CAMPELLO, Bernardino
Nacque a Spoleto il 28 marzo 1594 dal conte Solone, giureconsulto, e dalla nobile Rotilia Capecio, terzogenito di dieci figli. Le vicende della sua famiglia, di origine assai antica, furono oggetto di studi appassionati da parte del C. che ne lasciò memorie dettagliate e storicamente attendibili. I primi anni della sua vita trascorsero tra la casa di Spoleto e la villa avita di Campello. Secondo la consuetudine dell'epoca studiò dapprima con precettori privati; s'iscrisse poi alla facoltà di legge di Perugia e ivi si laureò il 13 maggio 1615 nello stesso giorno del fratello maggiore Evandro. Fin da questi anni prese parte alla vita culturale di Spoleto, stabilendo stretti legami d'amicizia con i più noti letterati e studiosi del luogo e ricevendone lodi per i componimenti poetici e le dissertazioni religiose.
Nel 1620 e nel 1623 il C. fu tra i Priori di Spoleto, carica che tuttavia non gli impediva di assentarsi per lunghi periodi dalla città. Dal 1615 infatti aveva iniziato una serie di viaggi insieme con il fratello minore Giovanni che, per la profonda affinità spirituale che li accomunava, divenne da allora suo inseparabile compagno. Nei primi mesi del 1623 il C. ottenne un impiego a Roma presso la Dataria apostolica quale auditore nella Congregazione dei vescovi e dei regolari. Non è noto se fin da giovanetto o solo in tale occasione vestisse l'abito ecclesiastico che l'ufficio comportava. Pochi mesi dopo questa nomina moriva Gregorio XV e gli succedeva con il nome di Urbano VIII Maffeo Barberini che, quale vescovo di Spoleto, conosceva personalmente e stimava il Campello. Da lui il C. fu destinato a compiti di natura politica ed inviato l'anno successivo (1624), quale auditore del nunzio pontificio mons. Lorenzo Campeggi, a Torino presso la corte sabauda. Ebbe inizio allora la collaborazione tra il C. ed il Campeggi che, apprezzando le doti di abile diplomatico del suo auditore, lo volle sempre con sé, fino alla fine dei suoi anni.
Nella Relazione sulla nunziatura di Savoia che redasse per ordine del nunzio il C. oltre a fornire un quadro dettagliato della situazione politica del ducato, con particolare riguardo ai rapporti fra il duca e la Chiesa, per cui la relazione costituisce una preziosa fonte storica, si diffonde sulla propria attività rivolta, oltreché alle mansioni strettamente giurisdizionali inerenti all'ufficio, a incarichi diplomatici di varia natura.
Fra questi fu particolarmente delicata la missione di svolgere trattative tra il principe di Masserano e i sudditi ribelli di Crevacuore e Masserano, che era feudo pontificio. Il C. portò a buon esito l'incarico, contribuendo da un lato ad un riaffermarsi del potere della Chiesa sulle terre del Masserano, dall'altro all'appianarsi di una vertenza che aveva dato luogo ad eventi fra i più gravi del ducato di Carlo Emanuele I. In questa occasione, a quanto egli stesso ci racconta, sfuggì ad un attentato e chiese poi, ed ottenne, clemenza per il reo. Nel 1627 il C. ed il Campeggi vennero richiamati a Roma, per essere inviati poco dopo a Urbino, alla corte di Francesco Maria II Della Rovere.
Le difficoltà di questa nunziatura furono anche maggiori di quelle della precedente. Mentre in Piemonte infatti la S. Sede doveva opporsi alle mire accentratrici del duca, qui si trattava di governare uno Stato che, già sostanzialmente ceduto alla S. Sede, sarebbe però stato formalmente devoluto ad essa solo alla morte del duca.
In questa occasione il C. ebbe modo di mettere in luce le sue capacità diplomatiche, e secondo quanto egli afferma nel suo fitto epistolario, fece da mediatore tra il vecchio duca amareggiato e diffidente, e il prepotente Urbano VIII. Fu anche uno dei tre auditori cui competeva il potere esecutivo dopoché il pontefice, violando il patto con Francesco Maria II, aveva sostituito con questi magistrati di sua nomina il Consiglio degli otto, di elezione cittadina. Alla morte del duca (28 apr. 1631) fu attuata formalmente la devoluzione del ducato urbinate alla S. Sede mediante la redazione di una serie di documenti la cui stesura fu affidata al C. che, a tale scopo, rimase nel ducato di Urbino alle dipendenze del cardinale Antonio Barberini, inviato in luogo del Campeggi.
L'anno successivo il C. seguì nuovamente il Campeggi che era stato inviato a Madrid quale legato straordinario. Per due anni ricoprì la carica di protonotario apostolico; poi, divenuto il Campeggi nunzio ordinario, ebbe nuovamente la carica di auditore; raggiunse infine la dignità di internunzio quando l'8 ag. 1639 morì il Campeggi.
