MEI, Bernardino
– Figlio di Girolamo di Agnolo e di Celia Camozzi fu battezzato a Siena il 23 ott. 1612 (Archivio di Stato di Siena, Biccherna, Battezzati, 1139, c. 325r).
Le prime prove conosciute del M. risalgono al 1634, quando firmò tre pagine miniate di uno dei Libri dei Leoni (i registri della suprema magistratura cittadina) con scenette rappresentanti rispettivamente la Resurrezione, una Processione in piazza del Campo, la Madonna in gloria tra santi e beati senesi (Ibid., Concistoro, 2343, cc. 30, 32, 34). Una quarta miniatura del 1637, con il Martirio dei serviti a Praga (c. 53), gli è stata, invece, attribuita (Pallavicino; Sani).
La considerazione di tale esordio, in un’impresa di tono minore, unitamente all’errata lettura della data di una sua acquaforte (l’Impresa accademica di Pietro Cerretani, firmata e datata 1656 e non 1636, come si è interpretato), ha indotto a ritenere che l’opera giovanile del M. sia da inquadrarsi nell’ambito di una non meglio chiarita attività «grafica» che costituirebbe una «cultura di base» per il futuro impegno pittorico (Ciampolini, in Il Seicento senese …, p. 21). In realtà, mentre tutte le incisioni note dell’artista sono assai più tarde (datate o riferibili a un preciso e limitato torno di anni, tra il 1653 e il 1656) le già ricordate prove per i Libri dei Leoni, caratterizzate da una spiccata libertà del tratto e condotte con uno svelto pittoricismo, non contraddicono l’ipotesi, avanzata da più parti, di un rapporto di collaborazione o di apprendistato del M. con il maturo Rutilio Manetti, il maggiore e più accreditato pittore senese del tempo (Brandi; Bagnoli, 1989; Alessi, 1992). La probabile formazione tra la fine degli anni Venti e gli inizi dei Trenta in prossimità di Manetti (e non di Raffaello Vanni come vuole Romagnoli) rende anzi ragione di quella componente naturalistica di fondo della pittura del M., mai venuta meno, sulla quale si innesteranno man mano altre suggestioni della più aggiornata cultura artistica contemporanea.
Gli scarni riscontri documentari che scandiscono la sua vicenda biografica dichiarano del resto la consuetudine, in una sorta di sodalizio, con il pressoché coetaneo figlio di Manetti, Domenico (1609-63), anch’egli pittore, con il quale si sarebbe trovato alla morte di Rutilio (1639) a raccoglierne l’eredità artistica e a condividere negli anni diverse imprese pittoriche. Il M., al pari di Domenico, fu membro della Compagnia di S. Giovanni Battista in Pantaneto, di cui aveva fatto parte anche il padre che aveva ricoperto la carica di camarlengo (Siena, Biblioteca comunale, Mss., A.I.28, cc. 63r, 65v; Archivio di Stato di Siena, Patrimonio dei resti, 774): vi entrò il 12 maggio 1630 (Siena, Biblioteca comunale, Mss., A.I.28, c. 123v; A.II.8, c. 29r) e della sua attività come confratello si trovano tracce nei registri, dove è citato per aver rivestito incarichi dal 1636 al 1654, spesso contemporaneamente con Domenico (Archivio di Stato di Siena, Patrimonio dei resti, 767 e 768). Nel 1645 è inoltre nominato da Domenico stesso tra i Signori della festa di Provenzano (Bisogni, in B. M. e la pittura barocca …, p. 155).
In assenza di riscontri archivistici che diano conto della prima attività del pittore, si è tentata la ricostruzione del corpus giovanile attorno a due opere di ascendenza manettiana quasi concordemente attribuitegli, il cataletto della collegiata di Casole d’Elsa, detto «dei Canonici», e una Sacra Famiglia con s. Giovannino (Siena, Pinacoteca nazionale, in pendant con S. Anna che insegna a leggere alla Madonna della stessa pinacoteca, attribuita a Domenico Manetti).
