CAMPI (Campo), Bernardino
Nato a Cremona nel 1522, da un Pietro orefice e da Barbara. Non sappiamo se fosse parente degli altri Campi, ma il silenzio delle fonti più antiche (A. Campo, Lamo) sembra suggerire un'ipotesi negativa; un rapporto di parentela si stabilì più tardi, allorché una nipote del C., Margherita Biffi, sposò Claudio Campi, figlio di Antonio.
Dopo un avvio come orafo nella bottega del padre, il C. entrò nello studio di Giulio Campi e successivamente - trasferitosi a Mantova - in quello di Ippolito Costa (1538-39) operoso nella cerchia di Giulio Romano, allora attivo nella sala di Troia in palazzo ducale.
Nel 1541 il C. ritornò in patria e cominciò a lavorare in proprio. Cade a questo punto l'opera più antica ricordata dal Lamo, gli affreschi (perduti) di casa Trivulzio a Formigara (Storie di Minerva, Battaglia navale, Assalto a una fortezza) che valsero al C. una precoce fama. Subito dopo l'artista eseguì per incarico del vescovo e umanista G. Vida le ante dell'organo del duomo di Alba (su disegno di Giulio Campi, 1541). Del 1542 sono la paia dell'Assunta di S. Agata in Cremona e gli affreschi della chiesa di S. Bassano a Pizzighettone (fra cui una grande Crocifissione nella facciata interna).
Questo primo gruppo di opere - alle quali va aggiunta la Madonna in trono e santi della Pinacoteca di Cremona (1548, già in S. Francesco) - permette di intendere la ricchezza delle componenti formative dell'eclettismo del C. (da Giulio Campi a Giulio Romano, dal Parmigianino al Primaticcio e a Camillo Boccaccino) che tende ben presto a comporsi in una cifra manieristica elegante e misurata, che caratterizza un percorso stilistico quanto mai alieno da svolte o impennate. In particolare, decisiva appare la suggestione delle arditezze parmigianinesche di Camillo Boccaccino (affreschi di S. Sigismondo) che tuttavia il C. interpreta con "un temperamento addolcito e come cristianizzato" (Longhi).
L'accostamento al Boccaccino si riflette in modo chiarissimo nella volta della cappella dei SS. Filippo e Giacomo, appunto in S. Sigismondo, eseguita dal giovane C. nel 1546, grazie all'interessamento del Boccaccino stesso (Lamo) di cui forse l'artista poté utilizzare idee e disegni. Il suo rapporto con il Boccaccino è, del resto, sottolineato dalla notizia riferita dal Lomazzo che il C. aveva scritto una biografia (ora perduta) del Boccaccino. Delle vicende e dell'attività del C. (ad esclusione dei suoi anni estremi) ci ragguaglia con dovizia di particolari il Lamo nel suo Discorso pubblicato nel 1584. La sua rapida fortuna appare legata alla sua particolare valentia nel genere del ritratto: il C. fu invitato per eseguire ritratti a Piacenza dai Pallavicini, a Milano da Alessandro Sesto e - poco dopo - dalla principessa Isabella di Molfetta moglie del governatore Ferrante Gonzaga (1550). Il successore del Gonzaga, Francesco Ferdinando d'Avalos marchese di Pescara, nominerà il C. nel 1562 suo "famigliare e gentiluomo" (e già nel 1554 Ippolita Gonzaga lo aveva parimenti creato suo "famigliare" dopo essere stata ritratta da lui e avergli commesso le copie dei Ritratti degli uomini illustri conservati a Como nella collezione di monsignor Giovio). La ritrattistica del C., che sembra dunque costituisse la parte più prestigiosa della sua attività artistica (il Lamo ne ricorda più di cento esempi), ci è purtroppo pressoché sconosciuta.
Oltre a inserti ritrattistici nei dipinti sacri (i committenti nell'Assunta di S. Agata e nella Crocifissione dellabadia di Fiesole), solo un ritratto veniva riconosciuto del C.: il Prospero Quintavalle, già a Vienna e nel 1939 in collez. olandese (Bocconi), identificato dal Frimmel (1908) con quello descritto dal Lamo come eseguito prima del 1557 (e un'antica scritta nel verso del dipinto - oltre al nome dell'artista e del ritrattato - porta la data 1556). A questo, si è proposto di aggiungere il Francesco Sfondrati al Museum of Fine Arts di Boston (E. Tietze-Conrat) e un Ritratto di donna nel Metropolitan Museum di New York (Fredericksen-Zeri). Il Quintavalle, canonico del duomo di Reggio, per ricompensa, spesò l'artista durante un viaggio a Piacenza, Parma e Modena, per studiare le pitture del Pordenone, del Correggio e del Parmigianino. Di certo, un riflesso della ritrattistica del C. si può cogliere nella squisita produzione di Sofonisba Anguissola, allieva del C. sin dal 1546 (il 28 apr. 1554 F. Salviati scriverà da Roma al C. una lettera - riportata dal Lamo - in cui gli esprime ammirazione in egual misura per le sue opere milanesi e per esser egli stato maestro dell'Anguissola: "la bella pittrice cremonese vostra fattura").
