TELESIO, Bernardino
– Nacque a Cosenza, pare nel 1509, dai nobili Giovanni e Vincenza Garofalo, da cui nacquero inoltre Paolo, Valerio, Francesca, Giovannella, Tommaso, Gerolamo e Giovanni Andrea.
La data di nascita si deduce da quanto scrisse nel 1612 Giacomo Greco, cistercense calabrese che lo disse scomparso nel 1588 a 79 anni. L’anno della morte è certo e Greco poté attingere a fonti locali, sicché il 1509 è data probabile, coerente con il matrimonio dei genitori l’anno prima.
Se la data di nascita non è documentata ma probabile, lo stesso non può dirsi per altri fatti riportati dai biografi. In particolare, si ripete che Telesio prima dei dieci anni avrebbe lasciato Cosenza per Milano, seguendo lo zio paterno Antonio (v. la voce in questo Dizionario), che ne sarebbe stato l’unico maestro. Sarebbe poi passato a Roma con lo zio, restandovi coinvolto nel sacco del 1527, catturato dai lanzichenecchi ma liberato grazie al concittadino Bernardino Martirano. Dopo di ciò si sarebbe trasferito a Padova (mentre lo zio andava a Venezia), dove si sarebbe laureato nel 1535. Tuttavia, Vincenzo Maria Egidi (1954, p. 23) notò che mai sui frontespizi dei suoi libri e nei documenti a lui attinenti Telesio fu definito, o si definì, dottore. Luigi De Franco (1995), poi, obiettò che non c’era prova di una laurea avendone parlato per primo Niccolò Comneno Papadopoli, nell’Historia Gymnasii Patavini del 1726. Telesio stesso, nel De natura, aveva scritto di avere iniziato a filosofare tardi, senza illustri maestri accademici («neque in publicis inclitisque Italiae Academiis a praestante aliquo viro edoceri»: De natura..., 1565, c. IIIrv). In realtà, nessuna testimonianza coeva attesta né la sua frequenza giovanile dell’ateneo né che avesse seguito lo zio nella Repubblica di Venezia, mentre la notizia del giovanile passaggio padovano apparve trentadue anni dopo la morte del filosofo, in un tomo postumo dell’Historiarum sui temporis di Jacques-Auguste de Thou (1620) che, tra l’altro, riferì che a Padova Telesio sarebbe andato dopo Milano e prima di passare a Roma, mentre la successione poi generalmente accolta (Milano - Roma - Padova) fu proposta da Giovanni Imperiale (1640) dopo altri vent’anni, sempre senza alcun riferimento a documenti. La frequenza giovanile dell’università è, dunque, da considerarsi indimostrata. Il che spinge a verificare altri fatti sulla sua formazione, a partire dalla cattura nel sacco di Roma. Anche in questo caso le fonti coeve tacciono, e il primo a tramandare la notizia fu Imperiale, che lo disse catturato dai lanzi e liberato dopo due mesi da Bernardino Martirano. Imperiale aveva così sviluppato un vago accenno di de Thou (1620, p. 265), secondo cui Telesio era stato coinvolto nel sacco, scampando al pericolo ma spogliato di tutto («parumque a periculo abfuit, re omni spoliatus»).
Nondimeno, le improbabili notizie di Imperiale ebbero il suggello di Francesco Fiorentino (1872-1874), che riferì all’avvenimento una lettera a Bernardino Martirano del fratello Coriolano. Fonte affidabile, dati i rapporti fra quest’ultimo e Telesio; ma neanche la lettera di Martirano contiene riferimenti alla cattura, né «al Sacco di Roma, a Roma o a una situazione di pericolo: è una semplice raccomandazione» (Addante, 2014, p. 41; Martirano, 1556, c. 8v). Tra l’altro, sebbene la lettera non sia datata, ne è possibile una datazione non impressionistica, poiché Martirano vi faceva cenno a qualcosa d’imprecisato trasmesso al nipote Mario, figlio di Bernardino, suggerendo a quest’ultimo di chiedere consiglio sulla cosa «ad nostros Gravelios» (Martirano, 1556, c. 8v), cioè a Nicolas Perrenot de Granvelle e suo figlio Antoine. Ora, Antoine nel 1527 aveva dieci anni, sicché è impossibile far risalire la lettera a quell’anno. Si aggiunga che in un manoscritto sulle famiglie nobili di Cosenza successivo al 1527 (vi si dice Antonio Telesio morto da poco), Bernardino Martirano ricordò Bernardino Telesio, ma tacendo sulla supposta prigionia da cui l’avrebbe liberato.
