BEMBO, Bernardo
Nato il 19 ott. 1433 da Nicolò e da Elisabetta di Andrea Paruta, sposò in prime nozze una Morosini e, rimasto vedovo, si risposò con Elena Marcello, che gli diede vari figli, tra cui il celebre Pietro. Compì la sua formazione intellettuale all'università di Padova, dove studiò prima filosofia, addottorandosi nelle arti il 10 nov. 1455 sotto la guida di Gaetano da Thiene, poi giurisprudenza, conseguendo il dottorato in utroque iure. Della sua giovinezza e del primo periodo della sua vita pubblica poco sappiamo. Nel 1455 si trovava a Roma, presente all'udienza pontificia in cui l'ambasciatore Ludovico Foscarini, già suo condiscepolo negli studi assieme a Bernardo Giustinian, rivolse con una dotta orazione l'omaggio della Repubblica al nuovo papa Callisto III; nel 1462 indirizzava un discorso gratulatorio al doge Cristoforo Moro, in nome degli scolari di giurisprudenza dello Studio padovano; due anni dopo, l'8 marzo 1464, quando venne condotto a Venezia il corpo di Bertoldo d'Este, caduto all'assedio di Corinto, ne recitò il solenne elogio funebre. Certo dové seguire in questi anni il tirocinio consueto agli uomini del suo ceto, acquistando nell'esercizio di varie magistrature minori quell'esperienza degli affari politici che gli era necessaria per ricoprire gli alti uffici, in cui fu costantemente impegnato nell'età matura.
Il suo primo incarico di rilievo a noi noto è l'ambasceria al re Enrico IV di Castiglia, che lo occupò almeno nel biennio 1468-1469, se in seguito ai suoi uffici Enrico di Guzmán, duca di Medina Sidonia, confermava il 3 dic. 1468 in Siviglia i privilegi già concessi dal padre ai Veneziani. Più delicata e difficile la missione affidatagli nel luglio 1471 (la "commissione" porta la data del 16), quando venne inviato oratore presso Carlo il Temerario, duca di Borgogna, con l'incarico di rinsaldare l'intesa veneto-borgognona, in modo da controbilanciare la politica francese, che forniva un pericoloso appoggio allo Sforza e a Firenze, turbando l'equilibrio tra gli Stati italiani proprio mentre Venezia si trovava in piena crisi militare in seguito all'offensiva turca. L'azione del B., di cui il Perret ha raccolto ampie notizie, fu abile e fruttuosa, nonostante le numerose difficoltà incontrate, e colse il risultato migliore con la stipulazione del trattato di Péronne (18 giugno 1472), con cui i due stati stringevano alleanza quinquennale, impegnandosi a fornire aiuti finanziari all'alleato in caso di guerra, a meno che ambedue si fossero trovati in stato di belligeranza. Nella raffinata e cavalleresca corte borgognona il B. si trattenne tre anni: di certe il 22 apr. 1474 era ancora a Lussemburgo, e vi rimase forse fino all'autunno, quando venne sostituito dal successore. Nel frattempo, il 23 agosto, il Senato l'aveva designato ambasciatore presso il duca d'austria Sigismondo, per tentare una mediazione tra costui e il duca di Borgogna: missione che, se pur ebbe effettivamente luogo, fu affatto inconcludente.
Il B. ritornò a Venezia negli ultimi mesi del 1474, certo prima del 23 dicembre, giorno in cui il Senato approvava le istruzioni per l'infaticabile diplomatico, destinato a Firenze.
