali, per scongiurare la nomina di Regizone, vescovo guibertiano di Sabina; Rainaldo, tuttavia, per quanto fosse "monasticis imbutus religionibus", si dimostrò un debole, sprovvisto di doti di governo, incapace di assicurare una regolare vita alla comunità e di tutelare il patrimonio del monastero, minacciato dai potenti locali. Lo stato di disagio venutosi così a creare in seno alla comunità, mentre da un lato fece pensare ai monaci di Farfa di rivolgersi a Enrico IV perché risolvesse la situazione - all'uopo compilarono una lettera probabilmente mai recapitata, parzialmente conservataci nel Regesto -, dall'altra spinse B., che si trovava in una prepositura delle Marche, a prendere l'iniziativa di recarsi personalmente presso l'imperatore, "nos precedens", specifica Gregorio (Chronicon, II, p. 209). La situazione del monastero fu esposta in termini tali - Gregorio di Catino fa pensare che B. la esagerasse ad arte fingendo "plura haud vera" - da indurre Enrico ad investire senz'altro B. dell'abbazia. Rainaldo, saputa la notizia, abbandonò il monastero, dopo sette mesi e quattro giorni di governo; la comunità farfense, pur decidendo di accogliere B., prima di accettarlo come superiore, "quoniam nimis pavebamus ne super nos tyrannidem exerceret confirmatus", gli chiese il giuramento di osservare le consuetudini tradizionali del monastero, con speciale riguardo alla tutela del suo patrimonio: è interessante sottolineare una delle clausole di questo giuramento, quella cioè che impegnava B. a dare "dominium castellorum non laicis eminentibus, sed humillimis et maxime monachis". B. giurò il 5 giugno 1090 a Terni, ove i monaci gli si erano fatti incontro; fu eletto abate, quindi giunse a Farfa ove prese possesso dell'abbazia. Èassai probabile che non abbia ricevuto consacrazione da parte del papa Urbano II: così fa pensare una frase di Gregorio di Catino che dice che egli non fu consacrato "a catholico pontifice".
I nove anni di governo di B. sono visti dal contemporaneo Gregorio di Catino, monaco di Farfa e nostra principale fonte a riguardo, come anni di decadimento morale e religioso; in cui l'abate resse tirannicamente la comunità, fomentando anziché sedare le discordie, introducendo innovazioni "vilissimae"; mutando le antiche "consuetudines"; circondandosi di fasto, dimentico di quella norma della Regola benedettina che lo voleva padre e maestro spirituale; venendo meno all'impegno solenne che egli aveva preso di fronte alla comunità, anche in quello che più in quell'impegno era stato sottolineato: la tutela del patrimonio dell'abbazia; così per bisogno di denaro o per debolezza diede ai conti di Otricoli e dei Marsi le terre e i castelli più importanti dell'alta Sabina. Anche il fatto più saliente dell'abbaziato di B., l'iniziativa dell'erezione d'un nuovo edificio per i monaci sulla cima del monte Acuziano, richiesta dallo stato dell'antico cenobio e dalla sua posizione poco salubre e auspicata a Roma per rafforzare il monastero, offre l'occasione per sottolineare le caratteristiche distintive di questo abate: sete di denaro e nessuna preoccupazione del bene dell'abbazia; emanò infatti la solenne enciclica che annunziava l'erezione della nuova basilica (9 maggio 1097) "coactus" dalla comunità e da "plurimi Romanorum magnates", nel documento B. dice: "et hoc [la costruzione del nuovo monastero] beate Marie voluntate atque quorundam Dei fidelium Romanorum quorum nomina Deus scit iuvamine et exortatione incipimus" -, ma non diede subito seguito concreto all'iniziativa stessa perché i fondi che si raccoglievano per la nuova costruzione, per la quale aveva anche destinato le rendite di quattro castelli e varie decime, non li usava "ut finxerat ad ecclesie renovationem, sed in proprios libitos vel consanguineorum usus dispergere festinabat". Gregorio di Catino stesso fu vittima della sua avarizia; se infatti il 19 apr. 1092 B. approvava la proposta fattagli da Gregorio di raccogliere in un unico volume tutti i documenti pertinenti ai diritti di Farfa, in realtà "non... ad illud perficiendum aliquid sumptus tribuit"; e Gregorio, per dare inizio all'opera che egli chiamò "Liber gemniagraphus sive cleronomialis ecclesiae Farfensis", e che, più noto col nome di Regesto di Farfa, è miniera preziosa e unica per la storia del Medioevo italiano dall'età longobarda fino al sec. XI, dovette ricorrere all'offerta di dieci soldi fattagli da un certo Pietro prete e al frutto del lavoro delle sue mani.
