GESSI, Berlingero
Nacque a Bologna il 14 ott. 1564, figlio di Giulio e di Valeria di Francesco Segni.
La famiglia paterna vantava l'importante legame con Gregorio XIII Boncompagni, cugino del nonno del G., Berlingerio; a Roma, inoltre, i Gessi contavano sulla presenza di un ramo della famiglia il cui più noto esponente era l'auditore di Rota Pier Francesco. Il G. era il maggiore di tre fratelli e negli instrumenta del fondo di famiglia risulta anche una sorella, Emilia; dei fratelli Cesare e Camillo, il secondo si distinse come giurisperito a Bologna seguendo la tradizione di famiglia.
Il G. compì studi di diritto presso lo Studio bolognese e si addottorò in utroque iure il 4 maggio 1583. Secondo l'autobiografica Vita, fonte principale per ricostruire questo periodo di formazione e di avvio della sua carriera, nello stesso anno il G. si recò a Roma presso il fratello della madre, Giulio Cesare Segni - senatore di Roma tra il 1580 e il 1584 e vescovo di Rieti fino al 1603 -, che costituì il tramite naturale per il suo ingresso nella vita pubblica. La precoce morte del padre, tuttavia, impose al G. di tornare temporaneamente a Bologna per occuparsi degli affari di famiglia. Nel 1585 raggiunse di nuovo lo zio a Roma, quindi a Rieti, dove ricoprì la carica di vicario generale. Negli anni successivi si divise tra queste città, impegnato nella cura di affari pubblici e privati. Nel 1588, insieme con i fratelli e Melchiorre Zoppio, fondò a Bologna l'Accademia dei Gelati. L'anno seguente ottenne la lettura di Istituzioni nell'Università di Bologna, incarico che mantenne - almeno a livello nominale - anche per l'anno accademico successivo.
Nel 1591 il card. Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna, che a febbraio aveva nominato il nipote Alfonso Paleotti suo coadiutore, volle il G. vicario generale di Bologna. In coerenza con la sua linea di rinnovamento della diocesi, che coniugava l'ispirazione tridentina con un forte senso della realtà e del valore della tradizione locale, Paleotti affidò al G. la responsabilità dell'amministrazione della giustizia. Successivamente il G. consolidò la sua posizione: ancora nel 1591 fu protonotario apostolico e preposto alla chiesa metropolitana bolognese; nel 1592 si iscrisse al collegio civile della città e tra il settembre di quell'anno e il maggio del successivo ricevette da Alfonso Paleotti gli ordini minori e l'ordinazione sacerdotale. Alla fine del 1593 l'esperienza bolognese si concluse e all'inizio del 1594 - forse con la protezione del card. Ottavio Bandini, che in quegli anni era stato vicelegato a Bologna - il G. tornò a Roma. Qui, tra febbraio e marzo, superò l'esame per l'ammissione tra i referendari della Segnatura di giustizia; in giugno Clemente VIII gli concesse quella di grazia. Da novembre il G. fu luogotenente civile del tribunale del vicario di Roma, incarico che si accompagnò alla cooptazione tra i prelati della congregazione per l'Esame dei vescovi e di quella della Riforma apostolica. Per i primi anni del secolo il G. continuò il suo impegno a fianco del vicario, assumendo crescenti responsabilità: l'11 ott. 1600 fu nominato provicegerente e il 15 sett. 1601 vicegerente, carica che mantenne anche sotto il successivo vicario, Camillo Borghese (1603) e fino al 1607. Contemporaneamente fu scelto come segretario della congregazione dei Vescovi e regolari (1604).
L'elezione di Camillo Borghese (papa Paolo V) segnò una svolta decisiva nella carriera del Gessi. Dopo l'iniziale conferma in tutti i suoi incarichi, il nuovo pontefice lo nominò infatti vescovo di Rimini (13 nov. 1606). Il G. prese possesso della sede solo nel giugno 1607, durante il viaggio verso Venezia, dove Paolo V lo inviava nunzio per ripristinare le relazioni diplomatiche interrotte al momento dell'interdetto.
La scelta del nunzio fu probabilmente dovuta a diversi fattori: innanzitutto la natura del G., dotato allo stesso tempo di "desterità et prudenza", qualità che lo rendevano particolarmente adatto a interpretare la politica papale nei confronti della Serenissima. Di estrema importanza era poi l'esperienza acquisita dal G. nella congregazione dei Vescovi e regolari, tanto per i problemi che si sarebbe trovato ad affrontare, quanto perché non sarebbe passato inosservato il fatto che il rappresentante pontificio proveniva dall'istituzione che più direttamente si era misurata con i provvedimenti antiecclesiastici dei Veneziani.
