DADDI, Bernardo
(o di Daddo)
Pittore attivo prevalentemente a Firenze, del quale si hanno notizie dal 1312 al 1348; documentato con il patronimico D. dagli anni venti fino alla metà del secolo, firmò come Bernardus de Florentia alcune opere, grazie alle quali appare, con Taddeo Gaddi e con Maso di Banco, uno degli artisti più significativi della generazione immediatamente successiva a Giotto. Titolare di un'operosissima bottega, divenne protagonista in seno alla pittura fiorentina di quegli anni di una tendenza attenta sul piano formale a valori linearistico-cromatici di grande raffinatezza tecnica e su quello figurativo a effetti altamente narrativi, raggiunti per lo più in opere di piccolo formato o in scomparti di predella.D. è menzionato per la prima volta nelle matricole dell'Arte dei medici e speziali di Firenze dal 1312 al 1320 e poi ancora dal 1320 al 1353 (Firenze, Arch. di Stato, Arte dei medici e speziali, VII; Frey, 1885, p. 315; Hueck, 1972); pertanto è possibile porre la sua data di nascita sullo scorcio del 13° secolo. D. risulta abitante di una casa nel popolo di S. Lorenzo e che acquistò nel 1335 parte di una casa in via Larga (Firenze, Arch. di Stato, Notarile Antecosimiano, Rogiti di Ser Bernardetto di Michele, 1333-1335, c. 215v; Milanesi, 1893, pp. 30-31 nr. 49); nello stesso anno è ricordata l'esecuzione della tavola di S. Bernardo nel palazzo della Signoria a Firenze, ora perduta (Firenze, Arch. di Stato, Carte di Corredo, 65, c. 8; Milanesi, 1870). Nel 1339 D. appare registrato tra i consiglieri della Compagnia di s. Luca (Firenze, Arch. di Stato, Accademia del Disegno e Compagnia dei Pittori, 1, c. 1; Baldinucci, 1686, p. 48); nel 1347 è pagato dai capitani della Compagnia di Orsanmichele (Firenze, Arch. di Stato, Capitani di Orsanmichele, Libri di Elemosine, filza 244, p. 8; 245, p. 6) per la tavola del tabernacolo di Orsanmichele (Milanesi, 1870; Frey, 1885, p. 61); ancora nel 1347 è menzionato nell'archivio dell'Arte dei medici e speziali (Firenze, Arch. di Stato, Arte dei Medici e Speziali, VIII, c. 51; Frey, 1885, pp. 329-333) e in quello della Mercanzia tra i consoli (Firenze, Arch. di Stato, Mercanzia, 154, c. 20v, 29v; Ciasca, 1927, p. 717). Nel 1348 risulta morto senza testamento (Firenze, Arch. di Stato, Notarile Antecosimiano, protocollo 478 di Francesco di Giovanni Ciai da Pulicciano, c. 189v; Cavalcaselle, Crowe, 1883, p. 430 n. 1).D. firmò come Bernardus de Florentia nel 1328 un trittico (Firenze, Uffizi, inv. nr. 3073), nel 1334 una Madonna con il Bambino e santi (Firenze, Uffizi, inv. nr. 8564) e poi soltanto come Bernardus nel 1337 la perduta tavola d'altare della chiesa di S. Lorenzo a Settimo (Del Migliore, Zibaldone storico, IV, 86), nel 1338 la tavola d'altare per la fiorentina S. Maria Novella (Rosselli, Sepoltuario fiorentino), nel 1340 o 1341 una perduta o non identificata tavola d'altare di S. Maria a Quarto (Sepoltuario Strozziano), nel 1344 il polittico nel Cappellone degli Spagnoli di S. Maria Novella, nel 1348 il trittico di Londra (Courtauld Inst. Gall.) e infine la pala ora a Joensuu (Taidemus., inv. nr. A210), la cui data frammentaria non è accertabile.Riguardo alle opere assegnate a D. dalle fonti - nel Libro di Antonio Billi (Frey, 1892) si attribuiscono a D. gli affreschi con l'Inferno del Camposanto di Pisa e quelli fiorentini di S. Paolo a Ripa d'Arno - si è mostrata attendibile solo la testimonianza di Vasari per gli affreschi della cappella Pulci Berardi in Santa Croce a Firenze, mentre ingiudicabili per deperimento o cattiva conservazione oppure attribuibili ad altra mano sono quelli delle lunette sulle porte fiorentine (Firenze, depositi museali).D. ha avuto un'incoerente fortuna critica. Franco Sacchetti nel Trecentonovelle (novella CXXXVI) lo ricorda tra i più valenti pittori fiorentini, mentre Lorenzo Ghiberti nei Commentari lo ignora; le fonti tardoquattrocentesche e protocinquecentesche lo dicono allievo di Giotto, ma ne segnalano le opere in forma non corretta. