LUINI, Bernardino (Bernardino de Scapis)
Figlio di Giovanni Donato di Bernardo de Schapis, o Scapis, detto "Monlone", nacque a Dumenza, presso Luino, intorno agli anni 1481-82.
Il padre, nativo di Dumenza, risiedette a Milano dal 1469 al 1481, quando tornò nel paese natale e sposò Caterina Ravazzi. Morta questa prima moglie, Giovanni sposò, un anno e mezzo dopo, Caterina de Nibiis; ed è quindi da chiedersi se il L. sia da considerarsi figlio della prima o della seconda moglie (per questi primi dati biografici sulla famiglia del pittore e per i successivi, quando non diversamente indicato, si vedano Pini - Sironi, 1993, I, pp. 9-12; II, pp. 32 s.). Giovanni risiedette fino al 1489 a Dumenza, occupandosi dei poderi da cui inviava frutta e verdura al fratello Pietro che le vendeva a Milano.
Il padre rientrò a Milano nel 1500, ed è probabile che il L. lo abbia seguito. Il 19 febbr. 1501 l'artista è menzionato per la prima volta come figlio ed erede di Giovanni (ancora vivente); poco dopo, il 31 marzo 1501, figura, in un contesto di pittori lombardi, come testimone a un atto, con Giacomo Bevilacqua, Giovanni Maria Bevilacqua, figlio di maestro Lazzaro, e Giovanni Antonio de' Fedeli, figlio di Giovanni. In questo documento il L. è detto residente a Milano, nella parrocchia di S. Carpoforo, a Porta Cumana.
Il gruppetto di pittori citati con lui non chiarisce quale formazione il L. abbia avuto: se nel circuito di questi artisti milanesi (Quattrini, 2001-02, p. 57) o se, in precedenza, presso artisti varesini; ma si deve presumere che egli, a questa data, e a quasi vent'anni d'età, fosse ormai pittore formato. Lomazzo (p. 366) lo dice infatti alunno, con Gaudenzio Ferrari (ma altrove lo dirà "maestro" di Gaudenzio), di Giovan Stefano Scotto, figlio di un Gottardo Scotti attivo nel duomo di Milano tra il 1485 e il 1520 insieme con il fratello Giovanni Bernardino, che scompare dalla documentazione dopo il 1507.
Un contratto attesta che il L. era ancora a Milano il 2 genn. 1504, mentre il 27 ott. 1507 risulta essere assente dalla città. Sposò, molto probabilmente nel secondo decennio del Cinquecento, Margherita de Lomatio, o Lomazzo (ancora vivente nel 1534), da cui ebbe quattro figli: Tobia, Evangelista, Giovan Pietro e Aurelio, questi ultimi due pittori.
Ricordato, ancor vivente, da C. Cesariano nel suo commento a Vitruvio pubblicato nel 1521, ma scritto a partire dal primo decennio del secolo, come uno dei pittori lombardi che si recarono a Roma a studiare la "maniera moderna", il L. è menzionato da Vasari, che, nella prima edizione delle Vite (1550), nella biografia del Boccaccino, lo dice, a proposito degli affreschi di Saronno, pittore "delicatissimo, vago et onesto nelle figure sue" che "valse ancora nel fare ad olio così bene come a fresco, e fu persona molto cortese e servente de l'arte sua; per il che giustamente se li convengono quelle lodi che merita qualunche artefice che, con l'ornamento della cortesia, fa così risplendere l'opere della vita sua come quelle della arte" (p. 680: questo giudizio è forse all'origine della definizione ottocentesca del pittore come "il Raffaello di Lombardia"). Nella seconda edizione delle Vite (1568) Vasari ne parlerà più semplicemente come di un "pittore delicatissimo e molto vago" nella vita del Boccaccino (IV, p. 312), e in quelle di Benvenuto Garofalo e di Girolamo da Carpi e "d'altri pittori lombardi" lo citerà come autore a Milano degli affreschi in casa Rabia raffiguranti le "Trasformazioni d'Ovidio et altre favole con belle e buone figure, e lavorate delicatamente [(] e molte altre opere", fra le quali le pitture in S. Maurizio al Monastero Maggiore, "che tutte sono ragionevoli" (V, p. 435). Lo ricorda ancora Lomazzo (1584), questa volta come maestro di Gaudenzio Ferrari e come poeta, pittore prospettico ed eccellente nei colori e nei panni. Godette di fama sempre crescente, primo tra i seguaci di Leonardo, culminante nell'Ottocento, quando Stendhal (1828) raccomandava di visitare i suoi affreschi di Saronno per dire "addio alla bella pittura d'Italia" (Marani, 1996, p. 182 n. 21). Poi la sua arte sembrò toccare gli artisti francesi, da P. Puvis de Chavannes a E. Degas, a A. Renoir (Id., 1991), anche grazie alle incisioni che furono tratte, fin dagli inizi del secolo XIX per mano dei maestri dell'Accademia di Brera, dalle sue opere. Seguiranno gli studi di Williamson (1899), Beltrami (1911) e A. Venturi (1926); ma la rivalutazione moderna del L. sarebbe partita da Longhi (1940), che lo riscattò dal novero dei pedissequi imitatori di Leonardo considerandolo, con A. Solario e G.A. Boltraffio, "malinteso" pittore autonomo che rientrava a pieno titolo "nella reale storia dell'arte". Nella stessa direzione procedettero A. Ottino Della Chiesa (1953, 1956, 1966), M.L. Ferrari (1967) e Romano (1982), fino alle precisazioni recenti di M.T. Binaghi Olivari, G. Bora, P.C. Marani, C. Quattrini e altri, concordi nel rilevare, almeno a partire dal 1507, un forte ascendente sull'artista dell'opera di B. Zenale e del Bramantino (B. Suardi) e nel considerarlo rappresentante di un classicismo contenuto e interprete di un malessere religioso diffuso a Milano nei primi decenni del Cinquecento, anche senza giungere alle risposte drammatiche fornite, negli stessi anni, dal Bramantino.
