Bernardino Telesio
Se non si rinviene immediatamente una schietta componente politica nel pensiero telesiano, il tentativo di scardinare i principi della filosofia naturale di Aristotele e la conseguente messa all’Indice delle opere sono all’origine della caratterizzazione di Telesio come difensore della libertas philosophandi; questo tratto, su cui conviene la respublica litteraria europea, appare ulteriormente declinato in Italia e specialmente nel Mezzogiorno, dove questa immagine svolge una costante funzione fondativa nella costruzione di una tradizione di volta in volta impugnata dai novatores, costantemente orientata nella costruzione di una scienza a vantaggio della pubblica felicità.
Bernardino Telesio nasce a Cosenza nel 1509 da famiglia di estrazione nobile. Il suo primo precettore è lo zio Antonio, raffinato umanista cresciuto nella temperie culturale cosentina animata dalla presenza di Giano Parrasio (1470-1522). Al seguito dello zio, Bernardino nel 1517 si sposta dapprima a Milano, rimanendovi fino al 1523, poi a Roma. Nel 1527 viene fatto prigioniero durante il sacco e liberato grazie all’intervento di un parente, Bernardino Martirano. Probabilmente lo stesso anno raggiunge nuovamente Antonio Telesio, che nel frattempo si è trasferito a Venezia. Ben presto però, sempre assecondando gli spostamenti dello zio, Telesio ritorna a Cosenza, e compie frequenti viaggi a Roma, ove, anche in virtù della rete di rapporti già consolidata dallo zio Antonio, stabilisce proficui contatti con alcuni degli esponenti di rilievo della corte di papa Pio III e poi di Pio IV, come i cardinali Guglielmo Sirleto, Alessandro Farnese e Gasparo Contarini. Sposa Diana Sersale; dalla loro unione nascono quattro figli, Prospero, Antonio, Anna e Vincenza.
Nel 1563 decide di compiere un viaggio alla volta di Brescia, allo scopo di incontrare Vincenzo Maggi, professore a Padova e a Ferrara, celebre esponente dell’aristotelismo, a cui Telesio sottopone le tesi che si appresta a divulgare. Nel viaggio di ritorno compie una lunga sosta a Roma. Nel 1564 il papa Pio IV gli offre la carica di arcivescovo di Cosenza, che egli declina suggerendo al pontefice di nominare in sua vece il fratello. Nel 1565, presso i torchi dello stampatore Antonio Blado esce il De natura iuxta propria principia. Di lì a poco il rientro nella città natale, ove decide di risiedere stabilmente, intervallando lunghi soggiorni a Napoli.
Nella metropoli partenopea Telesio nel 1570 licenzia per i tipi di Giuseppe Cacchi la seconda versione del De natura, con il titolo De rerum natura iuxta propria principia, in risposta alle critiche che erano state sollevate nel frattempo da esponenti delle gerarchie ecclesiastiche cosentine intorno ad alcune proposizioni contenute nella prima edizione romana. Contestualmente Telesio, sempre presso il medesimo stampatore, fa uscire anche tre dei suoi opuscoli, precisamente il De colorum generatione opusculum, il De mari e il De his quae in aere fiunt et de terraemotibus, ciascuno dei quali dedicato a tre esponenti di spicco della vita romana e napoletana, ovvero Tolomeo Gallio, che era stato segretario di papa Pio IV, Giovanni Girolamo d’Acquaviva, duca d’Atri, e Ferrante Carafa, conte di Soriano e futuro duca di Nocera, presso la casa del quale Telesio aveva trovato ospitalità e protezione.
Nel 1576 la vita di Telesio viene all’improvviso sconvolta dalla morte del figlio Prospero, tragicamente ucciso. Ne segue un drastico allontanamento da Cosenza e un rafforzamento dei legami con la città di Napoli e in special modo con la casata del succitato Ferrante Carafa.
Gli ultimi anni della sua vita, che si concluderà nel 1588, sono essenzialmente occupati dalla riscrittura del De rerum natura, che vedrà la luce nel 1586 a Napoli nella definitiva versione in nove libri, e dalla parallela rielaborazione dei Libelli, che verranno invece pubblicati postumi a Venezia nel 1590 grazie alle cure del discepolo Antonio Persio.
Con queste parole Giovanni Gentile, ripensando la lezione di Francesco Fiorentino, chiudeva il suo celebre saggio su Telesio del 1911:
Il mondo, cui Telesio tenne fisso il suo sguardo tenace per quasi cinquant’anni con l’ansia nel cuore e il bisogno di compenetrarlo della sua ragione, è un mondo ormai scomparso dai nostri occhi, e non può destare più il nostro interesse. I suoi scritti, dentro ai quali pur s’agitò l’anima sua poderosa, son divenuti desolatamente aridi ai nostri occhi e semplici documenti per gli storici, cui spetta di ravvivarne il senso che ebbero per Telesio e pel tempo suo. Ma negli sforzi di Telesio per ricostruire una natura, che avesse in sé i suoi principii, gli storici scorgono la prima grande battaglia combattuta, sulla soglia dell’età moderna, per rivendicare la libertà e il valore immanente della vita; e però essi additano nel Cosentino uno degli eroi del pensiero (Gentile 1911, 3a ed. 1955, p. 231).
