CARVAJAL, Bernardino Lopez de
Nacque a Plasencia (Caceres) in Estremadura l'8 sett. 1456 da Francesco e Aldonca de Sande.
Nipote di quell'abilissimo diplomatico ed austero ecclesiastico che fu il cardinale Giovanni Carvajal, morto nel 1469, il C. studiò teologia a Salamanca, conseguendo il baccellierato nel 1472, il dottorato nel 1478 e il titolo di magister theologiae nel 1480. Recatosi a Roma, in data non precisabile, per difendervi i suoi diritti al canonicato dottorale di Plasencia, il 1° nov. 1482 lesse alla presenza di Sisto IV e dei cardinali il Sermo in die omnium Sanctorum e già all'inizio del 1484 lo troviamo designato come cubicularius del papa. Nel mese di settembre 1485 dà una prima pubblica dimostrazione dell'impetuosità del suo carattere durante una lite con l'oratore spagnolo dalla quale esce "ruptis oculis et naris" (Paschini, Il carteggio..., p. 121).
Il 19 sett. 1485 il C., cameriere segreto e notaio apostolico, viene inviato in Spagna come nunzio per esplorare l'intenzione di Ferdinando di schierarsi o meno al fianco di Ferrante d'Aragona contro le pretese angioine su Napoli e per trovare una soluzione alle controversie sorte intorno alle rendite ed agli "spogli" delle diocesi vacanti di Coria e Oviedo. Vi rimarrà, sebbene nel dicembre dello stesso anno se ne solleciti il ritorno, fino al gennaio del 1488 ed accanto alle funzioni di nunzio eserciterà anche quelle di collettore della Camera apostolica, occupandosi della riscossione del "sussidio" dei re spagnoli per la crociata contro il Turco, e dell'esazione degli "spogli" delle diocesi di Badajoz, Ciudad Rodrigo e Cordoba (le rendite di quest'ultima vengono concesse a Ferdinando e Isabella per la guerra contro i Mori). Rientrato in Italia all'inizio del 1488 (l'ultima annotazione sui libri degli Introitus et Exitus che si riferisca al C. è del 21 genn. 1488: cfr. J. Fernandez Alonso, Nuncios, colectores... en España de 1474 a 1492, in Hispania sacra, X [1957], p. 90), fungerà, insieme a Juan Ruiz de Medina, da ambasciatore dei re cattolici (le istruzioni, nelle quali ci si rivolge a lui con i titoli di protonotario e arcidiacono di Toro, sono dell'8 febbraio del 1488).
Sul piano della politica ecclesiastica, gli ambasciatori dovranno sensibilizzare Innocenzo VIII prima e Alessandro VI poi sui problemi maggiormente sentiti dai re cattolici: riforma ecclesiastica, nomina dei vescovi e Inquisizione. Si crea una certa tensione, riguardo all'Inquisizione, a causa del processo, che si svolge in questi anni, contro i familiari del vescovo di Segovia, Juan Arias de Avila, il quale fa ricorso a Roma, allarmando i re cattolici che vedono in questo gesto una seria minaccia ai poteri dell'Inquisizione spagnola e chiedono che sia vietato di appellarsi a Roma. Sul piano della politica internazionale, il C. e Ruiz de Medina sono chiamati a svolgere un ruolo di rilievo nell'intensissima attività diplomatica che precede la "calata" di Carlo VIII: nel maggio 1490 devono presentare le rimostranze dei loro sovrani a Innocenzo VIII che tenta di procurare la pace tra Francia e Inghilterra, senza preoccuparsi di farsi mediatore tra Spagna e Francia, nemiche per la mancata cessione del Rossiglione da parte della Francia. Nell'ottobre dello stesso anno Ferdinando conferisce ai suoi due rappresentanti ampi poteri per concludere un accordo, mediatore il papa, tra la Corona di Aragona e Genova; si adopereranno anche a favore di una riappacificazione fra Innocenzo VIII e Ferrante di Napoli.
Intanto, grazie all'interessamento dei re cattolici, il C. inizia la sua rapida e brillante carriera ecclesiastica: nominato vescovo di Astorga il 27 ag. 1488, viene consacrato il 21 dic. 1488 (prima di allora non era entrato in prelatura, come risulta da una questione di precedenza sorta il 10 giugno 1488 nella cappella Sistina fra lui e l'ambasciatore di Massimiliano a cui il C. aveva contestato il primo posto fra gli ambasciatori laici non prelati); il 23 genn. 1489 viene trasferito alla diocesi di Badajoz.