Appurata l’assenza della notizia nelle fonti coeve, è probabile che, nel dire Telesio coinvolto nel sacco, de Thou si fosse basato sull’elogio di Antonio Telesio di Paolo Giovio. Avendo de Thou scritto che Bernardino aveva seguito lo zio sin da Milano, dovette dedurne che se Antonio era presente al sacco, come scrisse Giovio, doveva esserlo pure Bernardino. Dello stesso trasferimento a Milano, però, fu sempre de Thou il primo a parlare nel silenzio delle fonti coeve; mentre, di nuovo, la notizia fu avallata da Imperiale. Da questa catena di fraintendimenti può dedursi che Bernardino non fu allievo dello zio. Questo è dimostrato anche dal silenzio dei Telesio, che mai si citarono l’un l’altro. Né vi è traccia di un rapporto maestro-allievo negli elenchi di cosentini illustri editi quando Bernardino era ancora in vita o da poco morto: Bernardino Martirano, Gabriele Barrio, Girolamo Marafioti, perfino allievi di Telesio come i suoi parenti Sertorio Quattromani e Giovan Paolo d’Aquino, celebrarono Antonio e Bernardino, ma senza cenni ad alcun discepolato.
È evidente l’improbabilità che una notizia di tale portata fosse omessa sia da persone che conoscevano benissimo Telesio, sia dai due Telesio stessi. Difatti, qualcosa di completamente diverso s’apprende dall’allievo Quattromani, divulgatore ed erede di Bernardino alla guida dell’Accademia Cosentina, che precisò come Telesio avesse studiato con un allievo di Aulo Giano Parrasio: Carlo Giardino di Malito, casale di Cosenza (Quattromani, 1999, pp. 263-265). Notizia confermata dai versi del calabrese Francesco Grano nel De situ, laudibusque Calabriae (1570 ca.): «Parrhasius, Jardinus: in his Thilesia proles» (Fiorentino, 1872-1874, I, p. 76).
Pure se Bernardino studiò a Cosenza e non con lo zio, ciò non implica che non ne subisse l’ascendente e già Fiorentino (ibid., p. 47) aveva richiamato l’attenzione su dei versi della poesia Cicindela, in cui Antonio scrisse: «Omniparens natura, hominum rerumque creatix», con un naturalismo spinto e lucreziano di cui si scorge l’eco in Bernardino. L’ammirazione del giovane Telesio per uno zio che, mentre egli cresceva, diveniva sempre più famoso dando lustro alla famiglia, è quindi fuori discussione. D’altra parte, lo stesso zio non lo trascurava, se nel 1526 il «clerico» Bernardino ottenne un beneficio su una chiesa in diocesi di Cosenza (Russo, 1977, p. 365). Altro beneficio aveva ricevuto l’anno prima suo fratello Paolo, ed entrambi derivavano dai rapporti dello zio con la Curia: all’appoggio di questi certo Bernardino dovette l’introduzione alla corte di Clemente VII, che già nel 1526 lo definì suo «familiare» (ibid.). Ciò parrebbe attestare la presenza romana di Telesio, con lo zio, in prossimità del sacco; ma in realtà – a parte quanto detto – nessuna fonte precedente l’aprile del 1531 dimostra che Telesio fosse a Roma (ibid., p. 401). Mentre è importante rilevare come sin dal 1526 egli fosse definito chierico, benché verosimilmente si limitasse a prendere gli ordini minori, per accedere ai benefici ecclesiastici dei quali godette.
Nel novembre del 1531 Telesio ebbe l’incarico dal papa di occuparsi di «negotia» che, per Luigi De Franco (1995, p. 23), avrebbe dovuto «trattare in Napoli». Nondimeno, nel regesto del documento citato da De Franco non v’è riferimento a Napoli, leggendosi: «Pirro de Mendoza, viceregi Calabriae, commendatur Bernardinus Thilesius, clericus cunsentinus, familiaris suus, pro quibusdam negotiis pertractandis» (Russo, 1977, p. 405). Nel 1534-35, invece, Telesio era di nuovo a Roma, donde scriveva ai fratelli Girolamo e Francesco Orsini (Simonetta, 2015, pp. 433-435); e proprio in Roma le tracce disponibili localizzano il centro della sua vita negli anni Trenta, seppure in più occasioni se ne allontanasse. Se in questi spostamenti si recasse pure a Napoli è impossibile documentarlo prima del febbraio del 1540; a una presenza a Napoli si riferì egli stesso nel 1542, seppure in modo oscuro e tale da impedire una precisa datazione (Archivio di Stato di Parma, Epistolario scelto, b. 15, f. 61, c. 5r). A ogni modo, nel 1536 Telesio si trovava ancora a Roma, alla corte di Paolo III, che in un motuproprio concesse altri benefici a quel «familiari» e «continuo commensali nostro» (Mercati, 1937, p. 216). È vero che quelle espressioni garantivano privilegi non attestando la continua presenza di Telesio alla tavola del papa; ma intanto il documento rivela come, dopo l’elezione di Paolo III (1534), egli fosse restato nell’orbita della corte pontificia. Per di più, in effetti, nel 1536 la sua presenza nell’Urbe è documentata (Egidi - Borretti, 1988, p. 152).