Fiorentino, che aveva riconosciuto come principio animatore della speculazione del filosofo cosentino una sorta di Selbsterhaltung intrinseca alla natura, aveva vigorosamente sostenuto:
La propria conservazione è insieme il contenuto della inclinazione naturale, non meno che della legge morale, quivi sotto la forma d’istinto, qui come fine conosciuto e voluto. Questo fine però è interno, e rivendica all’uomo la propria dignità. Si potrebbe obbiettare che la medesima internità di fine appartiene a tutte le cose naturali, e che l’uomo non è più né meno delle altre cose. Ma non è molto essersegli attribuito un valore proprio, fosse anche come semplice cosa naturale? (Fiorentino 1872-1874, 2° vol., p. 161).
È l’idea di natura iuxta propria principia, affrancata dalla metafisica aristotelica e dalla dottrina delle forme, a fronte delle quali sta una materia in sé ritenente i principi di caldo e di freddo quali agenti di produzione e conservazione; e nelle forme mondane superiori, al cui vertice sta la natura umana, uno spiritus che, alimento di vita, è entità immateriale ma pur sempre abbarbicata alla materia; è a questa luce che Telesio è investito dalla maggiore storiografia filosofica italiana, tra Otto e Novecento, del ruolo di eroe del pensiero. Poiché la sfida, ininterrottamente proclamata e perseguita, che il Cosentino lancia ad Aristotele e alla sua scuola, di fondare un nuovo e verace sistema di filosofia ne fa uno dei vessilliferi della libertas philosophandi, nel cui nome ci si ribella all’auctoritas dogmaticamente costituita. Da qui anche le traversie patite dal pensiero telesiano in sede di ricezione fino alle accuse di eterodossia, ai bandi, ai decreti di proibizione, che trascinano la proposta di un nuovo systema naturae sul terreno dello scontro politico, quando politico si intenda relativamente alla politica della cultura nella stagione controriformistica.
Si è detto che Telesio non è pensatore naturaliter politico, né tanto meno colloca la politica al centro della propria speculazione. Anzi. Nell’esordire alle stampe, nello spazio del proemio alla prima versione del De rerum natura in due libri del 1565, questo è il ritratto che egli schizza di sé:
Neanche in questa ultima fase della vita mi è stato concesso tempo per dedicarmi alla filosofia, senza aver mai avuto grande libertà di tempo né grande tranquillità d’animo, né l’insegnamento di un chiaro maestro né la frequentazione delle rinomate accademie italiane, ma per la maggior parte del tempo in solitudine, oppresso da fastidiosissime incombenze ho letto e riletto le opere greche, riuscendomi poco perspicue quelle in lingua latina poiché piene di termini incomprensibili (De natura iuxta propria principia liber primus et secundus, 1565, Proemium, pp. [3]-[4]).
Dunque una meditazione che si compie nell’otium appartato dal consesso civile e il riconoscimento dello spazio del philosophari in una professata solitudine apportatrice di tranquillitas animi. Nell’edificio filosofico che Telesio dal 1565 al 1586 viene accrescendo, non si trova una sala ove dimori il discorso politico. La propensione più spinta a temi pertinenti alla vita civile è rinvenibile nel solo nono e finale libro del De rerum natura iuxta propria principia nell’ultima versione del 1586. Qui Telesio abbozza un’etica intrecciata alla psicologia che è venuto costruendo nei libri precedenti. Cuore della psicologia telesiana è lo spiritus che presiede alle funzioni vitali e assorbe in sé l’ufficio ascritto all’anima nella precedente tradizione filosofica; fine della natura è la conservazione dello spiritus; ne consegue che vita virtuosa è quella che si accordi con il libero svolgimento dello stesso spiritus, risolvendosi in un moderato edonismo. L’analisi telesiana delle passioni, dei vizi e delle virtù è condotta secondo la consueta strategia di controcanto ad Aristotele, il cui testo aggredito è l’Etica Nicomachea. Telesio assume, benché ab externo, la divinità garante di una possibile harmonia mundi entro la costante discordia dei principi di caldo e di freddo che percorre la natura:
Che se si guardano più attentamente le rimanenti cose che a noi appaiono beni e che noi desideriamo, si vede che tutti vengono desiderati in vista della conservazione; ed il discorso che seguirà chiarirà abbastanza che le cose che lo spirito desidera ed avversa ed opera, le desidera e le avversa e le opera proprio perché desidera e si procaccia la sua conservazione (De rerum natura iuxta propria principia, a cura di L. De Franco, 3° vol., 1976, p. 339).
