Mandeville, Bernard de
Medico e scrittore olandese, naturalizzato britannico (Rotterdam 1670- Hackney, Londra, 1733). Figlio di un medico che esercitava a Dordrecht, fu per qualche tempo a Rotterdam alla scuola di Erasmo, uscendo dalla quale scrisse una Oratio scholastica de medicina (1685). Passato all’univ. di Leida vi sostenne nel 1689 una tesi De brutorum operationibus in cui si mostra seguace della teoria cartesiana dell’automatismo degli animali, e nel 1691 si laureò in medicina, pronunciando la prolusione De chylosi vitiata. Poco dopo si trasferì in Inghilterra, dove iniziò la sua attività letteraria, componendo poesie burlesche (Typhon, or the wars between the gods and the giants, 1704) e dialoghi satirici (The virgin unmask’d, or female dialogues, 1709). In Inghilterra continuò anche a occuparsi di medicina, in partic. di isteria, pubblicando A treatise on the hypochondriack and hysterick passions. In three dialogues (1711), un trattato in cui confutava la terapia puramente speculativa delle malattie nervose e sosteneva la tesi della loro origine organica (nel cattivo funzionamento dello stomaco), dimostrando al contempo grande attenzione per le convinzioni del malato. La sua fama è legata a The grumbling hive, or knaves turned honest, poema satirico di circa cinquecento versi, pubblicato anonimo nel 1705, poi ristampato nel 1714 con il titolo The fable of the bees, or private vices, publick benefits (trad. it. La favola delle api: ovvero, vizi privati, pubblici benefici), assieme a An inquiry into the origin of moral virtue (trad. it. Ricerca sull’origine della virtù morale) e a una serie di note esplicative. Il testo, che conobbe in seguito diverse edizioni (particolarmente importante quella del 1723, integrata da un Saggio sulla carità e sulle scuole della carità e da una Ricerca sulla natura della società), ebbe notevole successo e suscitò grande scandalo. In esso M. attacca le posizioni filosofiche di Shaftesbury e la sua dottrina dell’innato senso morale servendosi di un apologo: in un vasto alveare, abitato da una moltitudine di api, commercio e industria prosperavano, alimentati dal lusso, dalla volubilità e dal vizio, che davano lavoro a milioni di poveri, finché un giorno Giove, adirato, impose la virtù, e in breve tempo il lusso scomparve, giudici e poliziotti si trovarono disoccupati, le prigioni si svuotarono e la comunità di api finì per ridursi a un piccolo alveare. Come si evince soprattutto dai commentari, l’autore intendeva anzitutto offrire una rappresentazione schiettamente realistica della nascente società borghese, dei suoi meccanismi di funzionamento; forte delle sue conoscenze economiche, egli intendeva anche sottolineare l’inapplicabilità di una concezione morale rigoristica, fondata cioè sul principio della carità, in una grande società basata sul commercio e sul denaro, in cui l’accumulazione di ricchezza presuppone l’esistenza di milioni di «poveri che lavorano», mantenuti nell’ignoranza. Sulla base di tale cruda diagnosi, M. conclude l’apologo sollecitando una scelta tra due tipi di società: «la semplice virtù non può fare vivere le nazioni/nello splendore: chi vuole fare tornare/ l’età dell’oro, deve tenersi pronto/ per le ghiande come per l’onestà». Questa visione della società, in virtù della quale M. sostiene anche i principi del liberalismo economico, si inserisce in un’argomentazione di carattere più generalmente filosofico, che spiega in termini utilitaristici la morale, mostrando come essa derivi dalle modificazioni di una passione naturale (l’orgoglio o preferenza di sé), a loro volta finalizzate alla cooperazione sociale. Contro il libro, censurato dal Grand Jury del Middlesex, non mancarono repliche, tra le quali, oltre a quella di Berkeley, sono da ricordare quelle di W. Law, di J. Dennis e di J. Brown. Sulla sua concezione M. tornò a insistere nei Free thoughts on religion, Church, government (1720; trad. it. Liberi pensieri sulla religione, la Chiesa e il felice stato della nazione) e in A letter to Dion occasioned by his book called Alciphron (1732), in cui ribatteva alle critiche rivoltegli da Berkeley nel secondo dialogo del suo Alciphron (1732).