All’inizio del 1537, invece, si spostò a Firenze e poi a Bologna. Da qui Benedetto Varchi scrisse il 20 febbraio a Piero Vettori: «Il Tilesio mi dette la vostra due giorni sono, la quale mi fu gratissima sopra modo; e vi ringratio [...] d’avermi fatto amico messer Tilesio, che siamo spesso insieme e mi pare aver fatto acquisto non picciolo. E pur ieri messer Donato [Giannotti] e egli e io parlammo buona peza di voi e delle Annotationi sopra Cicerone» (Varchi, 2008, p. 47). I rapporti con Firenze rivelati dalla lettera sono sicuramente da legare al cardinale Niccolò Gaddi, fiorentino e arcivescovo di Cosenza, di cui Paolo Telesio fu vicario e del quale Bernardino risulta «familiare» in alcuni atti stipulati nell’ottobre del 1537, a Padova, nel primo soggiorno patavino di Telesio che sia documentato (Piovan, in corso di stampa; per i rapporti con Gaddi cfr. anche Caro, 1957, pp. 70-72, 75; Samuels, 1974, p. 304; Firenze, Biblioteca nazionale, Filze Rinuccini, 11, ins. 45, c. 243r).
Rientrato a Roma, dove nel marzo del 1538 vide più volte l’amico Annibal Caro, è presumibile che ritornasse poco dopo a Padova. In marzo, infatti, vi era stato assassinato l’astronomo Giovan Battista d’Amico, suo compagno di studi a Cosenza; e un documento del 1541 attesta che Telesio si era premurato di pagarne un debito. È vero che ciò non accerta la sua presenza padovana: nell’atto era qualificato come «absenti» (Piovan, 2005, p. 154), agendo in sua vece un procuratore, e lo stesso sarebbe potuto accadere nel 1538. Tuttavia, almeno indirettamente il ritorno a Padova pare attestato dal fatto che nel luglio di quell’anno egli fosse di passaggio da Firenze, forse ospite di Pietro Carnesecchi, sulla via del rientro a Roma (Martelli, 2009, pp. 43 s.), dove tornò entro agosto, quando Caro scrisse a Varchi che «Tilesio [...] è arrivato qui di nuovo» (Samuels, 1974, p. 304).
Dopo un passaggio a Cosenza nel marzo del 1539, la sua vita nell’Urbe proseguì fino al 1545, salvo alcuni spostamenti. In quegli anni esercitò spesso il ruolo di procuratore, cui affiancava le prebende ecclesiastiche e le (pare magre) rendite di famiglia. Oltre a far parte della famiglia del cardinale Gaddi, pare certo che fosse a servizio di un protagonista della corte farnesiana: Niccolò Ardinghelli, segretario e datario pontificio, vescovo e poi cardinale, ai cui «servizi» nel 1542 era anche Tommaso Telesio, fratello di Bernardino (Mercati, 1937, p. 226). Quest’ultimo si rivolgeva ad Ardinghelli come «signore et patrone mio» in una lettera del 1542 con cui perorava una faccenda a nome del cardinale e giurista cosentino Pier Paolo Parisio, lontano parente di Parrasio (Archivio di Stato di Parma, Epistolario scelto, b. 15, f. 61, c. 5r). In altra missiva del 1543, invece, Telesio scriveva al suo patrono per caldeggiare alcuni affari da parte di Giovanni Della Casa (c. 2r); ed è da rimarcare «la strettezza» di Telesio con monsignor Della Casa, del quale «fu tanto domestico» (d’Aquino, 1596, p. 9; Quattromani, 1999, p. 263) e con il quale ci furono scambi di benefici ecclesiastici negli anni Quaranta.
La collaborazione con Ardinghelli non dovette filar liscia se in una lettera a Della Casa, del 1545, Carlo Gualteruzzi lamentò: «Egli [Telesio] sta col suo cardinale assai poco bene et senza alcuna sua colpa» (Corrispondenza..., 1986, p. 124; la curatrice ritiene sia Antonio Telesio, ma Filiberto Walter Lupi, 1988, dimostra che è Bernardino). Che fosse lui il «suo cardinale», s’arguisce dalla risposta di Della Casa («se pur [Telesio] avesse tanto martello del cardinal Ardinghelli, che non lo potesse sopportare», Corrispondenza..., 1986, p. 130), sebbene richiamasse pure il cardinale Gaddi, che era comunque fra i patroni dei Telesio. A ogni modo, Gualteruzzi perorava la candidatura di Bernardino a segretario del monsignore, divenuto nunzio a Venezia e in cerca, appunto, di un segretario: Della Casa accarezzò l’ipotesi e Telesio andò a Venezia, ma a quanto pare la cosa poi sfumò.