Ne discende che la ricerca del bene che lo spirito è in grado di conseguire, secondo natura e secondo le proprie forze, renderà gli uomini non «più lenti o più inetti», bensì
più alacri e pronti a procurarci quello che è il vero bene dell’uomo e che l’immensa bontà di Dio ha voluto procurare a noi persino col sangue del suo proprio Figlio, e che la sua stessa somma benevolenza ha concesso alle nostre operazioni, che noi possiamo operare nel suo ossequio ed onore (p. 341).
Telesio insomma stabilisce una sorta di parallelismo fra il bene «momentaneo», «incerto» e «impuro», che si consegue mediante le operazioni prodotte secondo natura, e quello ottenuto con l’osservanza dei precetti divini, di modo che «anche coloro che vivono questa vita si procureranno una somma e sicura quiete, mentre quando passeranno all’altra vita si procureranno una somma ed eterna beatitudine»; per poi concludere:
insomma, a meno che non siamo solo empi e feroci, ma anche del tutto stupidi e stolti, disprezzeremo quasi e respingeremo le forze ed i beni della natura e la stessa natura, mentre venereremo ed ameremo al massimo la somma potenza e bontà di Dio e Dio stesso, ed opereremo continuamente secondo i suoi precetti per procacciarci quel bene che egli ci ha promesso (p. 341).
In definitiva, Telesio resta però fedele a un tradizionale ideale di medietas: lo spirito non solo è così necessitato a rivolgersi verso «coloro con i quali può scambiare le cose e respingere la violenza degli altri» (p. 389), ma ha bisogno «maggiormente di quelli ai quali interessi la salute propria e dei suoi e con i quali possa vivere in familiarità» (pp. 389-91). Deve, insomma, uniformarsi a
quella facoltà intelligente, la quale stabilisce in quale misura è necessario aiutare gli amici oppure remunerarli e onorarli e inoltre anche allietarli e sopportare con la dovuta sopportabilità i loro errori e anche i loro peccati, è una virtù la quale non ingiustamente da un punto di vista generale può essere detta Umanità (p. 391).
Moderazione, appianamento dei contrasti, concordia: ideali che ben si accordano con la condizione sociale di un litteratus che, come Telesio, vive il processo, svolgentesi nel Mezzogiorno spagnolo del secondo Cinquecento, di «burocratizzazione degli intellettuali nel quadro della costruzione del nuovo impianto assolutistico» (G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), 1994, p. 129). L’esperienza telesiana certo si compie entro il tessuto della socialità del viceregno: Telesio è protetto da potenti personaggi come i cardinali Guglielmo Sirleto e Flavio Orsini, ha un fratello vescovo di Cosenza, un altro è barone nelle terre calabresi autoctone. Tuttavia, su un diverso versante quella sua predetta evocazione di magnae solitudines ha altrettanto fondamento: tra Cosenza, Napoli e Roma, quindi Padova e gli altri centri dell’Italia settentrionale, la peregrinazione di Telesio scopre al contempo il volto del déraciné, mai veramente dotato di piena legittimazione istituzionale né accademica.
Alle soglie della stampa napoletana del De rerum natura iuxta propria principia, sul finire dell’aprile 1570, Telesio scrive al cardinale Flavio Orsini:
Io credevo che se pur la mia innocentia non bastasse a farmi viver quieto, lo dovesse poter far le tante tribolationi e miserie, che ho patito, poi ch’eran tali, che mi dovevano trovar compassione appresso qualsivoglia animo fiero, et nemico. Credevo anche che in Cosenza non ci fossero occhi tanto acuti, che quelli miei errori quali non sono stati visti in Roma, né per il resto d’Italia, fosser visti in Cosenza. Ma vedo mi son ingannato, che ’l Reverendo Monsignor Gio. Battista di Benedetti mi dice esser stato avvertito in Cosenza, che nell’opra mia stampata già cinqu’anni in Roma con licentia del padre Lucatello ci son altre proposizioni contra la religione. Et dalle quale si può cavar ch’io metto l’anima mortale, et che negho ’l Cielo sia mosso dall’intelligentie (G. De Miranda, Una lettera inedita di Telesio al cardinale Flavio Orsini, «Giornale critico della filosofia italiana», 1993, 72, 3, p. 374).