La prima opera riferita al L. è infatti la pala del Museo Jacquemart-André di Parigi, firmata "Bernardinus Mediolanensis faciebat" e datata 1507, raffigurante la Madonna col Bambino, s. Agostino, s. Margherita e due angeli, per la prima volta attribuitagli nel catalogo dell'abate Nicoletti, quando essa si trovava ancora nella collezione Manfrin a Venezia (1872).
Il riferimento di questa tavola al L. ebbe accoglienza contrastata: mentre lo accettarono Beltrami, Suida e Salmi, lo respinsero G. Frizzoni, G. Morelli, L. Venturi, B. Berenson e, in un primo momento (1953), A. Ottino Della Chiesa, che invece lo accolse poco dopo (1956), sottolineandone la vicinanza con le opere di D. Morone e di Girolamo Dai Libri e la pittura veronese in genere (pp. 12 s., 128-130, con bibliografia precedente). Appare però incongrua la dichiarazione di "Mediolanensis" fornita dal pittore in questa tavola, dato che, in pari data (nel documento del 27 ott. 1507 sopra citato), e a Milano, egli viene detto "Bernardini de Schapis de Dumentia". Tuttavia, la lontananza del pittore dalla sua terra d'origine potrebbe averlo autorizzato a definirsi "Mediolanensis" in senso lato. Inoltre, in questo dipinto, proveniente dalla collezione Manfrin di Venezia, ma forse originariamente a Treviso, nei cui paraggi (a Sant'Artemio) i Manfrin avevano fatto costruire una villa nel 1783 e dove essi avrebbero potuto rilevare qualche dipinto a causa delle soppressioni del 1794 (Quattrini, 2001-02, p. 59), sono stati notati, oltre che forti derivazioni da Zenale e dal Bramantino, anche influssi della pittura veneta di Terraferma, particolarmente dalle opere trevigiane di L. Lotto (Romano, 1982, pp. 102 s.) e di Cima da Conegliano (Quattrini, 2001-02, p. 59). Ma per questi stessi motivi, e per il forte divario stilistico tra questo dipinto e le opere che si situano con certezza nel percorso dell'artista successive al 1512, parte della critica respinge tuttora l'attribuzione della pala di Parigi al L. (Binaghi Olivari, 1994, 1996 e in corso di stampa), che invece la maggioranza degli studiosi oggi accoglie, pur rilevandone il linguaggio acerbo e talune incongruenze stilistiche. Ne deriva l'ipotesi di un periodo trascorso dal L. nel Veneto, e forse proprio a Treviso, tra il 1504 e il 1507, dove potrebbero averlo condotto legami con gli scultori lombardi operosi in questa città, come i Lombardo, presenti nel duomo di Treviso tra il 1485 e il 1506, o i fratelli Lorenzo e Giovan Battista Bregno, presenti in S. Niccolò di Treviso tra il 1499 e il 1503 (Quattrini, 2001-02, p. 70 n. 32), e durante il quale egli potrebbe aver assorbito influenze dall'ambiente locale.