Negli anni romani Telesio frequentò ambienti curiali e letterari, oltre a involversi in «molti intrighi» e «in mille suoi interessi et affari» (ibid., pp. 134, 175), venendo anche a contatto con gli spirituali, nutriti dal magistero di Juan de Valdés. I rapporti sono attestati da più fonti e che sussistessero già allora lo dimostra intanto una lettera inviata nel 1540 da Napoli dal valdesiano Iacopo Bonfadio (1978: «Il Tilesio è qui meco in casa del Cenami, tutto pensoso e fantastico entro un sacco di faccende», p. 78). La stessa data è indicativa, poiché nel 1539-40 ci fu un afflusso di eterodossi da tutta Italia nella Napoli di Valdés; movimento cui non era estraneo il lucchese Francesco Cenami, presso cui Telesio risiedeva. Documentata, inoltre, è la conoscenza di due valdesiani di primo piano come Carnesecchi e Giovan Francesco Alois, nonché del cardinale Giovanni Morone; e rivela le relazioni con quel mondo pure la sua amicizia con Gualteruzzi. Difatti, a quegli ambienti rinvia anche una lettera a quest’ultimo indirizzata da Lione, nell’ottobre del 1541, dal cardinale Gaddi, nella quale lo pregava di presentare due sue missive ai cardinali Gasparo Contarini e Reginald Pole, «molto miei patroni» (Lettere..., 1877, p. 181), porgendo i propri omaggi a Vittoria Colonna e Pietro Bembo. Gaddi avvertiva che a quest’ultimo aveva inviato una lettera «per le mani del Tilesio» (p. 182), e latore delle lettere di Gualteruzzi, da Bologna, era lo stesso «Tilesio», al quale Gaddi si dichiarava proprio per questo estremamente grato.
La lettera, dunque, svela altri legami con il mondo valdesiano; del resto, a tal riguardo pare sintomatico che alcuni versi di Bernardino indirizzati al bolognese Achille Della Volta si trovino in un codice contenente un’Oratio per Vittoria Colonna e testi di Marcantonio Flaminio e Bembo. Senza dimenticare che, in quegli anni, animavano il movimento valdesiano anche vecchi amici dello zio, come Apollonio Merenda e Scipione Capece; e che Bernardino si legò a un altro valdesiano di prima grandezza come Mario Galeota, che «hebbe tutti i suoi scritti» (Quattromani, 1999, p. 95) e del quale il filosofo scriverà: «Marius Galeota, qui vir et quantus!» (De colorum..., 1570, c. 1r), mentre questi scontava l’ennesima condanna dell’Inquisizione.
In ogni caso, nel 1545 Telesio lasciò Roma muovendosi fra Venezia (dove raggiunse Della Casa) e Padova. A riprova del suo ritorno patavino vi è il resoconto di una dimostrazione anatomica del medico Realdo Colombo tenuta, appunto, a Padova, alla presenza di Ranuccio Farnese, Bernardo Salviati e altri, fra cui «Bernardinus Thilesius» (Colombo, 1572, p. 476). L’episodio – narrato in un libro uscito nel 1559 – non è datato, ma Colombo insegnò a Padova nel 1544-45 succedendo ad Andrea Vesalio, sebbene a volte lo avesse sostituito già dal 1542. Per una datazione più precisa soccorrono gli altri presenti: Salviati fu a Padova dal 1545 e Farnese la lasciò in maggio, mentre fino ad aprile Telesio era ancora a Roma, sicché l’episodio dovrebbe risalire al maggio del 1545 (una lettera di Gualteruzzi a Della Casa, del luglio del 1545, attesta che «il Thilesio non dovrà tardar molto a comparire a Murano», Corrispondenza..., 1986, p. 175; ma ciò non implica che fosse ancora a Roma). In effetti, il racconto parrebbe anche suggerire una sua tarda frequentazione dell’ateneo veneto: Colombo (1572, p. 476) disse che tutti i giovani presenti alla dimostrazione avevano dato di sé prove che andavano al di là delle tradizionali aspettative della «Patavina Academia». Tuttavia, il passo non è del tutto chiaro e così inteso cozzerebbe con quanto detto da Telesio nel De natura sul suo esser privo di maestri accademici, seppure questa non sia un’insuperabile obiezione. Quel che è certo è che con l’ateneo venne a contatto e che il suo soggiorno padovano si protrasse per un po’. In due lettere indirizzategli, Coriolano Martirano (1556, cc. 31v-32v) si rammaricava di non aver potuto fare un salto a Padova per salutarlo, pur essendo passato da quelle parti. In effetti, s’identifica il destinatario delle epistole in Antonio e non in Bernardino (A. Telesio, 1762, pp. 235-237). Eppure, Martirano si riferiva a zone del Nord-Est d’Italia, menzionando – oltre Padova – Treviso e le Alpi; e poiché Coriolano non andò più a nord di Roma finché visse Antonio Telesio, è impossibile che le lettere fossero indirizzate a lui. Mentre si spostò a Trento (cui si riferiscono evidentemente le missive) per partecipare al Concilio nel 1545; ed è a quell’anno che possono datarsi le lettere, come la lezione di Colombo cui partecipò Telesio.