Nel marzo del 1490 organizza a Roma festeggiamenti per la presa di Granada e Paolo Pompilio gli dedica il suo carme panegirico De triumpho Granatensi. Il 13 sett. 1491 presiede la riunione della nazione ispanica nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli e viene eletto governatore della chiesa e dell'ospedale.
Morto il 25 luglio 1492 Innocenzo VIII, fu il P. a pronunziare il 6 agosto il discorso di apertura del conclave, in cui, prendendo le mosse dal passo di Michea (VII, 8): "Non rallegrarti nemica mia sopra di me; se sono caduta risorgerò", richiamava l'attenzione del Collegio cardinalizio sull'esigenza di riforma della Chiesa, la cui attuazione egli affidava - riecheggiando le teorie conciliari della prima metà del secolo - al concilio ecumenico che il futuro papa si doveva impegnare a convocare.
L'elezione di Alessandro VI non poteva che favorire la carriera e le ambiziose aspirazioni del suo connazionale cui, infatti, in quella contrastatissima creazione cardinalizia del 20 sett. 1491, fu conferita la porpora dapprima con il titolo dei SS. Pietro e Marcellino, poi (2 febbr. 1495) con quello di S. Croce in Gerusalemme. Gli era, inoltre, già stata assegnata (27 marzo 1493) la diocesi di Cartagena, che lascerà il 20 febbr. 1495 per quella di Siguenza (cui rinuncerà il 20 giugno 1519). Prima ancora di diventare cardinale, il C. ebbe una parte non irrilevante nella soluzione di uno dei problemi che il papa neoeletto dovette affrontare: fu grazie al suo intervento che, nella controversia sorta tra Spagna e Portogallo circa la spartizione dei territori recentemente scoperti, la Spagna riuscì ad ottenere nel maggio del 1493 tre atti pontifici ad essa molto favorevoli.
Il primo incarico di qualche importanza affidatogli dopo la creazione cardinalizia fu la legazione di Anagni, di cui si conservano i dispacci ad Alessandro VI dal 12 luglio al 12 ott. 1494. Alla vigilia della discesa di Carlo VIII il C. avrebbe dovuto distogliere Ascanio Sforza, cardinale vicecancelliere, dalla politica filofrancese del fratello Ludovico il Moro, ed ottenere da lui che Francia e Milano cessassero di assumere al loro servizio i feudatari della Chiesa nel basso Lazio e nella Campania pontificia e, tra questi, isolare dai suoi parenti Francesco Colonna, che era signore di Palestrina. Ma, anche se nella sua duplice veste di legato pontificio e di ambasciatore spagnolo (ci si riferirà a lui esplicitamente come ambasciatore ancora nel giugno del 1495, sebbene nel febbraio del 1494 fosse stato inviato Garcilaso de la Vega) poteva minacciosamente dichiarare che i re cattolici non avrebbero mai tollerato un'aggressione allo Stato della Chiesa, dovette presto convincersi della superiorità militare dei Francesi e cedere loro il passo verso il Regno di Napoli, da oltre due secoli oggetto di contesa tra Aragonesi e Angioini. Rientrato a Roma, il C., salvo due brevi legazioni (per scortare Ferrandino da Terracina a Roma nell'ottobre del 1494 e Carlo VIII durante il suo passaggio nello Stato pontificio di ritorno da Napoli nel maggio del 1495), vi rimarrà durante tutto il 1495 e la prima metà del 1496, come è confermato dal Diario del Burckard, che a lui si rivolge spesso per consigli di carattere protocollare (ed a lui dedica il suo Ordo missae);sicché quando morì, a giusta ragione Paride de Grassi segnalò la presenza del cardinale ai funerali (17 maggio 1506), definendolo "quasi alter magister cerimoniarum" (Burckard, III, p. 428).
