APPIANO, Bernardo
Medico di Pallanza, visse a Milano dove, secondo quanto risulta da una sentenza del Santo Uffizio del 27 apr. 1571, professò dottrine ereticali che gli dettero molto da fare con la corte arcivescovile e col Santo Uffizio e lo costrinsero infine alla fuga all'estero.
L'A. abiurò pubblicamente una prima volta dottrine ereticali (negava la presenza reale nell'Eucaristia, il Purgatorio, la validità delle scomuniche) molti anni prima della sentenza del 1571 (il documento purtroppo non dà indicazioni cronologiche precise), ma subito dopo riprese a professarle, cosicché fu di nuovo denunciato al Santo Uffizio che, in base a varie testirnonianze, accertò la realtà delle accuse (l'A. alla professione delle già accennate dottrine aggiunse la negazione della confessione sacramentale, del culto dei santi e del libero arbitrio). Ripreso e quindi rilasciato dal Santo Uffizio sotto impegno di ripresentarsi per un nuovo giudizio, riuscì a districarsi abilmente nelle maglie della procedura. Alcuni anni dopo fu ancora una volta denunciato al Santo Uffìzio con le stesse accuse, dalle quali seppe difendersi e liberarsi con la consueta scaltrezza. Alla fìne, dopo una nuova denuncia, si venne al processo dei 1571, e questa volta emersero a carico dell'A. elementi gravissimi ed inconfutabili: egli risultò infatti in possesso di una Bibbia tradotta da Leon Giuda ed altri studiosi eterodossi, stampata a Zurigo, da lui stesso postillata ai margini di passi assai delicati, generalmente utilizzati dalla controversistica riformata contro la Chiesa cattolica, relativi in particolare al culto delle immagini, all'intercessione dei santi, ecc.; si trovarono poi alcuni "suoi libri et scritture scritte di man propria", densi di dottrine ereticali (negazione del "merito delle opere et circa la giustificazione", decise prese di posizione contro l'autorità del papa e della Chiesa romana, contro "il santissimo sacrificio della messa et ordine sacro et traditioni ecclesiastiche").
Le posizioni ereticali si intrecciavano nell'A. curiosamente con un forte interesse per la magia, come risultò da numerosi suoi appunti relativi a pratiche magiche, e da una copia del libro di Ermete Trimegisto interamente trascritto di suo pugno. A tutto ciò si aggiunse infine un carteggio con un eretico straniero (rimasto purtroppo ignoto), durato parecchi anni, dal quale risultò anche come l'A., una volta convertitosi l'eretico al cattolicesimo, lo avesse sollecitato insistentemente a ritornare alla religione riformata.
Davanti a prove così schiaccianti e al pericolo di una severa condanna del Santo Uffizio, all'A. non restò che tentare la fuga: ci riuscì con l'aiuto del fratello Geronimo, che comprò la complicità di un muratore addetto a lavori di riattamento delle carceri arcivescovili. L'A. fuggì insieme a un prete, certo Battista Gaudenzio, detenuto nella stessa sua cella sotto gravi accuse di eresia.
Questa fuga suscitò molto scalpore e tutto l'interesse di C. Borromeo, che sollecitò un diretto e pronto intervento dell'Inquisizione romana: In effetti il cardinale inquisitore P. Rebiba interessò al caso dell'A., tramite il nunzio, la corte di Torino, dove l'A. si era provvisoriamente rifugiato, ma senza alcun risultato. L'A. infatti, come si apprende da un dispaccio del 7 luglio 1571, lasciò assai presto Torino, dileguandosi con ogni probabilità in Francia.
L'Inquisizione milanese dovette contentarsi così di confiscare i beni dell'A. e di rilasciarlo al braccio secolare in "statua".
La vicenda dell'A. ebbe strascichi a carico dei fratelli Geronimo e Luigi, come si ricava da un'altra sentenza emessa a carico di Gerenimo dal Santo Uffizio in data 11 apr. 1587. Geronimo, eretico anchegli, ma non così decisamente come Bemardo, dopo avere aiutato il fratello a fuggire dalle carceri arcivescovili, si era rifugiato prudentemente in Francia. Riconosciuto quale complice nella fuga di Bemardo e processato in contumacia, il suo caso provocò l'arresto del terzo fratello, Luigi, sotto accusa di favoreggiamento. Rientrato più tardi in Italia, incappò nella rete della Inquisizione piemontese e fu processato dall'inquisitore di Ivrea e Vercelli sotto blande accuse di eresia. Dall'inquisitore piemontese fu rimesso al collega di Molano, che lo processò per le antiche colpe, condannandolo a 100 scudi di ammenda e ad altre pene di mortificazione corporale.
Fonti e Bibl.: Le due sentenze del Santo Uffizio si conservano nell'Arch. di Stato di Milano, Culto,p. a. 2107. Cfr.: Nunziature di Savoia,I (15 ott.1550-29 giugno 1573), a cura di F. Fonzi, Roma 1960, n. 344, 347; L. Fumi, L'Inquisizione romana e lo Stato di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XXXVII (1910), XIII, pp. 387 ss.; M. Bendiscioli, Politica, amministrazione e religione nell'età dei Borromei,in Storia di Milano,X, Milano 1957, pp. 283 ss.