D’un canto, già tra la prima e la seconda stampa l’opera maggiore di Telesio rischia di incorrere nell’accusa di eresia; dall’altro, l’autore si rivela efficacemente incuneato in un sistema di rapporti che lo lega, per via diretta o mediata, alle gerarchie ecclesiastiche. Tutta la parabola dell’opera di Telesio sarà scandita da questa duplicità: a partire dai primi rumori che desta l’apparizione del De rerum natura nella versione del 1570, e dai dibattiti che egli conseguentemente sostiene in prima persona o per la persona interposta del suo discepolo Antonio Persio, in alcuni centri di cultura dell’Italia settentrionale, si ravvisa, fino all’ultima edizione del libro nel 1586, una volontà di negoziato con gli avversari ma tanto più con l’autorità ecclesiastica, e al contempo un’irriducibile incompatibilità con i dettami dell’ortodossia filosofica e religiosa. Dopo una lunga sequenza di aspre polemiche, appena l’anno successivo all’edizione finale dell’opera telesiana, a Padova, la roccaforte dell’aristotelismo dove Telesio aveva appreso la filosofia per farsi poi pugnace oppositore di Aristotele, una commissione di teologi e filosofi così si pronunciava:
È noto a tutti quanta utilità dalla dottrina aristotelica ogni scuola, ogni accademia e la respubblica litteraria sempre abbia ricavato, ricavi e ricaverà, e quanto volentieri uomini elevati, non solo pagani, ma anche credenti, docti, pii e santi si sono impegnati a fondo nel confrontarla, interpretarla e difenderla. Per questa ragione, non vi è dubbio alcuno che se essi fossero ancora tra noi e comprendessero il malefico disegno di Bernardino Telesio di abolirla, si opporrebbero unanimemente a tanta audacia. Se infatti sorge una disputa intorno alla natura, i costumi, i vizi e le virtù, dove mai potrebbero rivolgersi i principi della scuola della filosofia umana e divina, se gli si sottrae lo stesso Aristotele? (Firpo 1951, p. 40).
In quello stesso 1587 il giurista napoletano Giacomo Antonio Marta mandava alle stampe in Roma il Pugnaculum Aristotelis adversus principia Bernardini Telesii. A rispondere a costui quattro anni dopo era il giovane Tommaso Campanella che si diceva nutrito nell’alveo della filosofia telesiana; calabrese anch’egli, si poneva in pubblico come difensore ed erede del maestro cosentino. Lo faceva stampando a Napoli la sua Philosophia sensibus demonstrata, dedicata a Mario Del Tufo, esponente di una potente famiglia nobiliare incardinata sugli uffici governativi:
Per questo ho deciso di dedicare a te e di pubblicare sotto la tua protezione queste – quali che siano – mie dispute di argomento naturale, intese a rivelare la verità, a mettere in alta considerazione gli antichi e a difendere Bernardino Telesio, filosofo sommo, devotissimo a te e al tuo nobile padre (ché voi andate d’accordo solo con uomini onesti e colti): così esse non avranno da temere gli schiamazzi della gente (T. Campanella, Lettere, a cura di G. Ernst, con la collaborazione di L. Salvetti Firpo, M. Salvetti, 2010, pp. 532-33).
Nel 1596 il De rerum natura, con due altre operette telesiane, entrava nell’Index librorum prohibitorum di Clemente VIII, sia pure con la clausola donec expurgetur. Ma, ben presto, sulle soglie del Seicento un acuto analista della contemporaneità, il poligrafo Alessandro Tassoni, in uno dei suoi Pensieri, intitolato al quesito “Se in filosofia si possa ad Aristotile contraddire”, poteva diagnosticare:
So che mi sarà rinfacciato che Pietro Ramo, Girolamo Cardano e Bernardino Telesio, i quali tra i nostri moderni vollero ad Aristotile contraddire, fecero non solamente burlarsi, ma proibir l’opere loro. Al che risponderò io che l’opere dei primi due non furono proibite, perché le contraddicessero al testo di Aristotile […] ma perché in materia di religione elle contenevano molte eresie (A. Tassoni, Prose politiche e morali, a cura di P. Puliatti, 2° vol., 1980, p. 297).
Tassoni, dunque, introduce una significativa distinzione, che serve anche a dar conto delle dinamiche della successiva ricezione della filosofia telesiana:
E quelle del Telesio non furono proibite, ma solamente sospese, perché quell’ingegno acuto, per avidità di negare quanto avea detto Aristotile, negò anche alcune proposizioni che nella teologia servono di principi […] Ma se detratte le eresie, i tre primi autori furono da principio dagli aristotelismi beffeggiati e burlati, ora ben sono conosciuti da chi gl’intende […] e già il Telesio ha cominciato a far setta, e i telesiani s’odono nominar per le scuole aderendovi particolarmente i calabresi suoi (p. 297).