Il 6 luglio 1496 il C. fu nominato legato alatere a Massimiliano che veniva in Italia con un piano di guerra contro i Francesi. Partì da Roma il 29 luglio accompagnato da Tommaso Inghirami e dal maestro delle cerimonie Burckard che ha lasciato un resoconto particolareggiato del viaggio e dell'incontro, il 31 agosto, a Meda con Massimiliano. Da Milano, dove era ospite di Ludovico il Moro, il C. si recò a Vigevano, a Genova e a Como per sollecitare il sovrano, di fronte alla minaccia di una nuova discesa del re di Francia, a rimanere in Italia. Ma abbandonato da Venezia e dallo Sforza, Massimiliano alla fine dell'anno tornò in Tirolo. Anche il cardinale, fallito, per la tenace opposizione di Ascanio Sforza e di Ludovico il Moro, il progetto del Borgia di farlo proseguire per la corte di Francia quale legato pro pace, fece ritorno a Roma nel marzo del 1497.
Negli anni che seguono il C. rimane a Roma e sembra si possano cogliere nelle fonti coeve indizi di un graduale. deterioramento dei suoi rapporti con Alessandro VI.
Un primo motivo di disaccordo sorge con lo scioglimento del matrimonio di Ladislao d'Ungheria e Beatrice d'Aragona, cui si oppone il C. che nel concistoro del 24 luglio isoo viene ridotto al silenzio dal Borgia "sub poena excommunicationis". Ma il contrasto si fa più palese al momento della calata di Luigi XII in Italia alla conquista del ducato di Milano, con l'appoggio di Venezia e di Alessandro VI. La politica del cardinale, favorevole agli interessi del Moro, irrita il papa, che giunge a raccomandare ai Veneti di guardarsi dalle sue mene e a dettare all'oratore veneziano Paolo Cappello le seguenti considerazioni su di lui: "El reverendissimo Santa Croxe è catholico, savio, e à a cuor l'impresa contra infidelli; tamen è amico dil signor Lodovico e di Ascanio; e il papa ha ditto: A' preso la conza quando fo legato a Milan; in reliquis è nimicho nostro, e il papa li à dà la colpa a lui e a l'orator yspano, che l'arma' non sia venuta..." (Sanuto, III, col. 844). Anche nella questione savonaroliana, pur nella scarsità delle informazioni, l'atteggiamento del C. appare sostanzialmente in contrasto con quello del papa. Ciò si desume dalla deprecazione espressa dal card. di S. Croce, insieme ad altri cardinali, dopo aver ascoltato la predica violentemente antisavonaroliana della prima domenica di quaresima del 1498 del generale degli agostiniani Mariano della Barba da Genazzano, "capo et auctore" della scomunica del 13 maggio 1497 contro il Savonarola; e dal fatto che, quando il card. Oliviero Carafa, protettore dell'Ordine domenicano, sentendosi compromesso, lasciò improvvisamente Roma nell'aprile del 1498, fu proprio al C. che chiese di sostituirlo nella sua carica di protettore e fu in questa qualità che il cardinale spagnolo prese le difese dei frati di S. Marco in una lettera alla Signoria del 22 luglio 1498.
È lecito chiedersi se l'astuto cardinale di Santa Croce non prendesse fin da allora le distanze dall'odiato Borgia per non precludersi la via al pontificato. Ed è alla vigilia della morte di Alessandro VI, più precisamente tra la Pasqua e l'Ascensione del 1502, che si colloca una vicenda alquanto oscura in cui egli fu coinvolto e di cui non si posseggono per ora che pochi elementi.
Insieme al generale dei minori Egidio Delfini, il C. (protettore dell'Ordine da quando era vescovo di Cartagena) presiedette nella chiesa di S. Pietro in Montorio all'apertura del volume sigillato delle profezie del beato Amadeo, l'Apocalypsis nova. Esecutore materiale di questa apertura fu fra' Giorgio Benigno Salviati (Juraj Dragišić), il quale nei mesi seguenti, in casa del C. (al seguito del quale lo troviamo dal 1500 - a Terni, dove il cardinale presiedette il capitolo dei minori in cui vennero approvate le costituzioni alessandrine - al 1507, quando lo accompagnò nella sua legazione in Germania), avrebbe rielaborato il primo nucleo delle rivelazioni dell'Amadeo e provveduto alla diffusione di quel nuovo testo destinato ad avere un'enorme fortuna nel sec. XVI. Se non vi sono prove che il C. abbia preso parte a questa rielaborazione e se le analogie fra l'Apocalypsis nova ed alcune sue opere - in particolare l'Oratio in die Circumcisionis dominicae e il Sermo in die omnium sanctorum - possono essere ricondotte ad un comune repertorio di temi teologici (Morisi, pp. 36 s.), va, tuttavia, rilevato che un contemporaneo, il francescano Mariano da Firenze, dichiarò che il C. credette di essere il futuro "papa angelico" designato dall'Amadeo e che questa convinzione lo indusse in seguito a ribellarsi a Giulio II convocando il "conciliabolo di Pisa" (Wadding, XIV, pp. 371 s.). Ora, sebbene non sia possibile identificare il pastore angelico annunciato dalla profezia con il cardinale spagnolo, uomo d'azione, interessato ad un rinnovamento politico-morale della Chiesa, piuttosto che teologico, sarebbe interessante poter determinare in che misura l'interpretazione della profezia pseudo-amadeita si ripercuotesse sui due conclavi dell'autunno del 1503 in cui vennero in urto le opposte ambizioni del d'Amboise e del C., fin quando non fu raggiunto l'accordo su Giuliano Della Rovere (Vasoli, pp. 99 s.).