Altre opere di questa fase, all'inizio del periodo veneto e successive al 1504, sarebbero una Madonna col Bambino nel Museo cristiano di Esztergom (Buganza) e, forse di poco anteriori al 1507, il Compianto di Cristo morto del Museo di belle arti di Budapest (Ferrari: attribuzione respinta da Binaghi Olivari, 1996, e da Bora, 1998, e messa in dubbio da Fossaluzza) e una Madonna col Bambino e una donatrice di collezione privata (Suida: attribuzione non accolta da Binaghi Olivari, 1996; né da Bora, 1998, p. 327). Di poco successiva alla pala Jacquemart-André sarebbe la Madonna col Bambino, i ss. Pietro, Paolo, Caterina d'Alessandria, Lucia e una coppia di donatori ora nei Musei civici di Padova (Banzato, 1988; Pellegrini, in Il Cinquecento lombardo(, 2000, p. 164: attribuzione messa in dubbio da Binaghi Olivari, 1988; Bora, 1998, p. 327; Fossaluzza, 1998, p. 45, dato che questo dipinto trasmette forti elementi affini al linguaggio di Marco Marziale, al quale era tradizionalmente attribuito). È invece del tutto caduta l'ipotesi (Stefani) di identificare il L. nell'artista che firma, definendosi "Bernardinus de [Q]uagis", e data allo stesso 1507, un affresco situato nella cappella della Cascina del Soccorso a Uboldo (presso Saronno) raffigurante la Madonna in trono col Bambino, i ss. Cristoforo, Rocco, Sebastiano, Antonio e il donatore che, sulla base della vera identità del Bernazzano (J. Shell - G. Sironi, Bernardinus dictus Bernazanus de Marchixelis dictus de Quagis de Inzago, in Arte cristiana, LXXVII [1990], 740, pp. 363-366), viene oggi riconosciuto a questo artista (Marani, 1992; Romano, 2002). L'attribuzione di questo affresco al primo L. aveva posto un'alternativa spiccatamente lombarda (fondata esclusivamente su testi figurativi di V. Foppa, di A. Bergognone, di Zenale, di Boltraffio, di Marco d'Oggiono, del Bramantino, ma anche del giovane G.A. Bazzi detto il Sodoma), alla ricostruzione della sua cultura quale appare invece dalla pala Jacquemart-André, tale da rendere impossibile l'appartenenza allo stesso pittore delle due opere, per giunta datate allo stesso anno. Un inizio del tutto diverso della carriera del L. postula di recente M.T. Binaghi (in corso di stampa) che la vede tutta svoltasi a Milano, nell'immediato seguito di Leonardo.
Alcuni studiosi collocano attorno agli anni 1508-10 l'ipotetico viaggio a Roma del L. ricordato da Cesariano (Ottino Della Chiesa, 1956, p. 55; Bertini, p. 47; Ceriana, 1988), che invece, per altri, cadrebbe tra il 1510 e il 1516 (Moro, p. 136; Di Lorenzo, pp. 284 s.). A volersi richiamare al fatto che Cesariano scriveva quando il L. era vivo, e forse attingendo dalla sua viva voce, è possibile supporre che, in concomitanza con la calata a Roma di altri artisti lombardo-veneti (come Lorenzo Lotto, il Bramantino e Cesare da Sesto) attorno al 1508-09, il L. abbia compiuto non uno, ma due viaggi a Roma, l'uno precocemente (come dimostrerebbe la conoscenza, da parte sua, della predella della Pala Baglioni di Raffaello, datata 1507, vista a Perugia e poi copiata: Ottino Della Chiesa, 1956, pp. 139 s.), l'altro più tardi, verso il 1520 (Marani, 2000).
Parte della critica più recente oscilla tra il considerare non necessario postulare un viaggio dell'artista a Roma, né attorno al 1508-10 né poco più tardi, risultando sufficiente, per spiegare qualche prestito da Raffaello, da B. Peruzzi e dall'antico, il ricorso alle incisioni diffuse anche al Nord (Quattrini, 2001-02, p. 67), e l'accogliere invece una sua presenza a Roma solo in età tarda, all'incirca tra il 1518 e il 1520 (Ceriana - Quattrini, 2003, p. 37), così da giustificare il tardo classicismo del L. nei cicli di S. Maurizio al Monastero Maggiore di Milano e di Saronno.
Rientrato a Milano, dunque da Roma o dal Veneto, forse attorno al 1509, il L. sembra aver ricevuto soprattutto commissioni di dipinti di devozione privata (Quattrini, 2001-02, p. 60) e, da parte di una committenza di minori osservanti, quella di un polittico (forse destinato a un convento ticinese, a Lugano o a Bellinzona), i cui scomparti sono oggi dispersi in varie collezioni pubbliche e private, come un S. Antonio da Padova custodito nel Museo Poldi Pezzoli a Milano, esemplato sul polittico di Cantù di B. Zenale (Natale, 1982, pp. 91 s.). Il ritorno a Milano mise il L. a più stretto contatto con i nuovi maestri "moderni": Zenale appunto e, soprattutto, il Bramantino, la cui fama, assente Leonardo dalla città, si era fortemente consolidata tra il 1503 e il 1509 (dopo un anno trascorso a Roma) sia presso la committenza aristocratica milanese sia presso quella orbitante intorno ai dominatori francesi. Sensibilmente influenzato dalla conoscenza delle opere del Bramantino appare il ciclo dipinto ad affresco dal L. per la villa suburbana di Gerolamo Rabia, La Pelucca, vicino a Sesto San Giovanni, per la prima volta citata in un documento del 1500.