Dopo il soggiorno in Veneto, comunque, rientrò a Roma, dove era nel 1548-49 e forse anche nel 1546 e 1550, mentre nel dicembre del 1549 era a Cosenza, comparendovi come «testimonio» in un atto stipulato dal fratello Paolo in qualità di affittuario dell’abbazia di S. Maria di Corazzo, in territorio di Scigliano (Pometti, 1902, p. 47). Tornò più stabilmente a Cosenza al massimo nel 1551, quando affittò per dodici anni una sega ad acqua in Sila, dedicandosi poi a vari altri affari, ma pare con risultati non brillanti. Nel 1552 sposò la nobile vedova Diana Sersale, dalla quale ebbe quattro figli: Prospero, Antonio, Anna e Vincenza.
A quel tempo s’impegnò pure in politica: nel 1554-55 fu sindaco dei nobili; e partecipò al processo che portò alla riforma del governo cosentino, con la serrata del patriziato del 1565. Dagli anni Cinquanta due fazioni dell’aristocrazia locale si scontrarono sul problema della nobilitazione dei dottori in legge. Quella contraria alla nobilitazione fu vincente, e di essa il filosofo fu parte, come documenta la sua partecipazione a due riusciti tentativi del patriziato di impedire nuove nobilitazioni anni dopo: nel 1575 e nel 1579 (Copia di protesta fatta da taluni gentiluomini cosentini contro di altri gentiluomini dell’istessa città..., in Cosenza, Biblioteca civica, ms. 34858, cc. n.n.; Egidi - Borretti, 1988, p. 75). Non a caso, per oltre due secoli i Telesio saranno tra le pochissime famiglie che governeranno la città.
Negli anni Cinquanta, comunque, si dipanò anche la maggior lena negli studi che lo porterà a pubblicare le sue prime opere. Nel De natura (1565, c. iiiv) confessò che era stato disturbato da continui affanni e distrazioni, riuscendo a concentrarsi solo isolandosi reiteratamente («in magnis plerumque solitudinibus»). A ciò si riferì pure d’Aquino (1596: «Per poter meglio investigare i segreti della natura, per molti anni si disgiunse dalla frequenza de gli huomini [...] et si raccolse in un monastero di frati di san Benedetto et ivi habitò», p. 17); e in una lettera del 1569 al cardinale Guglielmo Sirleto, patrono della famiglia, Telesio scrisse di aver trascorso in un’abbazia, «qual’ho tenuta molti et molti anni in fitto [...] bona parte della vita mia» (Crostarosa Scipioni, 1937, pp. 113 s.). Si ripete che l’abbazia fosse la grangia della Trinità di Seminara dopo Francesco Bartelli (1906, p. 26), che l’ipotizzò sulla base del racconto del benedettino Angelo Grillo che incontrò Telesio, appunto, a Seminara. Grillo, però, non fece cenno né a grange né ad abbazie né a una residenza di Telesio, scrivendo: «Vidi io [Telesio] in Seminara», e aggiungendo che «ragionai seco» e che «spiegò poscia un gran fascio di manoscritti» (Tiraboschi, 1777, p. 368; fu Girolamo Tiraboschi, p. 366, a ipotizzare che a Seminara fosse il monastero evocato da d’Aquino). Tutto ciò, quindi, sarebbe potuto anche dipendere, per esempio, da una visita di Telesio al medico e naturalista Francesco Sopravia, che «fiorì nel tempo del Telesio» (Campanella, 2010, p. 454) e viveva, appunto, a Seminara. Né dimostra la residenza in quell’abbazia – come è stato ipotizzato – il fatto che Telesio ricevette negli anni Trenta privilegi nelle diocesi di Mileto e di Oppido, che né con Seminara né con abbazie o grange avevano a che fare.
Era invece l’abbazia cistercense di S. Maria di Corazzo, non lontana da Cosenza, tenuta da Bernardino, dopo il fratello Paolo, per «molti et molti anni in fitto»: almeno dal 1558 al 1572. Che lì si fosse ritirato lo attesta un manoscritto del 1597 del cistercense calabrese Cornelio Pelusio, ove si legge su Corazzo: «In hac abatia Bernardinus Telesius philosophus consentinus, locatarius sive affictuarius dictae abbatiae per plures annos, contra peripatheticos suum aedidit opus» (Napoli, Biblioteca nazionale, Branc., I.F.2, c. 255r). A fronte di ciò De Franco (1995, p. 85) restò su Seminara, obiettando che d’Aquino aveva parlato di un monastero benedettino (non cistercense) e Telesio, scrivendo a Sirleto, di un’«abazia di monsignor di Selve». In realtà, i cistercensi sono benedettini, sicché ciò semmai conferma la testimonianza di d’Aquino; inoltre, non era commendatario di Corazzo (né di Seminara) alcun fantomatico «monsignor di Selve», frutto di una lettura erronea per «monsignor di Feltre» (Roma, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat., 6190, c. 255r); e monsignor vescovo di Feltre era Tommaso Maria Campeggi, commendatario, appunto, di Corazzo. Per di più, nella lettera a Sirleto in cui parlò dell’abbazia, Telesio precisò che nell’affitto di essa era comparso, ma solo a titolo formale, il fratello Tommaso. Ebbene, questi comparve, solo formalmente, proprio nell’affitto di Corazzo (Egidi - Borretti, 1988, pp. 36 s.). Inoltre, Telesio ebbe problemi per dei grani di Corazzo; e per grattacapi con grani dell’abbazia di monsignor di Feltre scrisse a Sirleto.