Appena eletto pontefice, Giulio II affidò al C. (dal 30 dic. 1503 patriarca di Gerusalemme), che peraltro si mostrava alquanto reticente, la custodia di Cesare Borgia, in attesa della restituzione delle rocche di Cesena, Bertinoro e Forlì. Il 16 febbr. 1504 il Valentino fu rinchiuso a Ostia, dove lo raggiunse l'indomani il C., il quale avrebbe dovuto sorvegliarlo e rilasciarlo soltanto al termine di 40 giorni e a consegna avvenuta delle rocche. Tuttavia, restituite Bertinoro e Cesena e pagata la cauzione per Forlì, il C., impaziente di tornare a Roma e di disfarsi dello scomodo prigioniero, senza attendere l'autorizzazione del papa, né lo scadere dei 40 giorni, il 19 aprile, con l'aiuto di Consalvo di Cordoba, lasciò libero Cesare che fuggì a Napoli. Questo gesto di insubordinazione del cardinale irritò non poco Giulio II che se ne lamentò in un breve ai re cattolici (Alvisi, pp. 589-591), e marcò l'inizio di rapporti che col tempo erano destinati a diventare burrascosi. Quando, nel dicembre del 1505, il C. si oppose alla creazione di diciannove nuovi cardinali, Giulio II replicò minacciando di farne trenta. Fu forse la crescente tensione dei suoi rapporti con il papa a fargli prendere in considerazione la possibilità di un viaggio in Spagna, che tuttavia non si concretò. Ma allorché il papa lasciò Roma nell'agosto del 1506 seguito da tutti i cardinali, il C. vi rimase "senza sua licenza" (Sanuto, VI, col. 404). Nell'aprile del 1507 chiese di potersi recare a Napoli per incontrarsi con Ferdinando il Cattolico, giuntovi il 29 ott. 1506, e trattare con lui "cosse sue particular", ibid., VII, col. 71): fu benevolmente accolto dal suo sovrano nella seconda metà di maggio.
Nel luglio 1507, quando parve sicura l'intenzione di Massimiliano di scendere in forze in Italia, Giulio Il nominò il C., "uno dei più fedeli aderenti di Massimiliano" (Pastor, III, p. 728), legato a latere, perché lo distogliesse da questo progetto e gli offrisse la corona imperiale nella stessa Germania per mano di due cardinali. Partito da Roma il 5 agosto, il cardinale si incontrò a metà settembre a Innsbruck con Massimiliano ed ebbe serrati colloqui con lui, pur alternati con frequenti battute di caccia in sua compagnia. Veline prontamente stipulata una alleanza difensiva con il pontefice contro Venezia, mentre soltanto quando Venezia negò a Massimiliano il passaggio sul proprio territorio il sovrano accettò di stringere una lega offensiva e difensiva contro Venezia con Luigi XII, che può essere considerata una anticipazione della lega di Cambrai. Nonostante i persistenti tentativi di Venezia di convincere il pontefice a richiamare il legato, il C. rimase alla corte di Massimiliano e ne seguì gli spostamenti fin nelle Fiandre dove, il 14 ott. 1508, a Malines, alla presenza di Massimiliano, Margherita d'Austria, Carlo e le sue tre sorelle, pronunciò un'omelia (che sarà edita da Juraj Dragišić, che lo accompagnò in questa legazione) e cresimò il futuro imperatore, che non aveva ancora otto anni.