Il ciclo ad affresco, che fu staccato tra il 1821 e il 1822 da Stefano Barezzi (ma alcuni lacerti sono ancora in situ) è pervenuto parte nella Pinacoteca di Brera, parte in collezioni e musei stranieri (Chantilly, Musée Condé; Parigi, Louvre; Londra, Wallace Collection). Per lo stesso committente il L. decorò ad affresco il palazzo situato in piazza S. Sepolcro a Milano, di cui sopravvivono, staccati, alcuni affreschi, oggi conservati nella Gemäldegalerie di Berlino e nella National Gallery di Washington. Se il ciclo di palazzo Rabia è stato citato da Vasari (1568) come raffigurante le Metamorfosi d'Ovidio, quello della Pelucca è stato oggetto di interpretazioni contrastanti: fonti ne sarebbero l'Apollo e Pan di Lorenzo il Magnifico (Stechow), oppure l'Asino d'oro di Apuleio (Mulazzani, 1975, che vede nella scena delle Fanciulle al bagno raffigurato il "sonno di Psiche"), oppure ancora la cultura ebraica di Gerolamo Rabia (Ferri Piccaluga). Entrambi di datazione controversa, sono stati collocati dalla critica in un arco cronologico che va dal primo al terzo decennio del secolo.
Se la critica ottocentesca (Burckhardt, Rio, Williamson) era orientata a ritenerli di datazione precoce, soprattutto sulla base di una forte tangenza con l'arte del Bramantino, recentemente è stato proposto di datare il ciclo della Pelucca ai primi anni Venti del Cinquecento, agganciandolo a lavori compiuti nella villa tra il 1518 e il 1521, noti da documenti (che si riferiscono però soprattutto a lavori per l'irrigazione della tenuta) e collegandolo alla data "1524" che si legge a tergo di una miniatura (eseguita però nel 1821), già in collezione Sommariva (in deposito nella Galleria d'arte moderna di Milano), riproducente un frammento della decorazione del L. che si trova oggi nel Musée Condé di Chantilly (Binaghi Olivari, 1988, pp. 235-270, 432). Proposte più recenti scindono in due momenti l'attività del L. tanto alla Pelucca che in palazzo Rabia, e spostano ai primissimi anni del Cinquecento, prima della partenza del pittore per il Veneto, l'esecuzione del ciclo dell'Esodo e delle Storie di Cefalo e Procri (da palazzo Rabia, oggi a Washington); mentre sarebbero successive di un ventennio, dopo il viaggio a Roma, le altre storie mitologiche, le decorazioni della cappella della Pelucca e, in casa Rabia, le Storie di Europa (Berlino, Gemäldegalerie: Bora, 1998, pp. 328-332). Altri studiosi fissano infatti tra il 1504 e il 1509 il termine post quem per l'esecuzione di alcune scene (come dimostrerebbe la Morte dei progenitori nel ciclo dell'Esodo, che dipenderebbe da una xilografia di A. Dürer del 1504 circa, e come, nel ciclo dell'Esodo, suggerirebbero alcune riprese dagli Arazzi Trivulzio del Bramantino, tessuti tra il 1503 e il 1509, ma i cui cartoni furono allestiti a partire dal 1501), e il termine ante quem per il completamento dei cicli tra il 1509 e il 1514, rispettivamente la data di compimento degli Arazzi Trivulzio e la data di un ciclo di affreschi di Domenico Pezzi in S. Maria dei Ghirli a Campione d'Italia i quali trasmettono l'eco dell'impostazione a registri sovrapposti di alcune scene della Pelucca (Frangi, pp. 30, 239, 231; Quattrini, 2001-02, pp. 63-65).
Tra il 1510 (data di fondazione di una Confraternita dedicata alla Vergine) e il 1512 dovrebbe essere posto il polittico eseguito dal L. per la chiesa di S. Andrea a Maggianico (cfr. Moro: ma è possibile uno slittamento in avanti della data d'esecuzione), dove l'artista sembra trattenere ancora qualche riferimento alla cultura veneta (le composizioni del L. risultano infatti ispirate a due incisioni di G. Mocetto databili tra il 1505 e il 1510). Si susseguirono a partire da questi anni le prime commissioni al L. da parte dei monasteri: tra il 1510 e il 1512 fu infatti attivo alla certosa di Pavia (rimangono due pannelli nel Museo della Certosa e due figure ad affresco raffiguranti S. Rocco e S. Sebastiano nel vestibolo), dove le fonti seicentesche lo danno presente tra il 1508 e il 1514 (Valerio). A un periodo a cavallo tra il primo e il secondo decennio conviene assegnare anche l'esecuzione della celebre Madonna del Roseto della Pinacoteca di Brera, a lungo considerata il capolavoro dell'artista, solitamente ritenuta opera tarda, del terzo decennio, o, più di recente, opera giovanile, della fine del primo decennio (Marani, 1988, pp. 192-195; Quattrini, 2001-02, pp. 65 s.).