Delle numerosissime opere milanesi (oltre ai ritratti, affreschi in case private) rimangono solo alcune pale d'altare, fra cui la Trasfigurazione di S. Maria della Scala (ora in S. Fedele; disegno nel Teyler's Museum di Haarlem), la Vergine col Bambino e santi in S. Antonio Abate (opere entrambe datate 1565), la Circoncisione (1572) e la Deposizione (1573) di Brera, e l'Assunzione di S. Alessandro. A tali opere è possibile aggiungere la grande Crocifissione su tavola della badia di Fiesole (deposito degli Uffizi), in cui lo Zeri (1953) ha riconosciuto l'ancona eseguita dal C. per la scuola dei Genovesi in Milano - come scrive il Laino - per incarico di Tommaso di Marino (effigiato ai piedi della croce) intorno al settimo decennio. Nella maniera lucida e cristallizzata del C. sembra riflettersi, a questo punto, una forte suggestione "romanistica", fiamminga, che lo Zeri connette a una possibile presenza in Cremona di Frans Floris durante il viaggio italiano. La ricerca del C., più che mai aliena dai coevi tentativi naturalistici di Antonio e Vincenzo Campi, appare raggiungere una singolare mistione di eleganza parmense (alla Mazzola Bedoli) e di tagliente "verità" fiamminga. Alla formulazione di tale difficile misura non dovettero, del resto, essere estranei i continui rapporti dell'artista con i Gonzaga e con il capzioso gusto classicistico da essi alimentato.
Nel 1560 il C. - rinunciando alla commissione delle ante dell'organo del duomo di Milano (vedi per questo Annali del Duomo, IV, Milano 1881, pp. 32, 34, 56) - accompagnò a Mantova il marchese di Pescara ed eseguì per lui le copie degli undici Cesari di Tiziano (aggiungendo di suo il busto di Domiziano). Negli anni successivi il C. dovette eseguire altre quattro serie dei Cesari, per incarico dell'imperatore, del duca d'Alba e di altri committenti (una di tali serie, del Museo di Capodimonte a Napoli, è stata smembrata dando due Cesari in consegna a Villa Rosbery). Del 1567 sono gli affreschi nel Castello Trivulzio (poi Trecchi) a Maleo. Il 30 luglio del 1568 il C. scrive a Vespasiano Gonzaga inviandogli una S. Cecilia:è questa la prima testimonianza dei rapporti dell'artista con la corte di Sabbioneta. Dello stesso anno è un viaggio a Genova.
Rientrato in patria (1568) dopo il soggiorno milanese e i numerosi viaggi (si sono ricordati solo i più importanti), il C. iniziò una intensa attività per le chiese di Cremona e del suo territorio. Per S. Sigismondo dipinse S. Cecilia e s. Caterina (1568), S. Girolamo e s. Antonio, S. Filippo e s. Giacomo;per S. Michele una Natività (1568); per il duomo un gruppo di sei tele (1569) e un affresco, nel coro, con l'Ingresso di Cristo in Gerusalemme (1573). Da ricordare anche due pale eseguite per S. Maria della Croce in Crema (1575-76) e altre due per i marchesi Stampa di Soncino. L'impresa di gran lunga più prestigiosa di questo periodo è l'affresco del tiburio di S. Sigismondo con la Gloria del Paradiso (1570), in cui la maniera del C. tocca un'insolita e magniloquente dimensione illusionistica (forse corroborata dagli esempi del Tibaldi). Nella stessa chiesa appartengono al C. altri affreschi: i due Profeti nella campata mediana (1554), il fregio di Putti lungo la navata, le grottesche nella volta.