Accertato che fu a Corazzo, «tale ritiro non dové avvenire una volta soltanto», come mostra già il termine «plerumque» usato da Telesio (De Franco, 1995, p. 24). Pertanto, dovette appartarsi nell’abbazia ciclicamente, alternando la residenza agli impegni in città, dove fece base fino al 1562. Nel 1563, invece, andò a Brescia per sottoporre a Vincenzo Maggi le idee che avrebbe esposto nel De natura iuxta propria principia, uscito due anni dopo a Roma, dove si fermò per rientrare a Cosenza nel 1566; ma passando prima da Napoli dandovi alle stampe l’Iris.
Al precedente periodo cosentino, dunque, dovrebbero risalire anche gli incontri con alcuni giovani, da cui nacque l’«Academia Telesiana», definizione attestata nella stampa di alcune dispute tenute a Venezia dal telesiano Antonio Persio (cfr. la dedica a Ugolino Gualteruzzi in Disputationes, 1576, pp. 7 s.). Un riferimento alla «nostra Academia» è, però, già in una lettera del 1571 (Quattromani, 1999, p. 34); e una missiva a Telesio dello stesso Quattromani (p. 19), del 1563, indica come a quella data almeno un nucleo dell’Accademia esistesse già da qualche tempo.
Nel 1551 era sorta a Cosenza una prima accademia, il cui «principe» era il letterato beneventano (poi vittima dell’Inquisizione) Niccolò Franco, animata da patrizi e letterati, fra cui il valdesiano Valentino Gentile. Non è noto se Telesio l’avesse frequentata, ma il suo nome appare nella fonte da cui si apprende di questo sodalizio. Certo è che fra l’accademia di Franco e quella di Telesio intercorsero al massimo pochi anni; e sovrapponibili erano sia gli ambienti sociali coinvolti sia le modalità organizzative, con il principe che orientava i lavori e proponeva un tema svolto dagli accademici. Entrambi i sodalizi, inoltre, non brillarono per ortodossia. Dagli anni Quaranta Cosenza e provincia furono ampiamente percorse dalla propaganda ereticale di valdesiani come Galeota e Merenda, che conquistò diversi cosentini al punto che negli anni Cinquanta l’Inquisizione indagò vari frati dell’ordine dei minimi e il vicario arcivescovile, Antonio Soriceo, membro dell’accademia di Franco e tenuto a vigilare sull’ortodossia nella diocesi.
In capo a qualche anno la penetrazione ereticale venne ancor di più alla luce e vari nobili abiurarono, tra cui Valerio e Paolo Telesio, mentre un altro fratello di Bernardino, Tommaso, divenuto arcivescovo di Cosenza, nel 1566 fu minacciato d’arresto dall’Inquisizione poiché insabbiava le indagini sull’eresia nella diocesi. Lo stesso filosofo non fu esente dalle accuse: nel 1568 un predicatore «disse essergli stato detto da una persona che in questa diocesi [di Cosenza] erano alcuni che non credono l’immortalità dell’anima» (Addante, 2014, p. 91). Chi aveva svelato la circolazione di tali idee era un giovane accademico, Agostino Doni, arrestato, torturato e condannato alle galere; ma le accuse miravano a Telesio e al De natura. L’opera, tutta volta a indagare la natura per se stessa («iuxta propria principia») e all’attacco frontale ad Aristotele, ovviamente non rivendicava espressamente la credenza nella mortalità dell’anima. Nondimeno, i termini «anima» e «spiritus», «usati come sinonimi», non rinviavano all’anima spirituale ma solo a una sostanza materiale derivante dal seme («e semine educta»), che aveva sede nel cervello (Bondì, 1997, pp. 36-38). Le pressioni crebbero al punto che nel 1570, mentre s’era spostato dall’anno prima a Napoli, Telesio dovette difendersi dalle accuse con il nuovo arcivescovo di Cosenza, Flavio Orsini. Fra «le altre propositioni contra la religione», scrisse, «si può cavar ch’io metto l’anima mortale» (De Miranda, 1993, p. 373); e nel discolparsi si dichiarava «prontissimo ad abbruggiar tutte le mie opere» (p. 374) ove emergesse distacco dall’ortodossia romana.