L'intensa vena lombarda e zenaliana del dipinto, nonché la sua provenienza dalla certosa di Pavia, rendono possibile una sua collocazione a ridosso dei lavori pavesi e subito prima dei dipinti per S. Giorgio in Palazzo (del 1516), anche considerando che la ripresa del tema leonardesco della Madonna del Gatto, qui evidente, sarebbe ben plausibile tra il 1509 e il 1513, quando Leonardo era di nuovo stabilmente a Milano e influenzava parimenti, e nuovamente, anche Zenale.
Il modello leonardesco della Madonna del Gatto, e specie la posizione del Bambino, aveva influenzato anche Solario nella Madonna col Bambino (Milano, Pinacoteca di Brera), eseguita a Venezia dopo il 1495, ciò che riconduce la data d'esecuzione della Madonna del Roseto a un tempo ancora vicino all'esperienza veneta del Luini. La Madonna del Roseto appare dunque come la proposta originale del L. di conciliare il linguaggio zenaliano con quello leonardesco, anzi di riformare quest'ultimo anche alla luce delle interpretazioni bramantiniane e solariane del tema devozionale: per un diverso parere vedi Binaghi Olivari, in corso di stampa, che respinge l'attribuzione del dipinto al Luini.
È del 1512 il pagamento (cfr. Ratti) per un affresco raffigurante la Madonna col Bambino, due angeli musici e storie di s. Benedetto, commissionato dai monaci dell'abbazia di Chiaravalle Milanese per l'accesso alla scala che conduceva al dormitorio.
Questo affresco (Ottino Della Chiesa, 1956, p. 71; Quattrini, 2001-02, pp. 66 s.) mostra una svolta monumentale nell'arte del L. vieppiù segnata dall'arte di Leonardo, di Zenale e del Bramantino, nonché il primo coinvolgimento dell'artista nella cerchia di Bernardino Lupi da Carvajal, che, proprio da Chiaravalle, avrebbe diffuso teorie moralizzatrici della Chiesa basate sul testo dell'Apocalypsis nova del beato Amedeo Méndez da Silva. Con lo stesso ambiente entrava in contatto anche il Bramantino nel 1513, quando i monaci di Chiaravalle gli acquistarono un Compianto da inviare a Roma (Marani, 2005). Il testo del beato Amedeo fu introdotto nel 1514 (a opera di Giorgio Benigno Salviati) anche nel monastero milanese di S. Marta, da dove si riteneva provenisse un'Annunciazione del L. (Milano, Pinacoteca di Brera) che sembrava da identificare con "quello ornamento de Santa Martha" cui "Luy⟨ni>" aveva dato "bono principio" il 5 genn. 1517 insieme con una "bella Madonna" commissionatagli da Denis Briçonnet vescovo di Toulon e Saint-Malo, anch'egli partecipante al conciliabolo di Pisa-Milano (Binaghi Olivari, 1975, pp. 64 s.).
Il dipinto, che sembra ispirarsi alle teorie semiereticali e forse a una visione del beato Amedeo che suor Arcangela Panigarola, superiora del monastero agostiniano di S. Marta - negli anni 1500-03, 1506-08, 1512-25 - certo conosceva grazie alla versione fornita da Salviati e fatta propria da quel gruppo di eretici (ibid., pp. 56-60), è oggi considerato opera congiunta del L. e di Zenale (Marani, 1987, pp. 150-153, e 1988, pp. 222-224), forse con un terzo artista (Bora, 1997, pp. 239-246), che avrebbero però eseguito la grande tavola non per il monastero di S. Marta, ma per la cappella di S. Giuseppe in S. Maria della Pace (Romano, 1982, p. 104), il più importante convento fondato dal beato Amedeo Méndez da Silva (Binaghi Olivari, 1975, p. 61), dove lavorarono anche Marco d'Oggiono, Giovanni Agostino da Lodi e, poco più tardi, Bernardino Ferrari (Quattrini, 2002, pp. 11-48). Gli affreschi del L. per la cappella di S. Giuseppe (Storie di Giuseppe), ora, staccati, nella Pinacoteca di Brera, risultano anch'essi in parte ispirarsi all'Apocalypsis nova e vengono perciò datati a dopo il 1514 (Binaghi Olivari, 1975, pp. 61-64, e 1988, pp. 234-263), e non oltre il 1515 (Bora, 1997, p. 245; Quattrini, 2002, p. 44).