Qui il B. giunse all'inizio del gennaio 1475, in tempo per assistere alla famosa giostra che ispirò le Stanze del Poliziano, indetta appunto per festeggiare la conclusione della lega tra Firenze, Venezia e Milano. Nell'atmosfera di rinnovata amicizia, questa prima ambasciata fiorentina del B. si svolse senza particolari difficoltà politiche, lasciando al dotto patrizio veneto tutto il tempo necessario per coltivare le sue relazioni con i letterati che frequentavano allora la corte medicea e con lo stesso Lorenzo, nonché di abbandonarsi alla passione amorosa (platonica, a quanto pare) per Ginevra Benci, appartenente all'alta società fiorentina. Non trascurava neppure i propri affari privati, servendosi anzi della sua posizione politica per ottenere dai Medici prestiti e garanzie per sé e per i suoi parenti. Questi rapporti, documentati dal Cian e soprattutto dal Pintor, gettano un'oscura ombra sulla moralità del B.: per quanto spregiudicato fosse il costume del tempo, e sebbene frequenti fossero i casi di corruzione scoperti e rigorosamente repressi dal Consiglio dei Dieci, nondimeno il suo comportamento usciva dai limiti del lecito, ed egli ne era certo consapevole. Nonostante che tali segrete relazioni per loro natura lascino poche tracce, non concede molti dubbi la lettera con cui nel 1476, mentre rivestiva la carica di ambasciatore a Firenze, sollecitava un prestito a favore di Marco Marcello, parente per parte di moglie, richiamando il "prudentissimo vedere" di Lorenzo "circa il contentare il nostro e anche vostro tutto messer M. Marcello: ché in vero molto e molto si fa per la gloria vostra". Altrettanto chiaro il significato della lettera dei 2 giugno 1476, in cui egli, appena ritornato a Venezia, chiedeva un prestito a Lorenzo, ma senza cauzione di terzi, "perché non mi fusse sceniata la fede nel operarmi per vui, chome tuto dì mille volte occorre". Ancora nel 1480, al termine della seconda ambasceria a Firenze, otteneva dal Magnifico un prestito per sei mesi d'una somma imprecisata, sui banchi di Bruges e di Venezia: e tutti questi documenti altri ne lasciano intendere d'analogo tenore. A quel primo soggiorno fiorentino risale comunque l'amicizia tra le due famiglie (anche se non è da escludere che i due uomini si fossero conosciuti in epoca precedente): un'amicizia che durerà a lungo, tanto che, giungendo a Venezia il 15 ott. 1510 per curarsi gli occhi, il giovane Giuliano de' Medici, amico di Pietro, veniva ospitato dal Bembo.
Per questi legami personali col Magnifico (quelli leciti e palesi, ben s'intende), il Senato scelse nuovamente il B. nel luglio del 1478 per rappresentare la Repubblica a Firenze. Il momento era assai critico. Dalla congiura dei Pazzi era scoccata la scintilla della guerra: il pontefice e il re di Napoli avevano preso le armi contro Firenze, e Venezia si trovava automaticamente impegnata a soccorrere la città alleata. Furono per il B. due anni drammatici e amari. In luogo delle occupazioni letterarie e dei piacevoli conversari nel palazzo di via Larga, egli dovette affaticarsi senza posa nel vano tentativo di rabberciare un'alleanza che andava ormai naufragando tra le diffidenze reciproche, gli interessi politici contrastanti e le sfortunate vicende della guerra. Inutilmente il B. si sforzava di rassicurare i Fiorentini sulla buona volontà di Venezia, sollecitando contemporaneamente dal Senato misure più vigorose. Egli era un sincero fautore dell'alleariza veneto-fiorentina, e non solo per i segreti motivi che conosciamo, ma anche per riflesso della simpatia spirituale che lo legava a Firenze, e tornava perciò gradito a quel governo, tanto che l'ambasciatore a Venezia, Tommaso Soderini, riceveva istruzione il 25 apr. 1479 di adoperarsi destramente perché il B. non venisse richiamato in patria: segno forse che il Senato veneto. non era invece del tutto soddisfatto dell'opera sua. Sintomo di questa sfiducia èanche l'invio, nel settembre del 1479, di un ambasciatore straordinario, Antonio Donà, la cui presenza non poteva non esautorare almeno in parte l'oratore ordinario; il quale poi, partito dopo alcune settimane il Donà, rimase a Firenze ancora qualche mese, ad assistere, con quanta pena si può immaginare, al crollo del vecchio indirizzo politico, e al repentino rovesciamento delle alleanze, operato alla fine di quell'anno per iniziativa di Lorenzo, durante il suo famoso viaggio a Napoli.