Nel 1571 il C. esegue - per conto di Niccolò Lecco-gli affreschi nella cappella del Sacramento annessa alla parrocchiale di Caravaggio. Nel 1577 il priore della Certosa di Pavia (che già aveva incaricato l'artista di finire l'Assunta lasciata incompiuta dal Solario) commise al C. la decorazione dell'oratorio del castello di San Colombano al Lambro, proprietà dei certosini. Demolito l'oratorio nel 1846, sopravvivono solo la pala con la Crocifissione nella parrocchiale di San Colombano e alcuni affreschi frammentari, divisi fra la stessa parrocchiale (Cena in casa di Simone, Cristo e la Maddalena), il castello di Belgioioso (Deposizione)e la Pinacoteca di Brera (lesene decorative). In San Colombano il C. dovette rimanere diverso tempo (l'ultimo pagamento è del settembre 1581) anche perché la moglie vi possedeva beni e forse una casa. A questo periodo dovrebbe appartenere la pala - firmata - con l'Orazione nell'orto ora nel Museo civico di Pavia (Arte a Pavia, Pavia 1966, pp. 80 s.) forse in antico nella chiesa dei Cappuccini di Melegnano (indicata dalla Perotti fra le opere disperse: p. 108); evidente il rapporto con il Cristo nell'orto di Antonio Campi (1581) nella Pinacoteca Arcivescovile di Milano (Dell'Acqua, p. 713). Qualche tempo dopo troviamo il C. a Sabbioneta (1582) al servizio di Vespasiano Gonzaga Colonna, come coordinatore di un folto stuolo di artisti intenti ad abbellire lapiccola e preziosa capitale (fra essi, spiccano il plasticatore Alberto Cavalli, il Fornaretto, P. M. Pesenti).
L'opera diretta del C. riguardava sia il palazzo ducale sia il palazzo del Giardino. Nonostante la distruzione o il deperimento di gran parte delle decorazioni, possiamo ancor oggi individuare la presenza del C. (che sembra trovare a Sabbioneta una nuova freschezza) in numerosi affreschi dei due palazzi: ad esempio nel gabinetto di Diana (Diana e Endimione)e nella sala degli Equestri (fregio) in palazzo ducale; ma soprattutto al Giardino: la Venere nel soffitto del gabinetto di Venere, le ariose composizioni della sala degli specchi (su temi suggeriti forse dal duca); il Soggiorno in campagna, la Passeggiata, l'Imbarco, la Caccia (per alcuni disegni riferentisi agli affreschi del palazzo del Giardino, ad Amburgo e in Inghilterra, vedi Italian 16th Cent. Drawings from British Collections, Edinburgh 1969, n. 19).
La situazione sembra riproporsi di lì a poco (1587), allorché Ferrante II Gonzaga invita il C. alla corte di Guastalla per dirigere gli artisti impegnati a decorare il palazzo ducale. La nuova esperienza fu, in realtà, meno felice per l'ostilità degli uomini di corte e per la lontananza di Ferrante, recatosi con la sposa Vittoria Doria nei feudi di Serracapriola e di Molfetta. Il C. aveva affrescato nel palazzo le Storie di Ercole e le Storie di Troia (perdute) ed eseguito - fra altre cose - una nuova serie, la sesta, dei ritratti dei Cesari.
In appendice al Discorso il Lamo pubblica il Parere sopra la pittura, breve trattato del C., che dice di essersi deciso a scriverlo su istanza di Antonio da Udine, Vincenzo da Caravaggio e Brandimarte Della Torre. Da esso si ricavano preziose indicazioni sui procedimenti operativi dell'artista (l'uso, per esempio, di modellini di cera per studiare le figure, le luci e gli scorci). Interessanti, anche le lettere del C. al duca (febbraio 1587-novembre 1590) pubblicate dal Campori, dal Sacchi, dal Ronchini e dal Sommi Picenardi (1880).
Il 20 apr. 1589 i canonici di S. Prospero in Reggio affidarono al C. i due riquadri del coro della cappella maggiore, che l'artista terminò di affrescare nello stesso anno: la Caduta di Jezabele e la Resurrezione del figlio della vedova di Naim, tutt'ora in loco. Pur non essendo entusiasti del lavoro del C., non trovando di meglio, i canonici affidarono a lui il completamento degli affreschi della cappella maggiore; ma quando il pittore aveva appena cominciato a lavorare, morì il 18 ag. 1591 (Campanini, 1889). Fu sepolto nella stessa chiesa.
Il C. lasciò una figlia che aveva sposato il suo allievo G. B. Trotti detto il Malosso. Nel 1564 aveva sposato Anna Longaroni (da vedova si ritirò a San Colombano) che Sofonisba Anguissola ricorda con grande tenerezza in una lettera dalla Spagna del 1551 (Lamo). Alla stessa pittrice dobbiamo uno stupendo ritratto dell'artista (Pinacoteca di Siena). Fra i numerosissimi suoi allievi - oltre alle sorelle Anguissola - sono da ricordare, accanto al Malosso (che ebbe in dono la bottega cremonese del maestro fin dal 1574), A. Mainardi detto il Chiaveghino e - come testimonia un documento milanese del 1550 - Raffaele Crespi, padre del Cerano.
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