Quanto fin qui detto spiega ogni «compromesso faticosamente accettato» e ogni «devota precisazione» (Garin, 1961, pp. 444, 447) delle edizioni successive, a partire dalla seconda del 1570, che offrì diverse variazioni sin dal titolo, divenuto De rerum natura iuxta propria principia. Fra le modifiche, risaltava il cenno a un’«anima [...] quam a Deo [...] infusam esse» (c. 22r). Un’accortezza dovuta ai problemi richiamati, poiché per il resto egli restava interessato all’anima materiale e soprattutto più in generale alla materia, ai principi agenti caldo e freddo, e agli altri elementi naturali. Da indagare in primis con il senso e l’esperienza; ma anche con la ragione, come precisò replicando a Francesco Patrizi, dichiarandosi pure «amante e cultore di una filosofia totalmente umana» (Bondì, 1997, p. 60).
Dopo la stampa del libro, affiancato da tre saggi, Telesio rientrò a Cosenza, dove restò grosso modo stabilmente fino al 1584, come attestano vari documenti notarili attinenti ad affari o a questioni familiari: un atto del 1579 ne localizza la casa in via «Giostra vecchia» (Egidi - Borretti, 1988, p. 75). In quegli anni si consolidò la sua accademia; mentre i vuoti nella documentazione (1572-74, 1578, 1580) suggeriscono suoi soggiorni al di fuori di Cosenza, verosimilmente pure a Napoli.
Nel 1576 morì, ucciso, il figlio Prospero, non ultimo di una catena di lutti familiari. Entro il 1561 erano mancati la moglie, il fratello Paolo e la figlia «Vincenzella», premorta alla madre. Nel 1569 era scomparso, all’età di 45 anni, l’altro fratello prediletto Tommaso, seguito l’anno dopo dalla sorella Giovannella (o «Jannella»), mentre era già morta la sorella Francesca. Poi Prospero, ventitreenne; e nel 1579 l’ennesimo fratello: il barone Valerio trucidato dai vassalli della sua Castelfranco.
Nel 1584 Telesio tornò a Napoli, risiedendo presso i duchi Carafa di Nocera, con cui i rapporti di patronage risalivano negli anni. Nel 1570 aveva dedicato il De mari a Ferrante Carafa, e a lui indirizzò l’edizione definitiva del De rerum natura (1586), scritta in casa sua. L’opera si presentava in nove libri (rispetto ai due delle edizioni precedenti), e per quanto apparissero maggiori le cautele – come in un passo nel quale sconfessava tutto quanto aveva scritto se in contrasto con l’ortodossia cattolica –, restava un monumento di quella «filosofia totalmente umana» che aveva perseguito per decenni. Prevedibilmente, pertanto, nel 1596 il De rerum natura, con il De somno e il Quod animal universum, finirono all’Indice dei libri proibiti.
Al massimo nel 1587 Telesio rientrò a Cosenza, morendovi nel 1588. A quanto pare fu sepolto l’8 ottobre (de Chiara, 1897, p. 4), sicuramente nella cappella di famiglia nel duomo, dove, in un luogo imprecisato, dovrebbero riposare tuttora le sue spoglie.
Opere. De natura iuxta propria principia liber primus et secundus, Roma, A. Blado, 1565; Ad Felicem Moimonam Iris, Napoli, M. Cancer, 1566; De rerum natura iuxta propria principia liber primus et secundus, Napoli, G. Cacchi, 1570 (contiene De his, quae in aëre fiunt et de terraemotibus, De colorum generatione, De mari); De rerum natura iuxta propria principia libri IX, Napoli, O. Salviani, 1586. Seguirono postumi i Varii de naturalibus rebus libelli ab Antonio Persio editi, Venezia, F. Valgrisi, 1590, con la ristampa degli opuscoli del 1570 (con modifiche) e gli inediti De cometis et lacteo circulo, De iride, Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur contra Galenum, De usu respirationis, De coloribus, De saporibus e De somno. Francesco Fiorentino (1872-1874, II, pp. 325-374), poi, pubblicò il De fulmine, il Quae et quomodo febres faciunt e il De rigoris aestusque, qui rigorem excipit, causis; mentre l’Ad Felicem Moimonam Iris è stato scoperto da R. Bondì (Paris 2009). Sono note, infine, tre produzioni in versi: l’Ad Iohannam Castriotam Carmen, in Rime et versi in lode della illustrissima et eccellentissima signora donna Giovanna Castriota Carrafa..., Vico Equense, G. Cacchi, 1585, pp. 189-191, e due componimenti indirizzati ad Achille Della Volta editi in Lupi, 2011, p. 10.