Le parole di Tassoni esemplificano come, già nel primissimo Seicento, Telesio, dopo le controversie filosofiche che in vita lo avevano opposto ai partigiani della tradizione e ne avevano provocato la messa all’Indice, non sia più guardato relativamente ai singoli aspetti del suo pensiero precedentemente dibattuti, bensì sia assunto nella sua interezza come emblema del libero pensiero. Un processo che in verità, a più limitata latitudine, negli ambienti culturali del Mezzogiorno d’Italia, si avvia ben presto. Si pensi a come già tra la seconda e la terza edizione del De rerum natura, a Napoli, nei circuiti accademici più rappresentativi della cultura del viceregno, a Telesio venga attribuita una funzione archetipica nella sovversione della auctoritas aristotelica, posta a preludio di una nuova e libera filosofia della natura. In uno dei discorsi accademici recitato nel consesso presieduto da Giovan Battista Rinaldi, in cui si raccolgono i nomi più reputati della letteratura e della filosofia professate nella Napoli dell’ultimo Cinquecento, la figura di Telesio è così posta sulla scena dove si intende disegnare una genealogia del pensiero italiano di area meridionale. L’albero disegnato da Rinaldi ospita nei rami più antichi Agostino Nifo, Simone Porzio e Marcantonio Zimara. Segue l’«astro» Giovanni Bernardino Longo
che da quasi trentacinque anni con grande frutto di tutti i suoi discepoli e con gran diletto nella nostra città professa pubblicamente la filosofia. E non c’è nessuno che non ravvisi quanto tutti noi gli siamo debitori per la sua erudizione e per il suo impegno indefesso (G.B. Rinaldi, Academica tertia. In quibus orationes continentur ab eius academicis publice habitae, Neapoli 1580, f. CLXXIIr).
La parabola si chiude ovviamente con Telesio, di cui Rinaldi sottolinea innanzitutto il «profondo ingegno», la «grande acutezza» dei pensieri intorno ai segreti della natura, la prosa efficace:
La sua dottrina – così conclude –, benché in netto contrasto con quella di Aristotele, è da molti avidamente ricercata, fra i quali vanno annoverati in special modo Mario Galeota iuniore, Scipione Cosso, cavalieri nobilissimi della nostra cittadinanza; e poi Tarquinio Prisco, vescovo di Cariati e chiaro giurisperito; Giovan Battista Raimondi, che con grande approvazione professa pubblicamente le scienze matematiche a Roma. Sono inoltre fra costoro Antonio Persio e Latino Tancredi, niente affatto disprezzabili cultori delle lingue greca e latina: uno di stanza a Roma, l’altro a Napoli hanno difeso pubblicamente ottenendo consensi la dottrina di Telesio (f. CLXXIIr).
Tra quanti sono assidui dell’accademia rinaldiana è Latino Tancredi, medico e filosofo naturale, definito «uomo di molte lettere e di molto giudicio, e gran defensore della dottrina di Telesio» (S. Quattromani, La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità e scritta in lingua toscana, a cura di E. Troilo, 1914, p. 82). Queste parole escono dalla penna di Sertorio Quattromani, altro discepolo di Telesio, che più si impegna nella divulgazione delle idee filosofiche del maestro pubblicando a Napoli nel 1589 un compendio del De rerum natura con il titolo La philosophia di Berardino Telesio ristretta in brevità et scritta in lingua toscana. Latino Tancredi è uno dei maestri di Marco Aurelio Severino, figura chiave della cultura napoletana negli anni che dividono il tentativo compiuto da Federico Cesi di acclimatare a Napoli una sede consorella dell’Accademia dei Lincei da quelli in cui i dirompenti contenuti della rivoluzione scientifica diverranno patrimonio fecondante l’azione dell’Accademia degli Investiganti. Ed è importante notare che Cesi sceglie, per estendere il suo progetto di rinnovamento del sapere, subito dopo la città del papa, la Napoli che è stata teatro di una vasta adesione al pensiero telesiano, così da sostanziare anche il primo tempo della speculazione di Tommaso Campanella.
Nei primi anni del carcere patito in Castel Nuovo a Napoli, Campanella, scosso dall’ansia di una libertà che si vede drammaticamente proibita, celebra la memoria di Telesio in un sonetto intitolato “Al Telesio Cosentino”, i cui versi iniziali sono efficace testimonianza dell’immagine che di Telesio si è venuta costruendo: «Telesio, il telo della tua faretra / uccide de’ sofisti in mezzo al campo / degli ingegni il tiranno senza scampo; / libertà, dolce alla verità impetra», versi oggetto di tale autocommento: «Questi sono accademici, discepoli del gran Telesio, ch’uccide Aristotile, tiranno degli ingegni umani» (T. Campanella, Opere letterarie, a cura di L. Bolzoni, 1977, p. 236). Questa appropriazione campanelliana del pensiero di Telesio crea un asse genealogico destinato a rimanere attuale anche nella mutata temperie seicentesca, quando sempre più rarefatta sarà la presenza dei contenuti del pensiero telesiano.
Nella stagione del rinnovamento culturale fecondato dalla rivoluzione scientifica, Telesio sarà disertato quanto a lettura, ma costantemente invocato a rappresentare una linea di libero pensiero, anzi sarà posto all’origine di quella linea. Il già citato Severino, che è scienziato e letterato di fama europea e che, professando l’anatomia, incappa nelle maglie dell’Inquisizione napoletana, svolge la propria opera in un quadro teorico ormai lontano dai temi distintivi della linea Telesio-Campanella. Ma, calabrese inurbato a Napoli, sempre si dirà allievo di Campanella, e vorrà recuperare quella linea Telesio-Campanella con un intento marcatamente ideologico di autoconsacrazione in quanto erede di una tradizione, che è tradizione inventata dai pensatori meridionali a legittimare di sé idee e funzione. Quella linea è largamente attestata e rappresentata, sinanche sulle pareti della biblioteca di un grande erudito e collezionista come Cassiano Dal Pozzo (1588-1657), anima del mecenatismo nella Roma barberiniana, cui Severino chiede di far intagliare su acquaforte le copie dei ritratti di Telesio e Campanella per il proprio studio, cosicché quegli uomini illustri stiano ad alimentare la sua azione di rinnovamento del sapere scientifico.