È stato così individuato (Bagnoli, 2006) un nucleo di dipinti che, risentendo fortemente della cultura di ambito manettiano senza potersi però ascrivere alla figura del meno dotato e legnoso Domenico, rimandano al giovane Mei. Vi si individua una mano già autonoma e riconoscibile che indugia in una descrizione spiccatamente naturalistica dei soggetti attraverso un trattamento uniforme e levigato della superficie pittorica, percorsa però da effetti luministici affidati a caratteristiche pennellate biancastre che creano vigorosi contrasti chiaroscurali. Queste opere – tra cui l’Annunciazione dell’oratorio della Madonna della Grotta, nei dintorni di Siena, la Glorificazione dell’Eucarestia della Compagnia del Corpus Domini, adiacente alla chiesa abbaziale di Abbadia a Isola (Monteriggioni, parrocchia dei Ss. Salvatore e Cirino), la Circoncisione dell’oratorio di S. Rocco a Siena – si distinguono inoltre per la ricorrente tipologia dei personaggi, il rilievo assegnato alle figure dalle pose un po’ enfatiche e per l’impaginazione delle scene in cui si cominciano a percepire echi delle coeve tendenze classicistiche romane.
Dal punto di vista cronologico sono tutte da collocarsi precedentemente alla Processione con le reliquie di s. Bernardino in piazza del Campo (Siena, oratorio di S. Bernardino), primo dipinto attestato del M., per il quale la Compagnia di S. Bernardino saldò il pagamento il 2 maggio 1639.
Un’opera questa che, rievocando lo stile dei bozzetti con Storie di s. Bernardino realizzati da Rutilio Manetti per la serie incisa da Bernardino Capitelli nel 1635, conferma la filiazione dal maestro e si inserisce nella tradizione assai frequentata a Siena della «cronaca» visiva di un evento cittadino, ponendosi in rapporto con la miniatura del Libri dei Leoni di analogo soggetto di cui condivide, in grande, scioltezza e disinvoltura. Si riscontra qui, nell’articolazione della scena costruita sull’ardito scorcio di una piazza del Campo mutila della sua torre e tratteggiata con fedeltà, la padronanza dei mezzi ormai raggiunta dal M., in un veridico resoconto arricchito di vivaci inserti narrativi affidati a gruppi di figure ben studiate e talora ritrattisticamente individuate.
Attribuzioni e ritrovamenti quali la Sacra Famiglia con la Maddalena, assegnata all’esordio degli anni Quaranta (Siena, Collezione del Monte dei paschi), il Ritratto di Giacomo Sansedoni, databile al 1641 (Siena, spedale di S. Maria della Scala), la Natività della Vergine, firmata e datata 1641 (Serre di Rapolano, pieve di S. Lorenzo), Le visioni del beato Bernardo Tolomei (abbazia di Monteoliveto Maggiore), il Beato Niccolò Cerretani di collezione privata, firmato e datato 1644, unitamente a opere già note, come lo straordinario dipinto con i Ss. Cosma e Damiano (firmato e datato 1644, proveniente dalla collezione Del Taia, ora in collezione privata) e il S. Girolamo (firmato e datato 1646, nella Pinacoteca nazionale di Siena) gettano luce sull’attività degli anni Quaranta, consentendo di colmare il silenzio delle fonti, e costituendo un viatico per la fase della piena maturazione artistica del M., nel decennio successivo.
La produzione di questi anni testimonia di una svolta compiuta, dell’assimilazione e del superamento dei presupposti giovanili, aprendo a un proficuo confronto con la cultura pittorica romana di quegli anni. In particolare nei Ss. Cosma e Damiano si coglie la fedeltà della descrizione, indagatrice e veristica, all’interno di una salda e chiara impaginazione.
Nella Decollazione del Battista di S. Giovanni Battista in Pantaneto, eseguita fra il 1646 e il 1648, il naturalismo degli esordi è spinto alle estreme conseguenze, in un’accezione che enfatizza il contrasto chiaroscurale, con una drammaticità nuova, memore dell’esempio dirompente di Mattia Preti.