Tuttavia, alla vigilia del convegno di Cambrai, venne richiamato a Roma, non tanto perché, come scrisse un informatore di Venezia, "le male sue operatione erano sì note al roy, che in questo convento primo et ante omnia ha voluto che 'l non intravegni ullo modo Santa Croce" (Sanuto, VII, col. 675), ma piuttosto per l'avversione di Giulio II ad entrare in una lega contro Venezia accanto a Luigi XII e al d'Amboise, dei quali diffidava.
Giunto a Roma il 14 genn. 1509, poco dopo il cardinale venne nominato membro, insieme ad Oliviero Carafa, Francesco Soderini, Alessandro Farnese, Lorenzo de' Medici e Luca di Pontremoli, di un "consiglio ristretto" di Giulio II, che il 23 marzo decise di entrare nella lega di Cambrai. Ma l'intesa con il pontefice sulla politica estera durò poco: nel febbraio 1510 il C. si oppose energicamente alla pace conclusa dal pontefice con Venezia ed alla sua assoluzione, considerandole contrarie agli interessi della lega e soprattutto di Massimiliano di cui si diceva fosse "schiavo", ibid., IX, col. 297). Pertanto, allorché il 17 ag. 1510 il Della Rovere lasciò Roma per dirigere personalmente la guerra contro Luigi XII e il duca di Ferrara, ingiungendo ai cardinali di accompagnarlo a Bologna, il C., insieme a Francisco de Borja, Briçonnet, Renato de Prie e Sanseverino, raggiunse Milano per sferrare un attacco sul terreno ecclesiastico contro il pontefice con l'aiuto di Luigi XII e di Massimiliano. I cardinali scismatici, capeggiati dal C. "el miembro mas destacado por sus dotes de inteligencia de todo el Colegio Cardenalicio" (Doussinague, p. 123), appoggiando il tentativo di Luigi XII di deporre Giulio II, ansiosi di creare condizioni favorevoli alle proprie sconfinate aspirazioni, convocarono per il 1° sett. 1511 un concilio che è poi passato alla storia con il nome di "Conciliabulum Pisanum". Si associarono a questa convocazione il re di Francia e l'imperatore. Ogni mediazione di Ferdinando V per addivenire ad un accordo fra il pontefice e i cardinali scismatici risultò vana e si giunse, quindi, contestando la validità della convocazione del "Pisanum", alla bolla del 18 luglio 1511 che indiceva il ouinto concilio lateranense e alla deposizione dei cardinali scismatici (24 ott. 1511). Il conciliabolo si aprì ugualmente il 1° nov. 1511 a Pisa sotto la presidenza del C., ma poco dopo dovette trasferirsi a Milano, dove, in territorio occupato dai Francesi, i partecipanti, in numero esiguo, potevano sentirsi più sicuri. Tuttavia, venendo a mancare quasi sull'inizio l'appoggio dell'imperatore e di Luigi XII, per i quali il "Pisanum" altro non era se non un'arma di ricatto contro Giulio II, ed avendo Ferdinando aderito al Lateranense, il "conciliabolo" perse ogni credibilità ed ogni seguito. Il C., costretto ad abbandonare frettolosamente Milano dopo la cacciata dei Francesi (dirà a Leone X di aver smarrito nella fuga precipitosa il libro dell'Apocalypsis nova e sarà smentito da un suo cameriere), trovò rifugio alla corte di Francia, dove ci si avvalse della sua abilità diplomatica per le trattative di pace con la Spagna, nella primavera dell'anno 1513. Base di queste trattative, come venne suggerito dal C., sarebbe stato il matrimonio di Renata di Francia con l'infante don Ferdinando, nipote del re, a cui. la principessa francese avrebbe portato in dote il ducato di Milano. Ma i negoziati fallirono per la mancata volontà di Luigi XII di concludere la pace con la Spagna.
Frattanto, a Roma, era morto Giulio II e gli era succeduto Giovanni de' Medici. Non essendo riuscito a farsi ammettere al conclave, nonostante le pressioni su Massimiliano, il C. giunse a Firenze in compagnia del Sanseverino nell'aprile del 1513, intenzionati entrambi a recarsi a Roma per essere reintegrati de iure nel Collegio cardinalizio. Leone X, tuttavia, pretese che si presentassero in concistoro privi delle insegne cardinalizie, vestiti da semplici preti, come penitenti. Il 17 giugno fu letta la loro abiura di fronte al concilio lateranense e il 27 il C. e il Sanseverino chiesero perdono in concistoro e furono loro restituiti le insegne e i gradi.