L'anno seguente il B. assunse la carica di podestà e capitano di Ravenna (1481-1483): reggimento rimasto memorabile perché egli in questa occasione dette significativa testimonianza del suo culto per Dante, facendone restaurare il sepolcro ed incaricando Pietro Lombardo di scolpirvi il ritratto del poeta. Ma le principali cure del B. in quel tempo furono rivolte agli affari politici e militari, soprattutto dopo che nel maggio del 1482 Venezia, alleata al papa, aveva rotto guerra contro Ekcole d'Este, al cui fianco si erano schierati il re di Napoli, Ludovico Sforza, Firenze e i Bentivoglio di Bologna, sicché Ravenna, confinante con il ducato di Ferrara, divenne base avanzata delle operazioni belliche. L'anno seguente, a causa del repentino cambiamento di fronte di Sisto IV, che il 23 giugno fulminava l'interdetto contro la Repubblica, Venezia fu costretta a fronteggiare una difficile situazione, reagendo con fermezza sul piano militare e diplomatico. In risposta all'interdetto dichiarò di appellarsi ad un futuro concilio e spedì ambasciatori ai sovrani europei, per esporre le proprie ragioni: tra essi il B., scelto il 9 luglio 1483 dal Senato come oratore al re d'Inghilterra. Quattro giorni dopo il Senato autorizzava il B. ad intervenire alle sue sedute, affinché in vista di tale ufficio potesse aggiornarsi sugli affari politici in corso; di questa missione, tuttavia, non possediamo ulteriori notizie. In ogni caso il B. era a Venezia agli inizi del 1485, quando venne eletto tra i quattro ambasciatori inviati dalla Repubblica a rendere omaggio al nuovo papa Innocenzo VIII; da questa ambasciata il B. era già rientrato nel luglio dello stesso anno. Alla fine del 1487 (passava per Firenze il 9 e giungeva a Roma nella tarda sera del 21 novembre) il B. ritornava ancora, assieme a Sebastiano Badoer, a rappresentare la Repubblica presso il pontefice, cui era stato affidato l'arbitrato sulle vertenze in corso tra Venezia e l'arciduca Sigismondo, che ìn quell'anno avevano provocato il breve ma sanguinoso conflitto veneto-tirolese. Nell'ottobre del 1488, mentre si trovava ancora a Roma, venne eletto podestà di Bergamo, carica che esercitò tuttavia soltanto nel biennio 1489-90, promuovendovi l'ultima revisione degli statuti cittadini.
Alle ambascerie e ai reggimenti nelle città suddite il B. alternava l'esercizio delle più importanti magistrature politi che della Repubblica. Il suo nome figura nelle liste dei componenti la giunta del Senato fin dall'ottobre del 1492 (cioè dal primo elenco conservato); nel 1494 venne eletto avogadore di Comun, ufficio che eserciterà più volte negli anni successivi. Il 1° ott. 1496 entrò nel Consiglio dei Dieci, e ne faceva ancora parte l'anno seguente, quando Tristano Savorgnan si abboccò con lui, offrendosi di far avvelenare Carlo VIII, proposta che i Dieci peraltro respinsero.
Il B. non giunse a compiere interamente il periodo per cui era stato eletto al Consiglio dei Dieci, poiché, designato nel frattempo visdomino della Repubblica a Ferrara, tra la fine di luglio e i primi di agosto del 1497 raggiunse la sua nuova destinazione.
Venezia esercitava allora su Ferrara una specie di protettorato, essendo la sua autorità rappresentata appunto dal visdomino; ma il duca Ercole d'Este era infido e mordeva il freno, sperando in una nuova discesa del re di Francia, e l'atteggiamento delle autorità locali e dei cittadini era ancor più scopertamente, ostile. Il B. registrava nei suoi dispacci, senza illusioni, i continui incidenti che testimoniavano l'odio antiveneziano dei Ferraresi, ed esponeva con realismo quale fosse il vero animo del duca. Il suo compito era particolarmente delicato, anche perché Ferrara era in quegli anni il punto di passaggio obbligato degli aiuti militari e finanziari con cui la Repubblica alimentava l'estenuante lotta dei Pisani contro i Fiorentini. La partecipazione veneta alla guerra di Pisa si concluse proprio in quel tempo col lodo del duca Ercole (26 apr. 1499), ed è difficile spiegare come la Repubblica si decidesse ad accettare il giudizio arbitrale d'un mediatore così infido, che deluse infatti completamente le speranze dei Veneziani. Sappiamo che le prime offerte di mediazione furono fatte dal duca proprio tramite il B., ed è probabile che questi abbia avuto poi qualche parte nel seguito delle trattative.
Ritornato a Venezia nel luglio del 1499 (il 21 fece la relazione al Collegio), il 16 novembre di quello stesso anno il B. viene eletto nella commissione dei Dieci Savi "a tansar", incaricata cioè di fissare l'imponibile e la relativa imposta di ciascuri contribuente; nel 1500 è membro del Consiglio dei Dieci (e capo dello stesso nel marzo e nel maggio); dall'agosto dello stesso anno e almeno sino alla fine di dicembre figura fra i tre governatori delle Entrate. Il 30 sett. 1501 è tra gli elettori del doge Leonardo Loredan.