La luce si concentra su alcune figure, fulcro della studiata composizione, che emergono dalla lugubre e fosca oscurità del fondo per lasciare in ombra secondari spettatori: i bagliori rischiarano dunque Salomè accompagnata dalla fantesca che si allontana con la testa del Battista dall’antro dove ha avuto luogo l’esecuzione, mentre il carnefice ripulisce la spada lorda del sangue di quel corpo mutilato ancora fremente ai suoi piedi. La teatralità della scena è amplificata dalla presenza dei tre manigoldi che impassibili vi assistono, uno di essi, di spalle, in posa monumentale, comodamente adagiato in primo piano. È la stessa temperie pittorica che si apprezza, meno cupamente espressa per la diversità dei soggetti, nel Giudizio di Salomone e nella Betsabea (entrambi appartenenti alla collezione Chigi Saracini, ora di proprietà del Monte dei paschi di Siena, e databili ai primi anni Cinquanta), esempi riuscitissimi di questa fase dell’attività del M., in cui si perfeziona l’andamento del lume che indugia, dorato e con esatto calcolo, sulle figure tornite, fondendosi con una pittura morbida e dai toni cromatici brillanti, freddi, su cui risalta il blu cobalto. Tali prove, che hanno indotto a chiamare in causa gli esiti berniniani e della sua cerchia, costituiscono il preludio alle insuperate e originalissime realizzazioni degli anni Cinquanta.
A questo periodo si fanno risalire anche le due lunette (di cui si conservano i bozzetti preparatori a Siena, collezione Chigi Saracini, e ad Altenburg, Lindenau Museum) con Storie di s. Giobbe affrescate nell’oratorio di S. Rocco, su una delle quali si sono riscontrate la firma e la data 1648 (l’altra sarebbe per ragioni stilistiche da datarsi posteriormente: Bisogni, in B. M. e la pittura barocca …). Nel 1650 il M. realizzò anche la mostra dell’orologio della torre del Mangia, non più esistente (Romagnoli, p. 462).
Il rinvenimento di inventari, che attestano la presenza del suo Ciarlatano (Siena, collezione del Monte dei paschi) nelle raccolte medicee già dal 1652, e le relative precisazioni (Fumagalli; Spinelli) consentono di rivedere la cronologia delle opere del M. a partire da questa prova, capitale nel suo percorso.
Essa si caratterizza per una sottile ambiguità, in bilico tra una rappresentazione perspicua, finanche ottica, del reale, di grande virtuosismo descrittivo, l’acuta penetrazione psicologica, e il carattere simbolico, dovuto all’imponenza della figura protagonista, non priva di grottesca ironia, che campeggia gigantesca e incombente dal suo punto di vista ribassato, caricando la scena di sottintesi ed ermetici richiami. La tela, che si trovava nella residenza del governatore di Siena Mattias de’ Medici a Lappeggi, passata nella collezione Gerini agli inizi del secolo XVIII, si pone ai vertici della produzione del pittore, introducendo al gruppo di opere del sesto decennio.
È questa la stagione più felice della vicenda artistica del M., la cui crescita è stata messa in rapporto anche con Raffaello Vanni (Bisogni, in B. M. e la pittura barocca …, pp. 143, 147; Ciampolini, in Il Seicento senese..., p. 35 n. 104; Id., 2001), ipotesi che, fatte salve scontate e ovvie tangenze legate alle spesso comuni circostanze dell’operare, non sembra convincente, per la differente radice della poetica dei due artisti. Ineludibile appare comunque l’idea di un contatto con la pittura barocca romana, probabilmente diretto, per la corrispondenza riscontrata da più parti soprattutto con i modi dell’eloquio berniniano.
La pittura del M., che ha evocato anche la maniera di Pier Francesco Mola, si fa più morbida e pastosa, fluida, il cromatismo più acceso. È mantenuta la definizione delle forme, non più raggiunta però per via di una stesura compatta, segnata da tocchi che incidono e sottolineano, bensì attraverso una materia opulenta, intrisa di luce, che tuttavia non si sfalda e non svapora. Si acuisce la tendenza tipica del M. a isolare figure in senso monumentale all’interno di una composizione più affollata e ricca e a costruire il ritmo attraverso pose spesso rispondenti o contrapposte, in linea con il dinamismo dei gruppi di Gian Lorenzo Bernini. Il saldo naturalismo, mai ripudiato, si coniuga ora a un’attenzione preminente per la composizione strutturata secondo scansioni tuttavia razionali, in cui trovano campo le invenzioni, le difficili posture, l’espressività, caratteristiche delle opere del sesto decennio. Il pathos, la drammaticità, il sentimento, le emozioni che si producono risultano da questi rapporti e relazioni di movimenti mai convulsi né incontrollati in un turbinio fine a se stesso.