La reintegrazione dei due cardinali incontrò la forte opposizione di Ferdinando che li giudicava "muy franceses ... y en lo secreto enemigos de los que favorecenos la causa de la Yglesia" (Doussinague, p. 641). Non poco lo stupì inoltre il breve con cui papa Leone X gli comunicava la riabilitazione dei due cardinali, parlando di "espoliacion" fatta ai loro danni dal suo predecessore - quasi che vero concilio fosse stato quello di Pisa e "conciliabolo" il Lateranense (ibid., pp. 639-41). Si oppose anche alla restituzione ai due cardinali delle Chiese di cui erano vescovi prima della deposizione, ma non soltanto il C. rientrò in possesso della diocesi di Siguenza, ma non perdette neppure i diritti di anzianità e il 7-4 luglio1521 diventò vescovo di Ostia, titolo che spettava al decano del Sacro Collegio.
Le notizie per l'ultimo decennio della vita del C. sono frammentarie. Nel dicembre del 1515 accompagnò Leone X a Firenze. Nel gennaio del 1517, in una lite sorta tra romani e spagnoli di fronte alla casa del cardinale a Tor Millina, per poco non perdette la vita e dovette rifugiarsi a Castel Sant'Angelo. Il 16 marzo 1517 nell'ultima sessione del concilio lateranense cantò messa e l'oratore veneto non mancò di osservare che era stato lui a dire la prima messa al conciliabolo di Pisa (Sanuto, XXIV, col. 104). Il 4 nov. 1517 fu chiamato a fare parte di una commissione di otto cardinali che doveva esaminare la questione turca e che redasse un memoriale sulla necessità e possibilità dell'impresa e sui denari necessari. Durante la controversia reuchliniana i teologi coloniesi si rivolsero a lui perché intervenisse a favore dell'Hochstraten contro l'Augenspiegel di Reuchlin, e nella elaborazione della bolla Exsurge Domine contrastò la definizione dell'appello di Lutero al concilio come "gravissimo tra i suoi falli". Il 20 giugno 1519 Leone X gli concesse l'accesso alla chiesa di Plasencia, di cui divenne vescovo nel 1521.
Fu tra gli aspiranti al papato alla morte di Leone X, ma quando vide la sua candidatura scarsamente appoggiata, nonostante "con voce humile et effetti compasionevoli da spagnolo" avesse supplicato i cardinali "Domini mei reverendissimi! Accedatis, accedatis ad me!" (ibidem, XXXII, col. 413), sostenne quella di Adriano di Utrecht ed in attesa dell'arrivo del papa a Roma fu uno dei triumviri cui fu affidato il governo della Chiesa. Prese alloggio nel palazzo apostolico "ne la camera dil Papa, ita che al dispeto di tuto il mondo è stato doi fiate Papa" (ibid., XXXII, coll. 416 s. - nel dicembre del 1511 era infatti corsa voce che egli si fosse proclamato papa col nome di Urbano VII: ibid., XIII, col. 344). Il 28 dic. 1522, a S. Paolo fuori le Mura tenne al papa, appena giunto, un discorso in cui ricordò i mali di cui soffriva la Chiesa, governata da papi simoniaci, e tracciò un breve programma di riforma. Il 26 settembre gli era stata data in amministrazione la Chiesa di Foligno cui rinunció il 4 febbr. 1523 a favore del nipote Rodrigo de Carvajal. Gli fu anche affidato il processo contro il card. Soderini. Quando morì Adriano VI, il C. non aveva perso le speranze di diventare papa e, del resto, nonostante l'età avanzata, gli rimaneva una certa giovanile baldanza che gli fece dire, parlando dei Turchi, "25 spagnoli taierà a pezi turchi e venetiani apresso" (ibid., XXXV, col. 197) e beffeggiare un nobile romano che alle porte del conclave lo esortava a eleggere quanto prima un papa e ad osservare i canoni, replicandogli "che cosa era li canoni" ibid., XXV, col. 186). Fu eletto il card. Giuliano de' Medici che egli aveva osteggiato. Ma a due mesi da quella elezione, il 21 dic. 1521, il C. moriva a Roma e veniva sepolto a S. Croce in Gerusalemme.