La forte somiglianza di linguaggio fra il L. e Zenale verso la metà del secondo decennio può giustificare come per molti anni sia stata attribuita al L. la cosiddetta Pala Busti, già in S. Maria di Brera, datata 1515 (oggi nella Pinacoteca di Brera), spostata solo di recente nell'ambito di Zenale (Binaghi Olivari, 1983, pp. 12 s.; Marani, 1987, pp. 146-149; Geddo - Sironi).
La tangenza e, forse, la collaborazione con Zenale sono però attestate in questi anni, poco dopo la metà del secondo decennio, anche per vicende extrartistiche: il 3 maggio 1516, il L. intervenne infatti come teste a un atto concernente la professione monacale (e la relativa dote assegnata) di Maria Lucrezia divenuta "soror Mansueta de Zenalis de Trivilio", la figlia, cioè, di Bernardo Zenale da Treviglio. In quest'anno il L. abitava nella parrocchia di S. Maria Pedone, a Porta Vercellina. Il 20 ott. 1516 il prete Pietro Antonio Cartoni commissionò al L., a Francesco Donati e ad Alessandro da Vaprio l'esecuzione di un'ancona per la chiesa di S. Vincenzo a Gravedona: i dipinti che l'artista doveva eseguire sarebbero stati pagati 60 scudi (escluse la cornice e la sua doratura, commissionate agli altri due artisti: Shell, 1995). Sempre nel 1516, il 15 dicembre, il L. dava licenza, e figurava ancora come testimone in una vendita da parte di sua moglie Margherita e di sua cognata Clara Lomazzo. Nello stesso 1516 il L. decorava, richiesto da Luca Terzago, la cappella del Ss. Sacramento nella chiesa milanese di S. Giorgio al Palazzo con affreschi sulla volta (Crocifissione) e quattro tavole (Compianto di Cristo, Coronazione di spine, Flagellazione ed Ecce Homo): stilisticamente questi dipinti rivelano nuove tangenze e nuovi apporti al linguaggio del L., particolarmente provenienti da Solario e da Giovan Francesco Caroto, quest'ultimo già in contatto con l'arte milanese fin dal 1507, e un cui passaggio a Milano, mentre era a Casale Monferrato nel 1514-16, è molto probabile (Fiorio, 1971). L'8 genn. 1517 sistemò la faccenda della dote di Clara andata sposa al maestro Battista de Balduinis di Lecco. Il 26 agosto dello stesso anno cambiò casa e stipulò un contratto di affitto per una dimora confortevole con il nobile Fabrizio de Petra Sancta, situata nella parrocchia di S. Maurilio, a Porta Ticinese. Si considerano conclusi, entro il 1517, i lavori del L. per gli affreschi del monastero milanese di S. Maria della Purificazione, detto Le Vetere, iniziati qualche anno prima, e che, staccati, si trovano adesso presso la Pinacoteca di Brera (Binaghi Olivari, 1988, pp. 203-222). Tra il luglio del 1517 e l'8 genn. 1518 il L. eseguì la pala di S. Gerolamo per il duomo di Como, commissionatagli dal cardinale Scaramuccia Trivulzio (Binaghi Olivari, 1998), in cui si nota la continuità del linguaggio del L. rispetto alla cappella di S. Giorgio al Palazzo, ancora con rimandi a Solario, a Zenale e al Bramantino. Nel 1518 fu testimone in una vendita di un vigneto nel territorio di Casorezzo. Dovrebbe situarsi a cavallo fra il secondo e terzo decennio del secolo un secondo viaggio a Roma, anche in quanto mancano documenti e opere sicuramente agganciabili agli anni 1519-20.
Per l'affresco, firmato "Bernardinus Lovinus" e datato 1521, che il pittore eseguì per il primo altare del lato sinistro della chiesa di S. Maria di Brera (in deposito al Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano: bozzetto preparatorio in collezione privata), in sostituzione di un affresco di V. Foppa, e fu collocato fra due affreschi di quest'ultimo (Martirio di s. Sebastiano, conservato nella Pinacoteca di Brera, e S. Rocco, perduto), e non in una cappella (Ceriana, in Ceriana - Quattrini, 2003, p. 34), è infatti accolta la derivazione raffaellesca dello stile e delle figure tanto da far assumere a esso il ruolo di testimonianza sicura di quel viaggio (Quattrini, ibid., p. 37).
Tutte le imprese pittoriche successive del L., improntate a una nuova monumentalità e ampiezza di respiro e a uno stile spesso più addolcito e suadente, mostrano, del resto, le tracce di quel soggiorno.