Se non i volti degli uomini illustri campeggianti sulle pareti della biblioteca di Dal Pozzo – giacché il libro era privo di incisioni –, certo lo spirito di quei letterati e filosofi correva per l’Europa grazie agli Epigrammata in virorum literatorum imagines, quas illustrissimus eques Cassianus a Puteo sua in bibliotheca dedicavit, stampati a Roma nel 1641, che si richiamavano a un illustre antecedente anch’esso apparso a stampa privo delle immagini che l’autore vi avrebbe voluto, La galeria di uno dei massimi del barocco, Giovan Battista Marino. Qui si legge il madrigale dedicato a Telesio:
Contro l’invitto Duce / de la Peripatetica bandiera / armar l’ingegno osasti, / o de la Bruzia gente onore e luce. / E se ben di sua schiera / la palma non portasti, / tanto fia che ti basti: / poi che la gloria e la vittoria vera / de l’imprese sublimi ed onorate / è l’averle tentate (G.B. Marino, La galeria, a cura di M. Pieri, 2 voll., t. 1, 1979, p. 123).
Proprio perché del tutto estrinseco ai problemi del pensiero telesiano, il madrigale di Marino ci appare rilevante. La galeria giunge a stampa nel 1619, quando Telesio può dirsi ormai autore da più parti citato, ma ben poco meditato. Abilmente, Marino si appropria di un’immagine ormai codificata, e non senza intelligenza, riconoscendo a Telesio quale maggior merito l’aver egli oppugnato «l’invitto Duce della Peripatetica bandiera». E invitto è aggettivo che ad Aristotele a fronte di Telesio ben si attaglia, tanto che si guardi alla proibizione ecclesiastica in cui incorre il De rerum natura, quanto che si consideri l’efficacia del systema naturae proposto da Telesio. A ben guardare, oltre Marino, dire Telesio «o della Bruzia gente onore e luce» non è cosa priva di concretezza storica. Telesio nel primissimo Seicento è eretto a simbolo del patrimonio di cultura rivendicato dalla città di Cosenza e della vita civile di questa; è dell’estate del 1605 un appello della città calabra ai cardinali della Congregazione del Santo Uffizio, così formulato:
La Città di Cosenza, supplicando, fa sentire alle Signorie Vostre illustrissime qualmente, avendo il Vicario di monsignor Arcivescovo di detta città questi mesi adietro, per ordine delle Signorie Vostre illustrissime, eretta una congregazione di più omini di varie scienzie la revisione de’ libri sospesi, secondo le regole del nuovo Indice pubblicato per ordine della felice memoria di Papa Clemente VIII, e sopra ciò fatte più congregazioni, quando pensava godere qualche frutto a beneficio universale, conforme la santa mente delle Signorie Vostre illustrissime, è stata tralasciata e dismessa per colpa di alcuni regolari, i quali, per aver poca inclinazione ad essa città e suoi cittadini, procurano la totale dismissione di detta congregazione, per ovviare, in così fatto modo, che non si riveggia l’opera di Bernardino Telesio suo concittadino, della quale si è trattato in dette congregazioni (Firpo 1951, pp. 46-47).
La supplica si chiude auspicando che i cardinali della Congregazione esaudiscano tale richiesta, atta a ristabilire il corretto svolgimento del riesame:
E perché in questo viene grandemente interessata detta città, che desidera che l’opere di suoi concittadini si veggano d’ogni parte corrispondenti alla verità catolica, supplica le Signorie Vostre illustrissime a degnarsi, in conformità dell’altri ordini dati, commandare a detto Vicario, che voglia procedere avanti in dette congregazioni con persone di dottrina e bontà e non sospette (Firpo 1951, pp. 46-47).
La funzione fondativa nella costruzione di una tradizione impugnata dai novatores, mentre essi stessi conducono innanzi il proprio progetto riformatore, si trova additata con chiarezza in uno dei più attrezzati interpreti primo seicenteschi della storia della filosofia, pure lui impegnato ad aggiungere pietre al nuovo edificio del sapere e appieno incuneato nella coeva respublica litteraria; Pierre Gassendi, che dà conto di quale sia ora la ricezione del pensiero di Telesio in un’Europa attraversata dalla scienza di Galileo Galilei e di René Descartes:
Poi ci sono stati di recente alcuni i quali, intenti a fabbricare una nuova fisica, si discostarono dal suddetto sistema. Primo fra questi può essere considerato Bernardino Telesio che nel secolo precedente ha stabilito il caldo e il freddo come due principi attivi e incorporei e ne ha aggiunto uno passivo e inerte (P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Id., Opera omnia, 1° vol., 1658, p. 245).