Secondo l'Istruttione impartitagli, il G. avrebbe dovuto affrontare innanzitutto le questioni legate al recente conflitto e all'accordo che ne aveva sancito formalmente la conclusione. Si trattava di controllare che non venisse disattesa l'osservanza di quelle condizioni cui era sottoposta e condizionata l'assoluzione della Repubblica da parte pontificia; ottenere da Venezia il permesso al ritorno dei gesuiti e, nell'attesa, fare in modo che la gestione dei beni della Compagnia fosse affidata al nunzio; infine, adoperarsi per il ripristino della religione e del culto contrastando l'eresia, fosse essa semplice espressione di un vivo anticlericalismo o adesione al pensiero riformato. Era pertanto necessario avere il controllo della circolazione della stampa e il silenzio dei teologi veneziani, possibilmente facendo in modo che la Repubblica li consegnasse al S. Uffizio. Ortodossia e disciplina dipendevano, però, dal superamento di quel disordine nato o accentuatosi nel clero veneto durante il conflitto.
Il G. doveva provvedere con severità ai costumi, riportare la pace e sanare le divisioni interne alle comunità, cercando di scongiurare - con l'aiuto indispensabile dei superiori di ordini e conventi - il ricorso degli insoddisfatti alle autorità della Repubblica. Per raggiungere questo obbiettivo era necessario assicurarsi la collaborazione del patriarca di Venezia Francesco Vendramin, superando l'opposizione della Repubblica alla sua visita a Roma per ottenere l'approvazione necessaria al suo insediamento. Rimanevano, infine, gli affari ordinari di ogni nunziatura, che qui assumevano una coloritura particolare, trattandosi in sostanza di preservare e difendere in ogni circostanza la piena giurisdizione della Chiesa in tutto lo Stato. Al G. veniva chiesto di procedere sempre coniugando abilità, fermezza e accortezza, con zelo e senza indugi, evitando in qualunque modo mutamenti nella situazione di concordia creata tra i due Stati e accreditando in ogni occasione un'immagine paterna e benigna della S. Sede per vincere l'irriducibile sospettosità veneziana.
Il G. procedette con abilità nel suo incarico ottenendo, in generale, buoni risultati, seppure non giunse a realizzare tutte le aspirazioni romane. Tra i successi, va certamente annoverata la soluzione della vacanza del patriarcato veneziano nella primavera del 1608; riuscì inoltre ad allontanare da Venezia teologi come Fulgenzio Manfredi, processato e condannato a morte dal S. Uffizio nel 1610, e - quanto a Paolo Sarpi - fallito l'attentato di "stilo romano" (5 ott. 1607) nonché ogni tentativo di corromperlo, fu la stessa evoluzione interna al gruppo di governo che lo rese via via meno influente.
Il G. comunque si trovò a operare in un clima fortemente ostile - come emerge dal carteggio diplomatico in cui lamenta il costante ostruzionismo del Senato e soprattutto del doge Leonardo Donà -, che determinò il suo isolamento rispetto al clero e ai veneziani più vicini a Roma; fu quindi costante la necessità di adoperarsi senza mai abbassare la guardia per affermare e difendere le prerogative ecclesiastiche. Alla fine del suo mandato il G. lamentava il perdurare di atteggiamenti di avversione e intransigenza, riscontrabili nella difficoltà di ottenere il braccio armato con cui dare efficacia all'attività dei tribunali ecclesiastici e, viceversa, nella facilità con cui la Repubblica procedeva contro gli ecclesiastici oltre la propria giurisdizione. Analogo esempio fu il protrarsi di questioni come quella relativa al confine col Ferrarese o al vescovato di Ceneda, che costituivano strutturali occasioni di dissidio. In sostanza si può comunque affermare che la nunziatura del G. rappresentò la fase di normalizzazione dopo il più alto momento di crisi tra i due Stati.
Al suo ritorno a Roma il G., che nel frattempo aveva lasciato il vescovato di Rimini, fu nominato governatore della città (12 dic. 1618).
Il governatorato del G. non si distinse per avvenimenti di particolare rilievo: l'attività normativa rimase nel solco dei suoi predecessori e fu modesta quanto essenziale. Tuttavia egli non poté evitare di affrontare situazioni delicate, che non ebbe modo di risolvere sempre positivamente, allungando così la lista dei suoi avversari.
L'incarico di governatore gli fu confermato (12 febbr. 1621) anche nel momento in cui, morto Paolo V, ascese al soglio il cardinale Alessandro Ludovisi (Gregorio XV), con il quale il G. aveva avuto occasioni di dissidio fin dagli esordi in Curia, a causa della preferenza a quello accordata, almeno in una circostanza, nella spartizione delle cariche tra i bolognesi. Mantenne l'incarico fino all'aprile 1623; già nello stesso mese il G. fu nominato prefetto del Sacro Palazzo.