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 273ss.) pur con l'importante restituzione citata lo classifica erroneamente quale allievo di Spinello Aretino. Ancora Crowe e Cavalcaselle (19032) equivocano tra D., debole autore degli affreschi di Santa Croce letti in chiave di giottismo irrisolto, e il pittore Bernardo di Piero, ritenuto valente artista perché autore del polittico del 1348 ora a Londra (Courtauld Inst. Gall.). L'identificazione del Bernardus de Florentia delle opere con il Bernardus di Daddo delle matricole fiorentine è un'acquisizione abbastanza recente, dovuta a Passerini e Milanesi (1865), con conseguenti precisazioni cronologiche e stilistiche che trovano compiutezza nella monografia di Vitzthum (1903).Sebbene protagonista con Taddeo Gaddi e Maso di Banco della cultura pittorica fiorentina della prima metà del Trecento, D. ha condiviso in parte la sorte critica di altri pittori fiorentini - quali per es. il Maestro del Codice di S. Giorgio -, che, non integrati perfettamente nell'ortodossia giottesca, sono stati a lungo fraintesi. Nel caso di D. ne è stato sopravvalutato il ruolo di mediatore tra pittura fiorentina e arte senese - aspetto dei più complessi e culturalmente proficui di cui furono protagonisti, anche in anticipo sullo stesso Bernardo, Pietro e Ambrogio Lorenzetti - a scapito del riconoscimento di un'originalità formale, negatagli anche da Longhi (1959). A Offner (1930-1947; 1958), grande estimatore della pittura di D., spetta il merito di aver tentato l'approccio alla sua arte secondo canoni di lettura più vari, di fatto affrancati da un'interpretazione fino ad allora commisurata allo stile di Giotto e tesi a motivarne l'inserimento in una precisa tendenza della pittura fiorentina, etichettata dal critico anglosassone con la discussa formula di miniaturist tendency, intendendo con miniaturistico più un atteggiamento mentale del pittore che un espediente stilistico (Boskovits, in Offner, Steinweg, 1984). La serrata operazione filologica di Offner ha assai ristretto il campo attributivo propriamente daddesco, ma ha precisato anche la costellazione delle figure tangenti a D. - quali il più arcaizzante Maestro di San Martino alla Palma o il raffinato e precoce Maestro Daddesco - o attorno a lui gravitanti, individuandole in entità distinte quali l'Assistant of Daddi (Offner, 1930-1947, III, 5, p. 55). L'equilibrata posizione di Boskovits (in Offner, Steinweg, 1984), tenendo conto delle distinzioni di stile e di qualità alla luce di una maggiore consapevolezza dell'andamento della bottega trecentesca, permette di formulare una premessa metodologica con cui porre ordine nel numero assai cospicuo di opere attribuite all'artista, sull'autografia delle quali tuttavia non converge un unanime consenso critico, assumendo come criterio attributivo per l'assegnazione a D. il riconoscimento in esse dell'invenzione daddesca e la diretta supervisione del maestro, ma non necessariamente l'autografia in ogni loro parte. Accolta questa precisazione, risulta più facile ridimensionare la posizione di chi, come Offner, restringeva il catalogo delle opere del pittore a quei soli esemplari, poco più di una ventina, che toccano il vertice della tenuta formale.La vicenda figurativa di D. parte comunque ca. un decennio avanti alla prima opera datata, il trittico del 1328 con la Vergine, S. Nicola e S. Matteo (Firenze, Uffizi), probabilmente eseguito per la chiesa fiorentina di Ognissanti, che segna l'apice stilistico di una fase ancora permeata dall'equilibrio e dalla misura 'classica' di Giotto. Di questa prima fase sono testimonianza