Del 1521-22 è l'Incoronazione di spine nella sede originaria del Pio Istituto di S. Corona (oggi annesso alla Biblioteca Ambrosiana), fondato nel 1497 presso le chiese di S. Sepolcro e di S. Maria della Rosa. L'affresco fu commissionato al L. dalla Confraternita presieduta dal mercante Bernardino Ghilio e, come attestano i documenti (Canetta), eseguito dal pittore e da "uno suo gioveno" tra il 12 ott. 1521 e il 22 marzo 1522. Le figure dei confratelli inginocchiati, specie sulla parte destra dell'affresco, mostrano il ricordo dei personaggi raffigurati nella Messa di Bolsena di Raffaello negli appartamenti vaticani; mentre le teste degli sbirri e degli aguzzini attorno al Cristo Re, quello delle teste grottesche di Leonardo (Rossi, 1998, p. 156).
Gli affreschi sul tramezzo di S. Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, raffiguranti Figure di sante, Martirio di s. Maurizio, S. Sigismondo offre la chiesa a s. Maurizio, Alessandro e Ippolita Bentivoglio inginocchiati e santi, commissionati da Alessandro Bentivoglio e Ippolita Sforza, come indicano i loro stemmi dipinti nella chiesa claustrale, devono essere stati iniziati, nella parte pubblica della chiesa, attorno al 1521-23, momento di maggior affermazione politica di Alessandro sotto Francesco Sforza e periodo in cui sua figlia Alessandra divenne badessa del monastero (1522: ma ella risiedeva nel convento almeno dal 1521, come attesta una donazione a lei di 1173 ducati da parte della madre Ippolita Sforza). Gli affreschi della parte claustrale (fra cui Giuda coi soldati, Gesù nell'orto, Cristo deriso, S. Martino tende il mantello al povero, Andata al Calvario, Crocifissione, Deposizione, Resurrezione, Noli me tangere) devono essere lievemente più tardi (non sono del L. le pitture murali raffiguranti Paesaggi, attribuitegli da A. Ottino Della Chiesa nel 1962, ma rifacimenti alquanto posteriori, né gli affreschi del matroneo, e non è sua, nella chiesa pubblica, l'Assunzione al centro del tramezzo); mentre gli affreschi della cappella Besozzi (Cristo alla colonna, Martirio di s. Caterina, Decollazione di s. Caterina, Angeli, Testa del Padre Eterno e Sibille Eritrea e Agrippina) sono datati 1530 (Marani, 2000, pp. 53-73). Chiaramente ispirati dall'ambiente centroitaliano e da Raffaello in particolare gli affreschi sulla facciata "pubblica" dell'arcone trionfale, quelli della chiesa claustrale e quelli della cappella Besozzi rivelano uno stile più tragico e compendiario, talvolta più popolaresco; e non manca qualche suggestione proveniente anche dalla cappella Sistina di Michelangelo.
Nell'aprile 1523 il L. abitava a porta Vercellina, nella parrocchia di S. Vittore al Teatro; mentre il 20 luglio 1525, indizio di un'agiatezza ormai acquisita, affittava un'importante abitazione, stante l'alta cifra pattuita, sita sempre a Porta Vercellina, nella parrocchia di S. Maria Segreta, dalla nobile Clara de Cagnolis figlia di Battista e vedova di Giovanni Andrea de Meregaris.
Nel 1523 stipulò inoltre il contratto con la Fabbriceria della chiesa di S. Magno a Legnano per un polittico raffigurante la Madonna in trono e angeli, per 160 scudi e 5 lire, cui furono poi aggiunte altre 30 lire forse per le ante (Turri, p. 32: una fonte locale, Bettinelli, asserisce che la commissione cadde nel 1525 sulla base di un documento originale nell'Archivio arcivescovile di Milano, di cui esisteva copia in S. Magno; entrambi i documenti sono irreperibili): nell'opera prevalgono ancora forti componenti illusive e prospettiche di matrice bramantiniana (Marani, 1992, p. 249). Del 1524 è, invece, l'esecuzione di due ante d'organo, dipinte a tempera, per la chiesa di S. Eustorgio a Milano, su istanza dei nobili Taveggi, come ricorda Gaspare Bugato nel 1540 (in deposito presso la parrocchiale di Paderno Dugnano: Ottino Della Chiesa, 1956, p. 125). Data allo stesso 1524 il Polittico Torriani, in esecuzione del testamento di Cristoforo Della Torre, rogato il 16 apr. 1523 (ibid., p. 92), con la Madonna, santi e storie dei ss. Martirio, Sisinio e Alessandro, eseguito per la chiesa di S. Sisinio a Mendrisio (alienato nel 1796, in dieci scomparti, di cui rimangono lo scomparto centrale, ora a Torino, collezione Di Rovasenda; i laterali a New York e in Inghilterra in collezioni private; due scomparti di predella a Los Angeles, The Norton Simon Museum of art), nel cui pannello centrale riaffiorano elementi paesaggistici di matrice lombarda e l'impostazione monumentale debitrice delle pale venete di V. Bellini.