Se il nome del C. rimane inevitabilmente legato al fallito "conciliabolo" di Pisa, che accreditò presso i contemporanei ed i posteri l'immagine di un uomo dalle sconfinate ambizioni e di grande arroganza e se questa sua smisurata sete di potere gli impedì di accorgersi di essere strumentalizzato per i loro fini politici di volta in volta da Ludovico il Moro, da Massimiliano e da Luigi XII, va ricordato che egli ai suoi tempi godette della fama indiscussa di uomo dalla grande intelligenza e dalla vasta cultura e dottrina, che gli valsero la dedica di numerose opere e di cui offrono testimonianza i suoi scritti: Sermo in dio omnium Sanctorum (Roma, Georg Herolt, 1482), Oratio in die Circumcisionis dominicae (Roma, Stephan Plannck, 1484). Sermo in commemoratione victoriae Bacensis (Roma, Stephan Plannck, 1490). Oratio de eligendo summo Pontifice (Roma, tipogr. del C., 1492), Oratio ad Alexandrum VI, nomine regum Hispaniae habita super praestanda solemni obedientia (Roma, Stephan Plannck, 1493), Epistola consolatoria in obitu Iohannis Hispaniae principis (Roma, Eucharius Silber, 1497), Homilia habita coram Maximiliano Cesare (Roma, J. Besicken, 1508), Epistola ad invictis. Carolum imp. super declaratione Maiestatis suae contra Lutherum facta (s.n.t., 1521), e Oratio habita quando Hadrianus papa ingressus est Urbem (pronunciata nel 1522, ma edita soltanto nel 1930 in Conc. Tridentinum, XII, pp. 18-21).
Né va trascurato il contributo all'arte del suo tempo. Egli curò, prima in quanto agente di Pedro Gonzales de Mendoza, cardinale titolare di S. Croce in Gerusalemme, poi in quanto titolare egli stesso, le opere di restauro di quella basilica. che dovettero essere grandiose, se i contemporanei così ne scrissero: "Poi a Santa Croce in Hierusalem, titolo dil reverendissimo Santa Croce, fabricha nova, fabricata per sua signoria, e tutavia si fabricha, et si lavorava alcune cornise et volti di alcune porte di una preda racolta da le antigaglie, di tanta extrema belleza, che certo un piiol pezeto de essa seria degno di legare in oro et portarlo per bellissimo anello" (Sanuto, XXXIV, col. 218). Di maggiore interesse la presenza del cardinale nella direzione dei lavori di rifacimento ed ampliamento (con elargizioni dei re cattolici) della chiesa e del monastero di S. Pietro in Montorio, concessi nel 1472 da Sisto IV al francescano Amadeo Menez de Sylva (lo pseudo-Amadeo dell'Apocalypsis nova), suo confessore.
Vi accenna lo stesso sovrano Ferdinando il Cattolico in due dispacci: uno del 23 sett. 1488 in cui raccomanda Jorge de Castellon che già vi lavorava e l'altro del 17 ag. 1498 in cui sollecita il compimento dei lavori che prega il C. di seguire con l'attenzione che ha avuto per il passato (A. de la Torre, III, p. 149; VI, p. 117). Appare evidente che queste notizie si riferiscono alla chiesa e al monastero, ma come si può non avanzare l'ipotesi che fosse proprio il C. a commissionare successivamente al Bramante la progettazione del tempietto? Egli aveva sostituito nel 1498 il vescovo Pedro de Aranda, caduto in disgrazia, nella direzione dei lavori di ampliamento della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli in piazza Navona, in cui è noto l'intervento del Bramante. Nulla, quindi, di più verosimile che dopo aver lavorato a S. Giacomo, Bramante ricevesse da parte dei reali di Spagna l'incarico di erigere il tempietto (ipotesi già avanzata da A. Bruschi, p. 859) per il tramite e dietro suggerimento del C., che oltre ad essere protettore dei minori, cui la chiesa apparteneva, doveva portare un singolare interesse per i luoghi in cui il beato Amadeo aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita (era morto nel 1482) ed in cui era stato gelosamente conservato il libro sigillato delle sue profezie, di cui nel 1502 ordinò l'apertura. Il nome del C. è legato anche ai lavori di adattamento del palazzo dei governatori di Tivoli, che precedettero quelli più famosi del cardinale Ippolito d'Este.
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