In questi anni fecondi si collocano quadri da stanza, ricordati numerosi negli inventari delle nobili famiglie senesi, di cui sono mirabile esempio le pitture del ciclo che ornava una sala del palazzo Ugurgieri a Siena (ora Siena, collezione del Monte dei paschi), al quale concorsero con le loro opere anche Raffaello Vanni e Domenico Manetti. Vi erano rappresentate storie esemplari dell’Antichità, Artemisia vedova del re Mausolo beve acqua mista alle ceneri del marito defunto, Oreste che uccide Egisto e Clitennestra (siglato e datato 1654), Antioco e Stratonice del M., in pendant con Ulisse separa Astianatte da Andromeda di Manetti e Neottolemo uccide Polissena di Vanni, e due scene allegoriche del M., Amore curato dal Tempo (siglato e datato 1653), La Fortuna tra Necessità e Virtù, Venere con un amorino. I due dipinti datati del ciclo, dedicato agli effetti di Amore, offrono le coordinate per la collocazione cronologica delle altre tele, evidentemente vicine.
Le composizioni di marcato carattere allegorico, letterario, mitologico, affollano la produzione del M. di questi anni, come testimoniano le opere che presentano monumentali figure in primo piano, quali le allegorie della Fede (siglata e datata) e della Speranza del 1656 nella collezione Chigi Saracini (che facevano serie con una Carità attribuita a Raffaello Vanni nella stessa collezione), la Giustizia siglata e datata 1656 (collezione privata) in pendant con l’Ingiustizia, firmata (Siena, Pinacoteca nazionale), provenienti dalla collezione Del Taia a Siena, e la Fede cattolica, in collezione privata torinese, firmata e datata 165[2].
Tra le opere a singola figura, in cui la componente ritrattistica, pur riscontrabile, è talora sopravanzata dall’espressione del sentimento che i volti e le pose dei personaggi non trattengono, sono le due superbe tele con S. Giovanni Evangelista e con Ghismunda (Siena, Pinacoteca nazionale).
In quest’ultima, oltre a doversi notare la rarità del soggetto, si riscontrerà la crudezza e l’evidenza della descrizione naturalistica del cuore sanguinante dell’amato poderosamente stretto dalla mano della giovane e bellissima protagonista, determinata nel proposito di morte, che si staglia scultorea sul fondo lapislazzulo richiamato dalla veste blu e rosa in raffinato accordo cromatico. Il dipinto, certo uno dei più memorabili dell’artista, potrebbe essere da identificare con la «S. Prassede col cuore» vista da Ettore Romagnoli nel palazzo Bandinelli a S. Agostino (Contini, in Pitture senesi..., p. 108).
Proprio per la committenza Bandinelli appare praticato dal M. il genere del ritratto (sia pure «in memoria» trattandosi di avi che avevano dato lustro alla nobile casata), nelle due tele, ora alla Pinacoteca di Siena, con il Ritratto di papa Alessandro III (1652) e quello del Cardinale Rolando (1653), caratterizzate dalla sottigliezza dell’introspezione psicologica.
L’artista intrattenne un rapporto privilegiato con questa famiglia senese per la quale eseguì numerose opere, alcune pervenuteci, altre oggi irreperibili, ma documentate nelle collezioni familiari ancora nel XIX secolo, come le numerosissime pitture ospitate nelle stanze del palazzo a S. Agostino, tra cui un grandioso ciclo storico allegorico nella sala principale descritto da Romagnoli. Si affiancano a questa produzione privata di prim’ordine, cui appartiene anche la tela con Cristo scaccia i mercanti dal tempio (Los Angeles, The J. Paul Getty Museum), commissioni pubbliche di altrettanto respiro come l’Adorazione dei pastori del 1653, per la sala del Concistoro nel palazzo pubblico di Siena (oggi all’Archivio di Stato), opera di studiata composizione tutta giocata sulla finezza degli accostamenti cromatici e sull’incidenza della luce sapiente che evidenzia plasticamente i volumi e asseconda il ritmo creato dall’intreccio e dalle corrispondenze di pose e gesti «colloquianti» dei personaggi.