Dal 10 apr. del 1502 alla metà del 1503 fu podestà di Verona; mentre esercitava questa carica il Senato lo designò oratore straordinario presso Luigi XII, in occasione della sua venuta a Milano. Partì dunque il B. da Verona il 15 giugno 1502; poiché il re di Francia tardava, si fermò nei pressi della capitale lombarda, dimorando per quasi tutto il luglio a Pavia, e solo il 27 di quel mese si trasferì a Milano, precedendo di un giorno Luigi XII, il cui ingresso egli descrisse in una lettera inviata a Marin Sanuto, allora camerlengo di Verona, in cui registrava col consueto realismo il malanimo francese verso Venezia. Trattenutosi un mese a Milano, riprese il 28 agosto il suo ufficio di podestà, che tra l'altro gli dava occasione d'intrattenere, per motivi di buon vicinato, cordiali rapporti con Francesco Gonzaga e con la sua consorte Isabella d'Este: rapporti che forse risalivano già agli anni del visdominato a Ferrara, e che la famiglia Bembo, e specie Pietro, continueranno a coltivare negli anni seguenti.
Tornato a Venezia, l'11 nov. 1503 il B. fu eletto dal Senato a far parte della solenne ambasciata diotto patrizi che doveva recare al nuovo papa Giulio II le congratulazioni della Repubblica. Ma le difficoltà politiche tra i due Stati rendevano inopportuno per il momento quel viaggio, essendo in gioco la questione di Rimini e Faenza, di cui Venezia s'era allora impadronita approfittando della crisi che aveva dissolto lo Stato del Valentino: col pretesto della cattiva stagione la partenza fu rinviata alla primavera successiva, ma in realtà avvenne soltanto un anno e mezzo più tardi. Nel frattempo il B. fu ancora eletto, il 14 apr. 1504, avogadore di Comun, carica che tenne per un anno, fino alla partenza per Roma. Attenuatasi infatti la tensione veneto-pontificia in seguito al compromesso del marzo 1505, appariva ormai improrogabile il compimento della solenne ambasciata di rito, già troppo a lungo rinviata. Del viaggio di questi otto oratori, di cui egli era per età il più autorevole, il B. ci ha lasciato un resoconto importante per le notizie archeologiche in esso raccolte: lasciata Venezia il 9 aprile, il 15 erano a Rimini, il 28 giungevano a Roma; il 5 maggio si svolse la solenne udienza pontificia, e il 14 cominciò il viaggio di ritorno.
Era questa l'ultima missione del B. all'estero. Ormai vecchio non lascerà più Venezia, se non per brevi soggiorni privati a Padova; ma ancora per un decennio continuò indefessamente ad occupare le più alte magistrature della Repubblica. Dall'ottobre 1505 è membro del Consiglio dei Dieci, e varie volte capo dello, stesso, fino all'agosto dei 1506, quando lascia tale incarico per assumere quello di provveditore alle Biade. L'8 agosto è eletto nella giunta del Consiglio dei Dieci. Nella fatale primavera del 1509, che vide la disfatta di Agnadello e il crollo del dominio di terraferma, il B. era ancora una volta avogadore di Comun, e in tale veste fu per un anno protagonista di alcuni dei più drammatici avvenimenti di quel periodo. È lui, assieme ai colleghi Marino Giustinian e Alvise Gradenigo, a proporre la revisione del processo contro Antonio Grimani, il futuro doge, esiliato dieci anni prima come responsabile della sfortunata campagna navale del 1499 contro i Turchi: atto politico opportuno sia per ingraziarsi il pontefice, sia per richiamare in patria una personalità vigorosa e influente, che avrebbe potuto rendere ancora molti preziosi servigi. Assieme a Nicolò Pisani, consigliere ducale, Girolamo Querini, capo del Consiglio dei Dieci, e Andrea Corner, inquisitore, fece parte della speciale commissione costituita per procedere contro i cittadini padovani che si erano ribellati alla Repubblica.