Il successivo pontefice, Urbano VIII Barberini, lo confermò in questa carica (14 ag. 1624), dopo averlo di nuovo accluso tra gli esaminatori dei vescovi (23 ag. 1623) e nominato viceprefetto della Segnatura di giustizia il 28 agosto. Nel dicembre 1624 il papa scelse il G. quale governatore del Ducato di Urbino.
Si trattava, ancora una volta, di un incarico delicato; infatti, nelle trattative seguite alla donazione "inter vivos" del Ducato (4 nov. 1623), Francesco Maria II Della Rovere aveva sollecitato al papa l'invio di un uomo di fiducia cui affidare il governo. Era tuttavia implicito che al prescelto venisse affidata la responsabilità di gestire la fase seguente, fino alla morte del duca. Al G. pertanto si raccomandò di prendere tutti i provvedimenti necessari per garantire una tranquilla e sicura transizione nel feudo, preoccupandosi anche dell'integrità del patrimonio dell'erede del duca, Vittoria, futura granduchessa di Toscana. Il G. doveva inoltre presiedere l'amministrazione pubblica senza introdurre modifiche ed evitando ogni urto con il duca, verso il quale avrebbe dovuto tenere un comportamento attento, cortese e comprensivo. Si trattava di una condizione importante per il successo della missione, tanto che il precedente inviato, l'arcivescovo di Urbino Paolo Emilio Santorio aveva visto svanire il cardinalato per la sua incapacità di stabilire un rapporto positivo con il duca, aprendo così la via al Gessi.
Il 1° genn. 1625 il G. arrivò nel Ducato dove, oltre alle incombenze previste, si trovò di fronte due questioni: in primo luogo l'atteggiamento da osservare rispetto al contributo militare che il duca era tenuto a fornire alla Spagna in cambio del suo sostegno. Il G., che doveva uniformarsi alla neutralità dello Stato pontificio, aveva l'ordine di non agevolare né ostacolare l'iniziativa, cosa alquanto problematica dal momento che l'organizzazione della leva e le reazioni popolari a essa riguardavano direttamente l'ordine pubblico. L'affare occupò il G. fino all'autunno del 1625. L'altra questione fu la crescente ostilità degli Urbinati, offesi dal fatto che poco dopo il suo arrivo il G., accusando motivi di salute, lasciasse la città trasferendosi a Pesaro e a Gubbio, privando così la capitale delle istituzioni di governo. Frutto di rivalità campanilista, questa avversione venne fomentata dall'arcivescovo di Urbino, che aveva personali motivi di risentimento contro il Gessi. Quando, il 19 genn. 1626 Urbano VIII elevò il G. al cardinalato con il titolo di S. Agostino, nel Ducato vi furono le consuete manifestazioni di felicitazione, cui però proprio Urbino si sottrasse, fino a che il duca non costrinse la città a parteciparvi. In marzo Francesco Maria nominò il G. curatore testamentario della nipote Vittoria; il successo presso il duca contrastava però con l'aggravarsi dei rapporti con Urbino e sembra che il G. accogliesse con un certo sollievo, all'inizio del 1627, la notizia del prossimo arrivo del suo successore.
Nel maggio 1627, egli lasciò il Ducato e tornò a Roma: qui si ritrovò al massimo livello della gerarchia e dell'influenza, ma non ebbe più alcun incarico di rilievo. Dopo il ritiro dalla scena pubblica del card. Lorenzo Magalotti, confidente del pontefice, il G. ne seguì le orme. L'ultimo periodo della sua vita fu pertanto occupato da un'intensa attività ordinaria: appare ed è ricordato in alcune tra le più importanti congregazioni, ma risulta piuttosto opaco.
Entrato a far parte della congregazione del S. Uffizio il G. fu, almeno fino al 1634, particolarmente assiduo, nonostante la gotta lo provasse sempre più. Come risulta dai decreta, tra la fine del 1632 e il 1633, e poi ancora nel 1638, seguì la causa di Galileo Galilei: firmò, nel giugno 1633, la sentenza di condanna dello scienziato e ne raccolse l'abiura. Il 2 nov. 1633 il G. divenne prefetto della Segnatura di giustizia.
Morì a Roma il 6 apr. 1639 e, dopo le esequie in S. Andrea della Valle, fu sepolto in S. Maria della Vittoria, nella cappella della Ss. Trinità, dove alla lapide si accompagna un ritratto, opera del concittadino Guido Reni.
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