L'atteggiamento filofrancese di Urbano VIII determinò una forte tensione politica tra S. Sede e Spagna, rendendo inevitabilmente ardui i compiti della nunziatura in quegli anni. Il C., impegnando a fondo la propria abilità, riuscì ad osteggiare l'affermarsi di un partito dissidente dalla S. Sede presso la corte spagnola e ad evitare che già allora la Spagna avocasse la facoltà di conferire i benefici ecclesiastici siti nel proprio territorio.
Il successo delle sue iniziative ed il favore di cui godeva sia presso il pontefice sia presso la corte spagnola non impedirono tuttavia che il C. improvvisamente, verso la fine del 1639, manifestasse il desiderio di ritornare in Italia e di abbandonare la carriera diplomatica.
La decisione destò forte meraviglia nel suo ambiente, apparendo soprattutto inopportuna in un momento in cui il C. stava per conseguire i frutti del lungo ed abile servizio e fu deplorata dallo stesso Urbano VIII. Fra le ragioni che la determinarono la morte recente del fratello Evandro, che non aveva lasciato prole, e la conseguente acquisizione della primogenitura da parte del C. ebbero certo un peso rilevante; ma dal contenuto delle lettere che il C. scrisse in quelle circostanze si può arguire che la scelta fu dettata anche da motivi interiori di dissidio con la politica papale che ripugnava alla sua coscienza schietta e sinceramente religiosa.
Deposto l'abito ecclesiastico, il C. fece ritorno a Spoleto insieme con il fratello Giovanni il 31 dic. 1639. Pochi mesi dopo (13 giugno 1640) si unì in matrimonio con la diciottenne Vittoria Pagani di nobile famiglia spoletina, iniziando una vita dedita completamente agli studi, alle cure ed agli affetti famigliari.
La nascita di Solone nel 1641 e nel 1643 di Paolo fu seguita nel breve arco di dieci anni da quella di altri sei figli, di cui quattro morirono infanti. Gravissimi lutti famigliari si susseguirono in questi anni: il 7 ott. 1649 morì Giovanni "figlio insieme a fratello"; il 2 maggio 1651 "per una puerile influenza di rosolia" gli mancò la moglie. Neppure in queste circostanze il C. volle allontanarsi dalla sua casa e dai suoi studi. Ricevette offerte di altissimi impieghi, ma le rifiutò fermamente. Né accettò la dignità episcopale di cui Alessandro VII, non appena fu salito al soglio pontificio, lo avrebbe voluto insignire.
Solamente nel 1657, giuntagli notizia che presso il granduca di Toscana esistevano due uffici vacanti, il C. si prodigò per ottenerne uno. Né gli fu difficile conseguirlo, dal momento che patrocinarono la sua richiesta eminenti personaggi come i cardinali I. Cibo e C. Facchinetti e infine la stessa granduchessa di Toscana. Dall'8 gennaio al 5 dic. 1658 il C. risiedette alla corte fiorentina con la carica di auditore di Consulta. Ma, allontanatosi da Firenze per un temporaneo soggiorno nei luoghi nativi, non vi fece più ritorno nonostante le vive insistenze di Ferdinando II e della corte, adducendo motivi di salute. Tornato a Spoleto, riprese la vita che gli era più congeniale, tutta dedita agli studi ed alla famiglia, consentendo ad assumere pubbliche cure solo se si trattava della propria città.
Fin dalla prima giovinezza il C. si era dedicato agli studi umanistici, scrivendo poesie per lo più in volgare, numerosi componimenti di contenuto religioso, pubblicati poi con il titolo di Discorsi sacri (Macerata 1670). Nel 1623a Venezia si stamparono due sue tragedie, l'Albesinda e la Gerusalemme cattiva che non passarono inosservate ai letterati dell'epoca come A. Zeno e I. Affò. Si ha notizia di alcuni altri drammi come la Teodora e Le Scozzesi, il cui testo è oggi perduto. Fra le sue opere poetiche vanno ancora ricordati l'Edipo, sorta di tragedia mitologica, e un breve poema epico in ottave rimasto incompiuto: La presa di Messico.
La consuetudine con le lettere permise al C. di divenire uno dei più illustri membri dell'Accademia spoletina degli Ottusi di cui, dopo il ritorno dalla Toscana, fu anche principe. Come socio di questa accademia, inopinatamente offesa da G. B. Marino, il C. scrisse uno dei suoi saggi critici più notevoli: Esame di alcune opere del cavalier Marino. L'opera, nonostante i suoi ripetuti tentativi, non poté essere pubblicata per l'opposizione di potenti amici del poeta. Per un caso singolare una copia di essa finì nelle mani del padre A. Aprosio che, pur essendo fra gli ammiratori più accaniti del Marino, condivise gli attacchi critici del C. e iniziò con lui una calda amicizia epistolare.