È lui ancora, col collega Alvise Gradenigo, a porre sotto accusa Angelo Trevisan, il capitano generale da mar, responsabile, con la sua sciagurata condotta, del disastro di Polesella (dicembre 1509), e a proporne l'arresto al Consiglio dei Dieci. Il procedimento di fronte al Maggior Consiglio si aprì il 20 febbr. 1510 con un'aspra requisitoria del B., che lanciò terribili invettive contro il Trevisan, "neque patricius neque senator, licet patricida patriae". E quando tre giorni dopo cominciò la regolare discussione della causa il B., cui toccava parlare per primo, scusandosi per l'età disse che si limitava a presentare una scrittura, lasciando la disputa ai colleghi, ma era tanta la passione che poi finì per parlare a lungo, ribadendo punto per punto l'implacabile accusa.
Nell'agosto dei 1510 il B. è nella giunta del Consiglio dei Dieci; il 15 settembre fu eletto consigliere ducale (carica che occupò soltanto dal 1° dicembre). Il B., nonostante l'età, era ancora ben lontano dall'idea di abbandonare la vita politica; anzi è proprio del 17 nov. 1510 la sua sfortunata partecipazione ad un combattutissimo scrutinio per l'ufficio di podestà di Padova, in vista del quale, come altri concorrenti, si era dato molto da fare per ottenere i voti: "con grandissima vergogna... - notava il Sanuto - in questi tempi che si è perso il stato"; "l'ambition è in lì vechij...", concludeva il diarista scandalizzato. Ma forse non si trattava soltanto di ambizione, bensì del forte interesse economico rappresentato dai reggimenti delle città suddite, che costituivano per il patriziato veneto un importante cespite di guadagno. Era naturale che la gara elettorale divenisse tanto pìù aspra mentre assai poche città erano rimaste in mano ai Veneziani; e se il B. aspirava a tale ufficio, è forse perché il bilancio familiare si trovava a mal partito, tanto è vero che il suo nome compare spesso negli anni seguenti tra i debitori insolventi dello Stato.
Consigliere ducale il B. rimase almeno fino al luglio 1511; nel mese successivo fu eletto nel Consiglio dei Dieci, ma non poté dedicarvisi con la consueta alacrità; sappiamo infatti che nel 1511 rimase per un certo tempo ammalato, tanto che il figlio Pietro andò appositamente a Venezia per visitarlo. Il 10 maggio 1512 venne eletto nuovamente avogadore di Comun, ufficio che esercitò fino al 23 maggio dell'anno successivo. Il 9 ott. 1513 fu ancora eletto nel Consiglio dei Dieci, e svolse con zelo il suo compito per un anno, più volte fungendo anche da capo dello stesso Consiglio. Dalla fine del 1514 data il suo volontario ritiro dalla vita pubblica: e non è forse estranea a questa decisione la delicata situazione in cui s'era venuto a trovare dopo l'infelice missione del figlio Pietro, inutilmente inviato da papa Leone X a Venezia, nel dicembre del 1514, per cercare di distogliere la Repubblica dalla alleanza recentemente conclusa con la Francia. Il B. non volle neppure più venire eletto nella giunta del Senato, della quale da molti anni faceva parte quasi senza interruzione.
Morì il 28 maggio 1519, dopo nove giorni di malattia, prima che il figlio Pietro, subito partito da Bologna (dove sostava in viaggio da Roma alla volta di Mantova) potesse giungere al suo capezzale.