Questa immagine ormai standardizzata di Telesio, primo banditore di una fisica antiperipatetica, è, contemporaneamente, agitata nel Mezzogiorno d’Italia sul fronte della riforma culturale. Uno degli ambienti del secondo Seicento di maggior vivacità sul territorio italiano nell’affermazione e nella diffusione della nuova filosofia e della nuova scienza è quello della Accademia degli Investiganti, capitanata da Tommaso Cornelio, che si forma alla scuola del succitato M.A. Severino. Cornelio professa una fisica ormai intrisa degli scritti di Galilei e di Descartes, ma nel disegnare il proprio autoritratto, quando deve redigere un curriculum per presentarsi candidato a una cattedra dell’Università di Bologna, si rappresenta discendente, egli pure calabrese, di Telesio:
Scorrendo i volumi superstiti dei filosofi greci poche cose trovavo in cui potesse acquietarsi l’intelletto; e perciò lodavo il disegno di Bernardino Telesio, mio conterraneo, che si oppose con vigore ai filosofi antichi, e apprezzavo quella libertà d’ingegno di cui nel secolo scorso così come nella nostra età hanno rivendicato Patrizi, Bruno, Gilbert, Campanella, Harvey, Descartes, Galilei e molti altri (F. Baldelli, Il fascicolo «Cornelij Tomaso di Cosenza filosofo-medico-astronomo e letterato – 1647» nell’Archivio di Stato di Bologna, «Nouvelles de la république des lettres», 1983, 2, pp. 75-95, in partic. p. 83).
L’Accademia degli Investiganti persegue un progetto di riforma del sapere che abbia ricaduta sulla vita civile della Napoli spagnola, mediante il tentativo di radicare in un sostrato socioistituzionale gli avanzamenti della nuova scienza. Tra gli autori prediletti dagli accademici, oltre Galilei, Descartes, Gassendi, Thomas Hobbes, figura anche Francis Bacon, per il suo ideale di scienza utile, rivolta all’accrescimento del benessere collettivo. Proprio quel Bacon che aveva scritto di Telesio:
De Telesio autem bene sentimus atque eum ut amantem veritatis et scientiis utilem et nonnullorum placitorum emendatorem et novorum hominum primum agnoscimus («Noi abbiamo una buona opinione di Telesio e riconosciamo che è stato amante della verità, utile alle scienze, riformatore di non poche opinioni e primo degli uomini nuovi») (F. Bacon, De principiis atque originibus secundum fabulas Cupidinis et Coeli, in Id., Works, 5° vol., 1862, p. 339).
Un progetto, quello degli Investiganti, per una parte fallito, date le resistenze e le irrimediabili discontinuità peculiari della politica vicereale, ma, d’altronde, un progetto destinato a fecondare un corso di idee che attraverserà tutto il restante Seicento e quindi caratterizzerà i modi dell’affermazione del pensiero illuministico a Napoli nel secolo venturo. Negli anni Ottanta del Seicento Leonardo di Capua, che dell’Accademia degli Investiganti era stato membro, in un decennio che sarà chiuso da un processo di vasta portata ai propugnatori delle nuove dottrine filosofiche e scientifiche accusati di ateismo, ancora recupera la memoria di Telesio e dei suoi seguaci, a difesa della libertà di pensiero:
chi è di voi, che non sappia, che qui Bernardino Telesio, cui diede il cuore innanzi ad ogni altro di fronteggiare i maggiori tiranni della filosofia, che quella avevano a vile e a durissimo servaggio condotta, compose e diè fuora que’ suoi pregiatissimi libri della natura delle cose? Chi è di voi, che non sappia, che qui parimente poi Sertorio Quattromani, Antonio Persio, Latino Tancredi, Tomaso Campanella, Vincenzo e Giovan Battista della Porta, Col’Antonio Stigliola, Francesco Muti, e altri egregi filosofanti scossero virilmente il giogo imposto alle scuole dall’autorità degli antichi maestri? (L. di Capua, Del parere ... divisato in otto ragionamenti, 2° vol., 1714, p. 140).