Fra le tele di soggetto sacro di questi ultimi anni senesi sono la pala della chiesa di S. Tommaso a Valdipugna con la Madonna con Bambino in gloria tra santi (firmata e datata 1653), la pala di Asciano con la Crocifissione con la Vergine, s. Francesco e s. Agata eseguita per la Confraternita di S. Croce e ora nel, Museo di Palazzo Corboli, il S. Bernardino e committente (Siena, Museo civico, proveniente dalla Compagnia di S. Onofrio), il S. Stefano resuscita un morto per l’oratorio di S. Stefano ai Pispini, ora in S. Agostino a Siena, commissionato nel 1654, l’Assunta e beati (Siena, Pinacoteca nazionale) firmata e datata 1656.
Si inseriscono in questo frangente le nove acqueforti del M. (Siena, Biblioteca comunale degli Intronati), caratterizzate da straordinaria originalità e grandissima perizia, tutte di tipo allegorico e concepite per illustrare opuscoli di tesi, salvo una con S. Giovanni Battista bambino di cui non si è rintracciata l’originaria funzione, ma che difficilmente appare nata per essere svincolata da un contesto librario.
Il definitivo trasferimento a Roma del pittore è senz’altro da porsi in relazione con l’ascesa al soglio pontificio di Fabio Chigi con il nome di Alessandro VII.
Un documento del 16 apr. 1657 dai libri contabili della Camera apostolica lo attesta: il M. riceve infatti un cospicuo pagamento a rimborso delle spese di un viaggio da Siena a Roma «chiamato per servire qua nella sua professione» (Ozzola, p. 59).
Da questo momento si ha notizia di una ininterrotta attività per i Chigi, nella quale inizialmente deve aver rivestito un ruolo attivo la mediazione dell’influente monsignor Volunio Bandinelli divenuto poi cardinale.
Questi fu in più occasioni consigliere nelle scelte artistiche del papa, come si apprende dalla lettura del diario di Alessandro VII, in cui il M. è ricordato fra il 1658 e il 1659 in relazione a opere che avrebbe eseguito o dovuto realizzare (Krautheimer - Jones).
È così che gli venne affidata l’esecuzione della tela con la Sacra Famiglia per la chiesa di S. Maria del Popolo, scelta che, secondo il diario del papa Alessandro VII, fu da lui stesso sottoposta anche a Bernini, responsabile della ristrutturazione della chiesa, e con lui dibattuta.
La Sacra Famiglia (1659), in «bel composto» con la policroma struttura architettonica dell’altare berniniano e con le candide statue dei due angeli che incorniciano la tela, fu pagata al pittore nel 1659 (Cugnoni, p. 539). Allo stesso anno risalgono anche i pagamenti delle due opere eseguite per S. Maria della Pace con S. Giovanni Battista rimprovera Erode ed Erodiade e S. Giovanni Battista condotto al supplizio (Krautheimer - Jones, n. 301) e dell’allegoria dell’Inverno (Ariccia, palazzo Chigi), realizzata per Flavio Chigi in collaborazione con Mario de’ Fiori, responsabile della natura morta, e in serie con le restanti stagioni dovute ad altri artisti (Golzio, p. 267). Proprio per il cardinal nipote, dal quale fu anche nominato cavaliere (Romagnoli, p. 469), si svolgeranno da questo momento le maggiori committenze romane dell’artista (merita inoltre ricordare come sia documentato nel 1660 il ruolo del M. in una vendita al cardinale di opere di scuola senese per la sua collezione: Golzio, p. 274).
Nel 1657 il M. fu eletto membro dell’Accademia di S. Luca, cui apparteneva anche il concittadino Raffaello Vanni, che ricoprirà fra l’altro dal 1658 al 1660 la carica di principe.
La sua maggiore impresa romana, tuttavia, sono le perdute tele per il salone delle Udienze del palazzo Chigi ai Ss. Apostoli, la residenza del cardinale Flavio, la cui ristrutturazione era stata affidata a Bernini.