La mancanza d'uno studio approfondito e particolareggiato sulle vicissitudini patrimoniali del monastero farfense da una parte, e sulle eventuali relazioni tra queste e la situazione storica generale, che vedeva ancora aperta la lotta per le investiture e contrapposti due papi, il legittimo Urbano II e l'enriciano Clemente III dall'altra, impedisce di verificare la presentazione che di B. fa Gregorio di Catino - che fu in cattivi rapporti con B. al punto da dover lasciare l'abbazia e rifugiarsi "in aliena coenobia tanquani vagus et profugus" -; di specificare se effettivamente e a favore di quali forze B. abbia sperperato i beni dell'abbazia. Certo numerosissime sono le concessioni fatte da B. "ad tertiam generationem" (cfr. il Liber largitorms)che possono essere vere e proprie larvate alienazioni; ma più d'un documento del Regesto, almeno ad una prima lettura, sembra se non smentire, certo porre in dubbio la figura d'un B. che si disinteressa completamente della tutela del patrimonio monastico, anche se vi poterono essere altri motivi o fini, che tuttavia riesce difficile determinare, per i quali, anche in relazione alla situazione contemporanea, B. poté essere spinto ad agire: così nel giugno 1091 egli riuscì a far riconoscere i diritti dell'abbazia sulla chiesa di S. Benedetto presso il castello di Navino, usurpata da alcuni nobili, cui il suo predecessore Berardo I aveva finito col rinunciare, e a ottenere da questi l'impegno di sostenere le spese della fabbrica; intorno allo stesso tempo, 1091 o 1092, otteneva la rinuncia all'eredità del prete Pietro da Farisenda da parte del vescovo di Narni e abate del monastero di S. Cassiano, Rodolfò; qualche anno dopo si recava personalmente in una selva tra Catino e la sua rocca per intimare al magnati locali di lasciar liberi i loro dipendenti di deporre in giudizio a favore del monastero per certe terre di proprietà dell'abbazia nel territorio di Rescaniano, da questi stessi magnati invase: questi nel 1093 o 1096 in effetti restituirono i beni ingiustamente sottratti; il 3 febbr. 1094 otteneva l'atto di rinunzia alle terre abbaziali che si stendevano dalle rive del Narico a Spoleto da parte degli Arnolfi di Spoleto, che già da molti anni le avevano occupate; anche le vicende che riguardano i beni dei monastero nel territorio di Salisano finiscono col vederne il recupero da parte di Farfa: se B. nel 1095, "misericordia motus", aveva ridato in enfiteusi a Giovanni Villano i beni di proprietà del monastero cui lo stesso Villano aveva rinunciato, nell'agosto dello stesso anno tuttavia ricevette in dono dal Villano la sua porzione della rocca di Salisano e nel 1096 tutto il patrimonio della badia usurpato in questo territorio ritornò ai monaci, che fecero giurare a Giovanni Villano di non rialzare più torri o manieri sulle terre del monastero; meno fortuna ebbe invece la sua opposizione ai tradizionali avversari di Farfa, i Crescenzi: è del 1098 un documento in cui B. dichiara di essere stato costretto a riconoscere, per timore di peggio, il diritto di Donadeo sul castello di Fara, sul castello di Post montem e sulla chiesa di S. Pietro di Scandriglia, ma aggiunge anche che tale riconoscimento è invalido, e nel novembre del 1098 si preparava a un placito per rivendicare giustizia.
Gli ultimi anni dell'abbaziato di B. furono turbati, a quanto riferisce ancora Gregorio di Catino, dalle reazioni della comunità di fronte alla sua negligenza nell'adempiere ai solenni impegni presi, e alla sua esitazione nel porre in atto la costruzione del nuovo monastero. Alcuni monaci insofferenti di questa situazione abbandonarono il monastero per abboccarsi "cuni aliquibus capitaneis vel civibus Romanis" perché, "salva donini imperatoris equa fidelitate", B. fosse ricondotto al rispetto del suo dovere. Solo sotto questa minaccia B. diede inizio alla costruzione del nuovo edificio che non doveva vedere ultimato, essendo morto poco dopo, il 25 febbr. 1099.
Fonti e Bibl.: Gregorio di Catino, Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani, Roma 1903, in Fonti per la storia d'Italia, XXXIV, 1, pp. XXII, XXXV;2, ad Indicem;Id., Il Regesto di Farfa, a cura di I. Giorgi e U. Balzani, I, Roma 1914, p. XX e ad Indicem, p. LXXXIX;Id., Liber largitorius vel notarius monasterii pharphensis, a cura di G. Zucchetti, II, Roma 1932, docc. 1235-1313, pp. 119-151; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, IV, Stuttgart 1870, pp. 289 s.; K. Heinzelmann, Die Farfenser Streitschriften, Strassburg 1904, pp. 73-75; I. Schuster, L'imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921, pp. 221-239; M. Marini, Serie cronologica degli abati del monastero di Farfa...,Roma 1836, app. I, pp. 30-32; O. Vehse, Die päpstliche Herrschaft in der Sabina, bis zur Mitte des XII. Jahr., in Quellen und Forsch. aus ital. Arch. und Bibl., XXI (1929-1930), pp. 158 ss.