Il vasto ciclo nella cappella Maggiore del santuario di Saronno è datato 1525 nel grande riquadro raffigurante la Presentazione di Gesù al tempio, dove egli si firma "Bernardinus Lovinus".
Tutte le pitture di questa cappella, comprendenti, fra l'altro, l'Adorazione dei magi, figure di Sibille sull'estradosso dei grandi arconi, figure monocrome delle Virtù e della Pace, gli Evangelisti e i quattro dottori della Chiesa nella cappelletta, e, nell'anticappella, lo Sposalizio della Vergine e la Disputa di Gesù fra i dottori, devono essere datate a quest'anno, per ragioni di tecnica e di stile (Marani, 1996). Il L. ricevette pagamenti per altre decorazioni e cappelle (cappella del Cenacolo, uno stemma, una Natività nel chiostro) dal 1526 al 22 ott. 1531, quando fu pagato per aver decorato la volta della cappella del Cenacolo e le figure di S. Antonio, S. Cristoforo, S. Sebastiano e S. Rocco al di sotto della cupola (per tutti i documenti riguardanti i pagamenti al L. in santuario, compreso quello fatto ai suoi eredi il 6 sett. 1533, si veda Sala).
Culmine della maturità e del classicismo del L., in questi affreschi, e specie nelle Sibille, incorniciati da motivi "alla musaicha" e da grottesche eseguite da Alberto Meleguli da Lodi, sono state notate reminiscenze dei contatti avuti con l'arte di Peruzzi, Sodoma, Raffaello e Michelangelo, ma anche le tangenze con i pittori bresciani e veneti, come Lotto, A. Bonvicino detto il Moretto e forse Tiziano (affioranti dall'Adorazione dei magi).
È datata 1526 la pala della collezione del visconte Lee Fareham di Richmond, Surrey, raffigurante la Vergine col Bambino, s. Giovanni Battista, s. Antonio e una donatrice, che costituisce un importante esempio dello stile monumentale del pittore in questa fase (Ottino Della Chiesa, 1956, p. 133).
Nel 1529 il L. era a Lugano, dove datava un grande affresco raffigurante la Crocifissione nella chiesa di S. Maria degli Angeli, per il quale proseguirono i pagamenti nel 1530 e persino nel 1532, dopo la sua morte, a suo figlio Evangelista.
Questo monumentale affresco (altri due dipinti murali si trovavano nel refettorio: una Ultima Cena, ora staccata in tre frammenti, e una Madonna col Bambino, s. Giovannino e l'agnello, staccato, originariamente sulla porta della sagrestia del convento, di chiara suggestione leonardesca) segna un accostamento del L. alla visione più teatralmente animata, popolare e naturalistica di Gaudenzio Ferrari.
Il 12 apr. 1530 presenziò a un atto di procura delle sorelle Clara e Margherita, in qualità di marito di quest'ultima. La morte del L. dovette avvenire prima del 1( luglio 1532 come si desume dal documento con cui risulta effettuato a Lugano al figlio Evangelista ("quondam magistri Bernardini": Beltrami, 1911, p. 473) il saldo di 100 lire per gli affreschi eseguiti dal padre in S. Maria degli Angeli.
In un documento datato 9 nov. 1534 (Pini - Sironi, II, pp. 61-70) si stipula la retrovendita di un fitto livellario che il L. aveva acquistato dall'illustre Ermete Visconti (ramo Visconti di Somma Lombardo), ma del quale il L. non aveva conseguito il pagamento. Morto l'artista nel 1532, i figli eredi, in forza di una autorizzazione ducale, procedettero alla vendita dello stesso fitto livellario a Battista Visconti (erede di Ermete): il documento è accompagnato da tre liste (due delle quali di mano del L.), intese alla regolarizzazione dei conti, e da una lettera ducale in cui il L. è definito "magistro Bernardino de Luyno".
Artista dalla produzione amplissima, soprattutto frescante nella miglior tradizione tecnica dei pittori lombardi, si misurò anche nella pittura di devozione privata come testimonia un elevato numero di dipinti su tavola di piccolo formato sparsi nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, in cui, se spesso i modelli rimangono quelli di derivazione leonardesca, egli seppe nondimeno trasformare l'ineguagliabile astrazione formale di Leonardo in immagini di più domestica e vera umanità. Nei disegni, anch'essi divisi fra musei e collezioni private (Ottino Della Chiesa, 1956, pp. 143-149; Bora, 1980, 1987, 1998, 2003; Agosti, 2001), egli cercò di coniugare lo stile di Leonardo con quello di Solario e di Giovanni Agostino da Lodi, ma anche del Bramantino e di Cesare da Sesto, operando con la matita nera e rossa, con penna e inchiostro e con i pastelli colorati, offrendo studi di calibrata eleganza e compostezza.
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