Il ciclo pittorico impegnò il M. per molti anni (dal 1658 al 1671 almeno), come risulta dallo spoglio dei pagamenti (Golzio) e dagli inventari recuperati da Almamaria Mignosi Tantillo, che ne attestano la grandiosità. La serie illustrava soggetti di carattere allegorico e mitologico a sfondo filosofico e morale sul tipo dei noti cicli senesi (quello di palazzo Ugurgieri e quello, anch’esso perduto, di palazzo Bandinelli), ma doveva essere assai più spettacolare, come parrebbero testimoniare anche soltanto le dimensioni dei dipinti, in rapporto del resto con la ricca decorazione che li accompagnava, frutto della ristrutturazione berniniana. Le opere, nove in totale, furono con ogni probabilità spostate in seguito alla morte del cardinale Flavio nel 1693, al momento del passaggio del palazzo alla famiglia Odescalchi. Si trovano infatti presenti in un inventario del palazzo Chigi di piazza Colonna, appartenuto all’altro nipote del papa, Agostino, e se ne ha traccia fino al 1753, epoca dalla quale risultano disperse (Mignosi Tantillo, p. 373).
Un riflesso della complessità allegorica di queste opere può cogliersi nel dipinto con Cratete e la Sorte (Roma, Galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini), appartenuto ad Agostino Chigi, già presente in un inventario del 1658, e posto in relazione con una delle tele del ciclo di analogo soggetto, forse un modello o una prova. Anche l’allegoria con Alessandro Magno e le Parche (Cincinnati, Art Museum), proveniente dalle collezioni della famiglia Placidi di Siena e probabilmente esaltante la gloria di Alessandro VII, è stata collegata con uno di quei dipinti, descritto come «le Parche con una Pallade all’Inferno» e pagato nel 1660 (Mignosi Tantillo, p. 377).
Il M. realizzò opere anche per i possedimenti dei Chigi fuori Roma: della decorazione ad affresco eseguita per Formello, che compare tra i pagamenti del cardinale Flavio, si conserva soltanto una labile traccia, mentre rimane la pala con S. Agostino medita sulla Trinità per la collegiata di S. Maria Assunta ad Ariccia del 1665.
Dopo la morte di Alessandro VII (1667), il M. appare costantemente documentato fino al 1674 negli stati delle anime di S. Maria in Via (Sperindei).
Nonostante gli impegni romani il M. mantenne contatti con la città di origine.
Lo testimoniano gli invii ricorrenti di opere come una perduta tela realizzata per l’oratorio di S. Stefano ai Pispini, commissionata nel 1660 e saldata al pittore nel 1665 (che sarebbe da identificarsi con un Ritrovamento del corpo di s. Stefano conosciuto attraverso una copia, anch’essa al momento irreperibile: Ciampolini, 1988), quella con S. Giovanni Battista che rimprovera Erode (Siena, chiesa di S. Giovanni Battista in Pantaneto) che si presume arrivata a Siena ai primi degli anni Sessanta e che manifesta contatti con la corrente del secondo classicismo romano, la pala con S. Girolamo per l’altare Cori in duomo, oggi perduta, e quella con la Nascita, circoncisione e imposizione del nome del Battista per l’oratorio di S. Giovanni Battista o dei Tredicini firmata e datata 1675, ultima opera conosciuta del pittore.
Il M. morì probabilmente a Roma nel 1676.
La data della scomparsa, riportata da Romagnoli senza specificarne la fonte, ma conosciuta in precedenza da Giovan Girolamo Carli che la riscontrò annotata in un registro dei confratelli della Compagnia di S. Giovanni Battista in Pantaneto (Siena, Biblioteca comunale, Mss., A.II.8, c. 28r; C.VII.2: G.G. Carli, Notizie di belle arti, sec. XVIII, c. 146r), appare verosimile anche in considerazione del fatto che l’8 apr. 1676 veniva redatto il testamento del M., residente in un’abitazione a Capo le Case, in cui lasciava erede universale Giovanni di Basilio Agostani, disponendo la propria sepoltura nella chiesa di S. Caterina da Siena (Sperindei).
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A. Pezzo