Il Sanuto, che ben lo conosceva, nel dar notizia della sua morte lo ricorda come "patricio et senator excelentissimo et doctissimo, maxime in humanità"; si era conservato lucido, "scrivendo sempre fin l'ultima hora de la sua egritudine letere optime e ben composte, piene di ogni eruditione" (Diari, XXVII, coll. 324 s.). Fu sepolto con solenni esequie il 30 successivo a S. Salvador, dove erano le arche della famiglia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Segretari, o alle voci, reg. 13, cc. 2r, 5r, 9v; Venezia, Museo Civico Correr, cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 93r-v; M. A. Sabellicus, Rerum Venetarum ab urbe condita libri, Venetiis 1718, pp. 805, 830, 878; P. Bembo, Rerum Venetarum historiae, Venetiis 1718, pp. 15, 112, 142, 212, 233, 357, 416; M. Sanuto, Vite de' duchi di Venezia, in Rerum Italic. Script., XXII, Mediolani 1733, col. 1179; Id., I Diarii, Venezia 1879-1903, I-XX, XXVII, XXX, XXXIX, LII, ad Indicem; J. Burckardi, Liber Notarum, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., Città di Castello 1907-1910, XXXII, I, a cura di E. Celani, p. 2 11; Calendar of State papers and manuscripts, relating to english affairs…, Venice, I, London 1864, pp. 129, 146 s.; I libri commem. della Repubbl. di Venezia, Regesti, a c. di R. Predelli, V, Venezia 1901, pp. 19, 208 s.; Protocolli del carteggio di Lorenzo il Magnifico per gli anni 1473-74, 1477-92, a cura di M. Dal Piazzo, Firenze 1956, passim; N. C. Papadopoli, Historia gymnasii patavini, Venezia 1726, II, p. 35; G. B. Angelini, Catalogo cronologico de' rettori di Bergamo, Bergamo 1742, p. 43; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1959, III, p. 143; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, I, Venezia 1752, pp. 46, 65, 77, 514, 559; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 726-82; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, II, Venezia 1827, pp. 67 s.; III, ibid. 1830, pp. 107 s.; VI, ibid. 1853, pp. 579 s.; E. Narducci, Intorno all'autenticità di un cod. vat. contenente il trattato di Boezio De Consolatione philosophiae scritto di mano di Giovanni Boccacci, in Mem. d. R. Accad. dei Lincei, s. 3, VIII (1882), pp. 7, 16-23; V. Cian, Pietro Bembo e Isabella d'Este Gonzaga. Note e documenti, in Giorn. stor. d. letterat. ital., IX (1887), pp. 81-136; Id., Per B. B. Le sue relazioni coi Medici. Lettera prima, ibid., XXVIII (1896), pp. 348-61; Id., Per B. B. - Le relazioni letterarie, i codici e gli scritti., ibid., XXXI (1898), pp. 49-81; P. M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise…, Paris 1896, passim; A. Della Torre, La prima ambasceria di B. B. a Firenze, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXXV (1900), pp. 258-333; F. Pintor, Le due ambascerie di B. B. a Firenze e le sue relazioni coi Medici, in Studi letter. e linguistici dedicati a Pio Rajna…, Firenze 1911, pp. 78s-813; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori. Studio bio-bibliografico, in Mem. d. Soc. geografica ital., XVI (1928), pp. 69 s.; Silvestro da Valsanzibio, Vita e dottrina di Gaetano da Thiene, Padova 1949, p. 14.
L'erudizione, la finezza di gusto e le attività dell'oratore veneziano, spese ad evitare atti inconsulti da parte della Signoria medicea, furono riconosciute dal Magnifico e dai fiorentini. Il Landino esaltò i suoi meriti nel De vera nobilitate; il Poliziano gli dedicò alcuni distici latini facendo del patrizio veneziano "un ritratto morale squisitamente idealizzato"; il Braccesi gli consacrò la Descriptio horti Laurentii Medicis e l'elegia Bembe, decus; e il Ficino gli intitolò la sua Adhortatio ad rusticandum e il quinto libro delle Epistolae. Del suo amore per Ginevra Benci è cenno nella dedicatoria della Xandra del Landino e in quattro componimenti elegiaci posti in appendice a quel canzoniere e in altrettante elegie di Alessandro Braccesi. Nello stesso anno 1478 il Merula, maestro di umanità a Venezia, rammemorava con encomio la felice ambasceria del B. nella dedicatoria che a lui faceva della sua traduzione in latino di tre orazioni di Dione Grisostomo ed in quella della sua interpretazione del Pro Ligario di Cicerone. A Ravenna, facendo restaurare nel maggio del 1483 la tomba di Dante, nella chiesa di S. Francesco, dimostrò la sua devota ammirazione al poeta, di cui durante la prima ambasceria fiorentina egli aveva cercato invano di far restituire le ossa a Firenze. Egli stesso dettò la seguente epigrafe: "Exigua tumuli, Dantes, hic sorte iacebas / Squallenti nulli cognite pene situ. / At nunc marmoreo subnixus conderis arcu 0Innibus et cultu splendidiore nites. Nimirum Bembus Musis incensus Hetruscís / Hoc tibi quem in primis hae coluere dedit".