Fonti e Bibl.: Napoli, Società napoletana di storia patria, ms. XX.C.12: B. Martirano, Commentariolum de aliquibus antiquioribus patriciis consentinis familiis (post 1534), c. 16v; C. Martirano, Epistolae familiares, Napoli 1556, cc. 8v, 31v-32v, 35v; G. Barrio, De antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571, p. 117; R. Colombo, De re anatomica, Paris 1572, p. 476; Disputationes libri novarum positionum Antonii Persii, triduo habitae Venetiis..., Firenze 1576, pp. 3-10; G.P. d’Aquino, Oratione in morte di B. T...., Cosenza 1596; G. Marafioti, Croniche et antichità di Calabria..., Padova 1601, c. 265r; G. Greco, Ioacchim abbatis et Florensis ordinis chronologia, Cosenza 1612, pp. 22 s.; J.-A. de Thou, Historiarum sui temporis continuatio..., Orleans 1620, p. 265; G. Imperiale, B. T., in Id., Musaeum historicum et physicum, Venezia 1640, pp. 78-80; A. Telesio, Opera, a cura di F. Daniele, Napoli 1762, pp. 235-237; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, 1, Modena 1777, p. 368; F. Fiorentino, B. T. Ossia studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento italiano, I-II, Firenze 1872-1874; Lettere di scrittori italiani del secolo XVI, a cura di G. Campori, Bologna 1877, p. 181; S. de Chiara, Bricciche telesiane, Cosenza 1897; F. Pometti, Carte delle abbazie di S. Maria di Corazzo e di S. Giuliano di Rocca Fallucca in Calabria, in Studi e documenti di storia e diritto, XXII (1901), p. 47; F. Bartelli, Note biografiche (B. T. - Galeazzo di Tarsia), Cosenza 1906; G. Gentile, B. T., Bari 1911; N. Crostarosa Scipioni, Lettere inedite di B. T. e Giano Pelusio nel carteggio del cardinale Guglielmo Sirleto, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, VII (1937), pp. 105-120; S.G. Mercati, Appunti telesiani, ibid., pp. 215-241; A. Altamura, Noterelle sul Cinquecento Calabrese, I, Il fulmine a Castrovillari e una lettera di B. T., ibid., XIX (1950), pp. 54-56; V.M. Egidi, Gli archivi in Calabria e la Calabria negli archivi, in Calabria nobilissima, VIII (1954), pp. 18-25 (in partic. p. 23); S.G. Mercati, Autografi sconosciuti di B. T., in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, XXV (1956), pp. 3-17; A. Caro, Lettere familiari, I, a cura di A. Greco, Firenze 1957, pp. 70-72, 75, 118, 120, 165; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, ad ind.; R.S. Samuels, An addition to Annibal Caro’s Lettere familiari: notes on a letter to Benedetto Varchi, in Renaissance Quarterly, 1974, vol. 27, n. 3, pp. 300-305 (in partic. p. 304); F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, III, Roma 1977, p. 365; I. Bonfadio, Le lettere e una scrittura burlesca, a cura di A. Greco, Roma 1978, pp. 78 s.; Corrispondenza Giovanni Della Casa Carlo Gualteruzzi, a cura di O. Moroni, Città del Vaticano 1986, pp. 99, 108, 124, 129 s., 134 s., 160, 175 s., 180, 182; V.M. Egidi - M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, Cosenza 1988; F.W. Lupi, T., Della Casa e Quattromani, in Quaderni del Rendano, II (1988), pp. 81-85; B. T. e l’idea di natura «iuxta propria principia», Roma 1989; B. T. nel 4° centenario della morte (1588), Napoli 1989; Atti del Convegno internazionale di studi su B. T., Cosenza 1990; B. T. e la cultura napoletana, a cura di R. Sirri - M. Torrini, Napoli 1992; G. De Miranda, Una lettera inedita di T. al cardinale Flavio Orsini, in Giornale critico della filosofia italiana, LXXII (1993), pp. 361-375; L. De Franco, Introduzione a B. T., Soveria Mannelli 1995; R. Bondì, Introduzione a T., Roma-Bari 1997; S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, Rende 1999, pp. XIII, 19 s., 26, 30, 34, 46 s., 86, 94-96, 120, 157, 262-265; F. Piovan, Giovanni Battista Amico, B. T., Giovanni Battista Doria: documenti e postille, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, XXXVIII (2005), pp. 153-169; B. Varchi, Lettere, a cura di V. Bramanti, Roma 2008, p. 47; U. Martelli, Lettere a Piero Vettori, a cura di V. Bramanti, Manziana 2009, pp. 43 s.; T. Campanella, Lettere, a cura di G. Ernst, Firenze 2010, p. 454; F.W. Lupi, Alle origini della Accademia telesiana, Cosenza 2011, ad ind.; L. Addante, Valentino Gentile e il dissenso religioso nel Cinquecento, Pisa 2014, pp. 63-91 e ad ind.; M. Simonetta, Due lettere inedite del giovane B. T., in Bruniana & Campanelliana, XXI (2015), pp. 429-435; G. Barbero - A. Paolini, Le edizioni antiche di B. T.: censimento e storia, Paris 2017; R. Bondì, Il primo dei moderni. Filosofia e scienza in B. T., Roma 2018; F. Piovan, B. T. tra i fuoriusciti fiorentini: nuovi documenti, in corso di stampa.