due pannelli che dovevano far parte di uno stesso polittico: la Madonna conservata a Roma (Mus. Vaticani, Pinacoteca, inv. nr. 180) e la S. Maria Maddalena di una coll. privata statunitense (Fahy, 1986), assai prossime nel taglio monumentale e nell'enfasi del chiaroscuro alle figure del polittico della chiesa di S. Martino a Lucarelli (Radda in Chianti, Siena), al S. Benedetto (già Milano, Coll. Brunelli), nonché a uno smembrato polittico (già Parma, Coll. Tacoli Canacci, ora diviso tra Parma, Gall. Naz. e coll. private) e all'arcaizzante pala con S. Michele nell'omonima chiesa di Crespina (Pisa). Tutte queste opere, al pari degli affreschi di Santa Croce, si mostrano a conoscenza dello stile severo del primo Buonamico, nonché discendenti da un giottismo attinto attraverso personalità arcaizzanti, come il Maestro della S. Cecilia, a testimonianza di un rapporto con Giotto e la sua équipe stretto sul piano imprenditoriale, ma non di totale sudditanza stilistica. Da tale riconsiderazione dei rapporti tra Giotto e D. la figura di quest'ultimo esce rinvigorita, dal momento che un'opera degli inizi del quarto decennio come il trittico datato 1333 (Firenze, Mus. del Bigallo) - se è autentica, come sembra, la data che appare ridipinta nelle ultime cifre -, monumentale nel taglio e complesso nell'invenzione scenica, già ritenuto da Longhi (1950; 1959) esemplato su prototipi maseschi, si mostra di fatto antecedente a quello gemello di Taddeo Gaddi datato 1334 (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), nonché a un altro esemplare di Maso di Banco (New York, Brooklyn Mus.). Lo stesso trittico, affiancato da una nutrita serie daddesca di tabernacoli e anconette (pannello del 1334, Firenze, Uffizi, inv. nr. 8564; pannello già Coll. Goldammer a Schloss Plausdorf, Marburgo; pannello del 1337, Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll., inv. nr. 36.57; pannello, New York, Metropolitan Mus. of Art, inv. nr. 41.190.12; tabernacolo, Praga, Národní Gal.; tabernacolo già a Vienna, Coll. O. Bondy, ora a Pistoia, coll. privata), divenne prototipo per tutta una fortunatissima serie di lavori (trittico del 1336, Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 60; Parigi, Louvre, inv. nr. 1301).È agli inizi del quarto decennio che si ebbe uno dei momenti di maggior contatto tra D. e la bottega di Giotto, in assenza del maestro, attivo a Napoli dal 1328 al 1334, di cui danno conto le reciproche influenze non solo con Taddeo Gaddi, ma anche con Maso di Banco. L'ipotesi di restituzione a quest'ultimo (Volpe, 1980) dell'interessante pala daddesca della chiesa di S. Giorgio a Ruballa, presso Bagno a Ripoli (Firenze), datata 1336, assai prossima alla pala di S. Giusto a Signano, presso Scandicci, per certi aspetti stilisticamente ancora acerba e probabilmente giovanile, induce a meditare sui rapporti intercorsi tra questi due pittori e a formulare l'ipotesi di una collaborazione, improntata dal più anziano Bernardo Daddi.A partire dal quarto decennio si accentuano anche i due aspetti che avrebbero caratterizzato in seguito l'attività di D.: da un lato l'esecuzione di opere di notevole impegno anche strutturale, quali il grande polittico proveniente dalla chiesa di S. Pancrazio ma realizzato per il duomo di Firenze (per la maggior parte conservato a Firenze, Uffizi, con scomparto di predella a Londra, Buckingham Palace), che con i suoi sette scomparti e i sei registri orizzontali si offriva quale mastodontica macchina d'altare, foriera anche di innovazioni di successo se, come appare probabile, era dotato addirittura di due predelle (Conti, 1968; Offner, Steinweg, 1989), di cui la seconda potrebbe essere quella con Storie di s. Reparata (gli scomparti superstiti sono a New York, Metropolitan Mus. of Art, inv. nrr. 43.98.3, 41.190.15, 