Durante il soggiorno romano (1487-89) frequentò gli ambienti culturali, pronunciò tre orazioni (una, per il papa ammalato, fu stesa in latino e in volgare), che furono molto apprezzate: e strinse amicizia con Pomponio Leto e con Battista Mantovano, teologo e letterato, il quale nel 1489 gli indirizzò la Secunda Parthenica e gli dedicò anche l'ecloga decima De fratrum observantium et non observantium controversia. Nel 1488, forte della sua rinomanza e delle molte relazioni acquisite, appoggiò la candidatura del Pomponazzi alla cattedra di filosofia, tenuta dall'averroista Nicoletto Vernia, nello studio di Padova: e così per suo mezzo il mantovano poté illustrare nel ginnasio patavino, sino al 1509, allorché passò a Ferrara, la sua interpretazione alessandrina del pensiero aristotelico.
Nel periodo in cui ebbe la pretura di Bergamo, il B., con l'aiuto di Giovanni Marcello, e reso edotto della vera situazione cittadina dal vescovo Barozzi, che per questa occasione scrisse e gli dedicò il De factionibus extinguendis, riuscì peraltro ad acquietare le lotte intestine. A Venezia frequentò il cenacolo filologico dal 1493 formatosi intorno ad Aldo Manuzio; fu, anche a Ferrara, accolto con onore nell'ambiente letterario che godeva della protezione della casa d'Este e vi conobbe la duchessa di Mantova, Isabella Gonzaga, e i più illustri rappresentanti dell'umanesimo ferrarese; Dante III degli Alighieri, Virgilio Zavarise - che gli dedicò un'ode saffica - e Girolamo Avanzi, nel periodo in cui egli occupò la carica di rettore e podestà di Verona, lo ebbero caro e lo lodarono.
Fra i poeti in volgare, il B. studiò soprattutto Dante e il Petrarca (di questo possedeva anche gli autografi di alcune opere latine: De vita solitaria, De sui ipsius et multorum ignorantia, De remediis utriusque fortunae, Itinerarium syriacum), e giovò molto allo sviluppo dell'umanesimo veneto con la sua ricca biblioteca, in cui sin da giovane raccolse libri a stampa, opere artistiche e numerosi e pregevoli codici latini e greci. Possedeva, tra l'altro, i cosiddetti Lusi di Virgilio, le due Deche di Livio esemplate dal Poggio, le Silvae di Stazio, Terenzio, Boezio, e dei dialoghi platonici la versione del Fedone fatta da Leonardo Bruni e da lui trascritta a Padova nel 1453, e postillata marginalmente con espressioni ciceroniane e petrarchesche. Ma egli fu soprattutto un diplomatico abile e colto: spese ogni sua attività al servizio di Venezia, e si servì della cultura come dì un mezzo per conseguire più facilmente i propri fini politici. Per questo le sue orazioni - fatta eccezione per qualcuna dei periodo giovanile -, anche se composte in un latino classico ed elegante, non furono da lui riguardate come esemplari letterari, ma come espressione di una eloquenza rivolta a persuadere: questa, a suo avviso, poteva benissimo "coesistere con la giurisprudenza e le scienze esatte"; la retorica poteva conciliarsi con la filosofia. L'insegnamento della più scaltrita filologia umanistica di riguardare, cioè, nelle opere sensum non sonum, res non verba fu da lui mirabilmente tradotto nei suoi discorsi, i quali purtroppo non tutti ci sono pervenuti, e quelli tramandati sono ancora inediti: taluni nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (codd. Marciani lat.: IX 364; XI 130, 139, 246; XIV 2, 236; cod. Ferr. II 162). E così pure sono inedite molte sue epistole, conservate nell'Archivio di Stato di Venezia, in quello di Firenze, e in quello, inoltre, dei Gonzaga a Mantova.
Bibl.: Oltre alle indicazioni contenute negli articoli del Cian, del Pintor, del Della Torre, citati nella bibliografia relativa all'attività più propriamente politico-diplomatica dei B., si vedano: E. Levi, Lo zibaldone di B. B., in Rass. d. letter. ital., IV (1896), pp. 46-50 (traduzione con commento dell'A venetian's Commonplaces, fatta da G. Nielson in The Athenaeum del 21 dicembre 1895); C. Frati, Un cod. autogr. di B. B., in Racc. di studi crit. ded. ad A. D'Ancona, Firenze 1901; F. Gaeta, Il vescovo Pietro Barozzi e il trattato "De factionibus extiguendis", Venezia-Roma 1958, pp. 22-25; M. Pecoraro, Per la storia dei carmi del B.: una redazione non vulgata, Venezia-Roma 1959, pp. 22-24, 119-121; Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di V. Branca, Firenze 1963, pp. 15, 27, 208, 265, 402.