Questo Telesio, ripetutamente invocato quale padre fondatore di una tradizione di libero pensiero, sarà ancora con tali vesti presente nella Napoli rischiarata dalle idee dei Lumi: la Napoli di Antonio Genovesi, uno dei centri italiani più vivi nella ricezione e nella rielaborazione dell’Illuminismo. L’uso della filosofia è concepito da Genovesi a vantaggio della pubblica felicità; celebre la formula da lui stesso coniata per caratterizzare il suo itinerario intellettuale: metafisico fattosi mercatante, a dire del suo trascorrere dalla filosofia all’economia politica. Nel tracciare una storia ideologicamente orientata della restauratio litterarum compiutasi in Italia, Genovesi procede dall’impulso dei Greci per poi ricordare la rinascita dalla «avvilente barbarie» propiziatasi nell’età di Alfonso re di Napoli, sotto i cui auspici «gli italiani acquistarono fama di grande dottrina in ogni campo del sapere». Anche Genovesi si muove declinando un albero genealogico, che principia da Giovanni Pontano (1429-1503) «uomo di fama immortale fra i poeti e i filosofi civili», per chiudersi con Telesio, per il quale Genovesi ricorre alle parole con cui Giovanni Imperiali ha intessuto il medaglione del pensatore cosentino:
Questi demolì con tutta la forza del suo robusto spirito le teorie fisiche del principe dei peripatetici, infiammò gli ingegni più nobili del suo tempo nelle scuole di mezzo mondo… e, dedicandosi appassionatamente allo studio delle matematiche, mai pensate prima e quasi imperscrutabili (A. Genovesi, Dissertatio physico-historica de rerum origine et constitutione, a cura di S. Bonechi, M. Torrini, 2001, p. 189).
Abilmente, Genovesi piegava ai propri fini di protagonista del Settecento riformatore italiano l’immagine di Telesio formalizzata nella storia della filosofia coeva. Massima testimonianza appare quella di Johann Jakob Brucker:
Crediamo che debba massimamente apprezzarsi Telesio, poiché ha osato abbattere i principi di Aristotele, nella qual cosa riuscì meglio che nella costruzione di un nuovo edificio di scienza naturale, per quanto nel mentre muta gli attributi della materia in principi incorporei può esser trafitto dalle stesse frecce con cui ha combattutto contro Aristotele.
Proprio a partire da queste premesse, Brucker fa discendere la relativa sfortuna patita dalla filosofia telesiana:
Ciò può ben spiegare perché la filosofia telesiana arrise a pochi, e il suo destino seguì di poco la morte del suo creatore; egli fu tuttavia un nobile esempio, e assai utile nell’incoraggiare gli uomini, affinché abbandonati gli aridi deserti della fisica peripatetica cercassero campi più ameni e, cacciati e banditi fantasmi e le ombre, cercassero principi più veri e rispondenti al senso. È dunque titolo di gloria per Telesio l’essersi offerto come guida per essi e aver infuso coraggio (Historia critica philosophiae a tempore resuscitatarum in Occidente literarum ad nostra tempora, 4° vol., t. 1, 1766, p. 460).
L’immagine di Telesio sedimentatasi entro la historia philosophica settecentesca si consegnerà nelle mani degli interpreti del secolo a venire, lungo la linea Fiorentino-Gentile che si è richiamata in apertura. Qui Telesio troverà posto, rinnovatamente, nel progetto di ricostruzione di una «filosofia della nuova Italia», calato, Benedetto Croce adhortante, sulle spalle di Giovanni Gentile. Da lì sarebbero ripartiti, alla luce di diverse istanze, sia Nicola Abbagnano, nel suo Telesio del 1941, sia Eugenio Garin, nei sondaggi tra anni Quaranta e Cinquanta, animati dallo sforzo, tra filologia e filosofia, di ricostruire il volto di Telesio lungo la storia del pensiero filosofico italiano.
De natura iuxta propria principia liber primus et secundus, Romae 1565.
De rerum natura iuxta propria principia liber primus et secundus denuo editi, Neapoli 1570.
De colorum generatione opusculum, Neapoli 1570.
De mari. Liber unicus, Neapoli 1570.
De his quae in aere fiunt et de terraemotibus. Liber unicus, Neapoli 1570.
De rerum natura iuxta principia libri IX, Neapoli 1586.
Varii de naturalibus rebus libelli ab Antonio Persio editi, Venetiis 1590.
De rerum natura, a cura di V. Spampanato, 3 voll., Modena-Genova-Roma 1910-1923.
De fulmine, a cura di C. Delcorno, «Aevum», 1967, 41, pp. 474-506.
De rerum natura iuxta propria principia, testo critico e trad. it. di L. De Franco, 3 voll., 1° vol. e 2° vol., Cosenza 1965-1974, 3° vol., Firenze 1976.
Varii de naturalibus rebus libelli, 1a ed. integrale, testo critico a cura di L. De Franco, Firenze 1981.
De rerum natura iuxta propria principia, pref. di M. Torrini, Napoli 1989.
La natura secondo i suoi principi, con testo originale a fronte secondo l’ed. del 1570, a cura di R. Bondì, Firenze 1999 (rist. anast. Milano 2009).
De natura iuxta propria principia liber primus et secundus (Roma 1565), a cura di A. Ottaviani, Torino 2006.
Ad felicem maimonam iris, intr. di R. Bondì, Paris 2009.
De natura iuxta propria principia liber primus et secundus denuo editi (Napoli 1570), a cura di A. Ottaviani, Torino 2010.
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