43.98.4; già Bruxelles, Coll. P. Pechère; Colonia, Wallraf Richartz Mus.); dall'altro la vasta produzione di altaroli a trittico e di dittici portatili che insieme agli scomparti di predella dei polittici concedevano al pittore l'opportunità di manifestare nelle scene di piccolo formato la sua propensione a una resa narrativa dotata di freschezza e senso lirico, attenta a cogliere i dati espressivi dei personaggi, accompagnata da una scelta cromatica chiara e brillante, unita a un ritmo lineare fluido, cui non erano estranei né l'influenza senese di Pietro Lorenzetti né un goticismo in linea con le novità manifestate in scultura da Andrea Pisano. Oltre alle opere ricordate, appartengono a questa fase i quattro scomparti di predella con Storie di s. Cecilia (Essen, Mus. Folkwang, deposito; Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo; Cracovia, Muz. Narodowe, Coll. Czartoryski); quelli con Storie di santi domenicani, appartenuti probabilmente al perduto polittico del 1338 per S. Maria Novella (Parigi, Mus. des Arts Décoratifs, inv. nr. PE77; Poznan, Wielkopolskie Muz. Wojskowe, inv. nr. 11; New Haven, Yale Univ. Art Gall., inv. nr. 1871, 6; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.); i cinque scomparti di predella con Storie del Sacro Cingolo (Prato, Pinacoteca Com.), che si ritiene appartenessero all'altare della cattedrale pratese, pagato nel 1337-1338, e di cui un probabile frammento è la Vergine Assunta di New York (Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.), mentre non pare accettabile che ne facesse parte la più tarda predella con Storie di s. Stefano (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca). Ancora a questa fase vanno ricondotti gli scomparti centrali di tabernacolo di Napoli (Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte, inv. nr. 41), di Firenze (Uffizi, inv. nr. 8564) e infine quello già a Verona (Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte, inv. nr. 2162), nonché il trittico datato 1338 (già Coll. Seilern, ora a Londra, Courtauld Inst. Gall.), il frammento di Bayonne (Mus. Bonnat) e quello già a Milano (Coll. Anrep di Milano).L'ultima fase dell'attività di D., svolta interamente nel quinto decennio del secolo, punta da un lato a una ricerca di monumentale solennità impaginativa, dall'altro a una forte resa illustrativa, che si palesa in particolare nel polittico del Carmine a Firenze (diviso tra Locko Park, Derbyshire, Coll. Drury-Lowe; già Vienna, Coll. Lanckoronski; Firenze, depositi museali, inv. nrr. 8706-8707; Milano, coll. privata) e negli ultimi lavori: il polittico ora a Londra (Courtauld Inst. Gall., con predella divisa tra Bruxelles, Coll. Van Gelder; Firenze, Coll. De Carlo; New York, Stanley Simon Coll.; Strasburgo, Mus. des Beaux-Arts), eseguito con il concorso di collaboratori come l'Assistant of Daddi individuato da Offner (1930-1947, III, 5, p. 55), e soprattutto la tavola del tabernacolo di Andrea di Cione, la quale, pur esemplata su un'immagine più antica altamente iconica, esprime tenerezze di affetti e si arricchisce di preziose e originali decorazioni a pastiglia nelle aureole.Non è stata ancora individuata tra i collaboratori e i discepoli la figura artistica del figlio di Bernardo, Daddo, immatricolatosi dopo il 1346 (Hueck, 1972); peraltro molte componenti dello stile di D. influenzarono profondamente i pittori più giovani, sicché Andrea di Cione ne colse l'aspetto più iconico e monumentale, mentre Puccio di Simone e Allegretto Nuzi ne esaltarono le potenzialità decorative favorite dalla sintesi volumetrico-cromatica.Per il catalogo completo delle opere attribuite a D. si rimanda infine ai fondamentali studi di Offner, ancora recentemente aggiornati (Offner, Steinweg, 1989; 1991).
Bibl.:
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