La notorietà del C. fra i contemporanei è provata da un'amplissima corrispondenza con molti degli esponenti più illustri della società letteraria del tempo: A. Magliabechi, O. Rinuccini e F. Redi, con cui partecipò all'Accademia degli Apatisti di Firenze; G. F. Loredano che lo accolse fra i soci dell'Accademia degli Incogniti di Venezia; V. Armanni, E. Tesauro e perfino J. Kepler, per non citarne che alcuni.
Negli ultimi anni della sua vita il C. ebbe cura di raccogliere in un voluminoso carteggio non solo le lettere ricevute, ma anche copia delle proprie e talvolta gli originali che cercò di riavere dai suoi corrispondenti. Oltre ad essere la testimonianza di un'epoca, il carteggio è considerato una preziosa fonte storica da L. von Pastor per ciò che concerne la storia di Urbino e si può presumere che sia altrettanto valido sussidio per la conoscenza di quelle vicende e situazioni nelle quali il C. ebbe parte.
Meglio che nella poesia, dove non si distinse dal tipo di letterato erudito caratteristico del Seicento, il C. doveva riuscire negli studi storici che coltivò soprattutto in tarda età. Il frutto più insigne di questi interessi fu una Storia di Spoleti che è probabilmente la sua opera più valida e fu giudicata positivamente dallo stesso L. A. Muratori. Il suo modo di procedere nella ricostruzione storica fu attento e cauto; ricercò in archivi e biblioteche in modo instancabile e accuratissimo e consultò sempre coloro che egualmente versati negli studi storici pensava potessero giovare alla migliore puntualizzazione della sua materia. Non trovando un mecenate disposto a finanziare l'impresa, dovette provvedere a proprie spese pubblicando una prima parte dell'opera in edizione tipograficamente assai scadente (Storia di Spoleti, G. D. Ricci, Spoleto 1672), mentre la seconda rimase manoscritta, anche se fu di grande utilità ai successivi storici di Spoleto e dell'Umbria.
Il C. morì in Campello il 24 marzo del 1676.
Opere: Teodora e La presa di Messico furono parzialmente edite da A. Cristofani Della vita e degli scritti del conte B. di C., Assisi 1873; alcune lettere o brani di esse furono pubblicati da P. Campello della Spina, Storia documentata aneddotica di una famiglia umbra, I, Città di Castello s. d. (sul C. vedi pp. 311-90); la relazione sulla nunziatura in Savoia fu pubblicata da F. Pagnotti in Archivio della R. Soc. romana di storia patria, XVI (1893) pp. 447-500, con il titolo Relazione di una nunziatura in Savoia (1624-1627)scritta da B. C. uditore del nunzio a Torino.
Altre opere del C., rimaste inedite e conservate con il carteggio nell'archivio Campello della Spina, a Spoleto sono: di argomento giuridico, le Disceptationes civiles promiscui juris e il Prontuario di diritto civile e canonico;di argomento religioso, tre libri che illustrano i fasti religiosi della sua città, il De Ecclesia Spoletana ab ipso s. Petro fundata et de iurisdictione eiusdem Ecclesiae super finitimis civitatibus, il Sanctorum Spoletanae urbis vitae, l'Officia propria Sanctorum Spoletanae Diocesis, oltre a due opuscoli che trattano rispettivamente della passione di Cristo e della vita di s. Antonio da Padova. Compilò anche una Cronologia storica dalla nascita di Cristo ai suoi tempi; sbozzò in latino una storia della morte di Francesco Maria Della Rovere, che rimase incompiuta. A testimoniare i suoi interessi filologici rimane un Trattato delle proprietà della lingua toscana. Va ricordato infine il Radamanto, sorta di dialogo a tesi, in cui si prova che l'uccisione della persona amata si può attribuire a violenza d'amore.
Fonti e Bibl.: [G. F. Loredano], Le glorie degli Incogniti…, Venetia 1647, pp. 80-81; L. Jacobillo, Bibliotheca Umbriae..., Fulginiae 1658, p. 70; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Bologna 1739, ad Indicem;G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza italiana di G. Fontanini con le annotazioni di A. Zeno, II, Venezia 1753, pp. 247-248; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, Modena 1780, p. 260; A. Cristofani, Della vita e degli scritti del conte B. di C. ..., Assisi 1873; E. Bertana, La tragedia, in Storia dei generi letterari italiani, Milano 1904-1905, pp. 139-142, 190-191; V. Di Tocco, Ideali di indipendenzain Italia durante la preponderanza spagnola, Messina 1926, pp. 174-175; M. Maylender, Storia delle accademie d'Italia, IV, Bologna 1929, pp. 176-177; L. von Pastor, Storia dei papi..., XIII, Roma 1931, pp. 271 n. 2, 723; G. Moroni, Diz. di erud. stor. eccles., LIX, pp. 24, 60, 97, 119; LXXX, p. 71.