Bernardo Davanzati
Per riconoscimento unanime degli storici è il grande iniziatore del pensiero moderno sulla moneta. Esprime con efficacia sia l’idea della moneta-merce (posizione metallista) sia quella opposta della moneta-simbolo (nominalismo o cartalismo), e mostra implicitamente che non sono contraddittorie. È il fondatore del concetto del valore basato sull’utilità. Davanzati mette fine alle critiche dell’interesse, legittimandolo definitivamente; ribadisce la condanna dell’alterazione della moneta e descrive con geniali metafore la circolazione del denaro, sia in moneta sia in lettere di credito. Inoltre mostra l’inconsistenza dell’idea che identifica l’oro con la ricchezza.
Nacque a Firenze il 31 agosto 1529, dove morì il 29 marzo 1606. Il padre Antonfrancesco si vantava di discendere dalla nobile famiglia guelfa dei Bostichi, e Bernardo aggiunse questo cognome al proprio; ma tale discendenza è incerta. Bernardo lavorò come mercante, dapprima a Lione, alle dipendenze dei Capponi, poi in proprio nella sua città. Investì gran parte dei suoi profitti commerciali nell’acquisto di terre, secondo l’uso dell’epoca, e infine anche di un palazzo, che da lui prende il nome. Crebbe in assenza del padre, il quale aveva combattuto in favore della repubblica fiorentina, e al ritorno dei Medici (1530) fu dichiarato ribelle ed esiliato. Sembra che per questo fatto Bernardo non poté ricoprire cariche pubbliche.
La madre, Lucrezia de’ Ginori, anch’ella di famiglia nobile, lo fece educare alle lettere. Davanzati si dedicò molto presto ad approfondire questi studi. Entrò appena diciottenne nell’Accademia fiorentina, dove ricoprì diverse cariche, e fu stimato e onorato. È ricordato come letterato, soprattutto per una versione in volgare degli Annali di Tacito (il primo libro fu pubblicato nel 1596), e poi di tutte le opere di questo autore.
L’imponente traduzione completa di Tacito fu pubblicata postuma dal figlio Giuliano nel 1637. Davanzati iniziò questa traduzione per rispondere al giudizio di un letterato francese, Henri Estienne, che mosse alla lingua italiana l’accusa («sciocca», come osserva Ferdinando Vegas, 1961, p. 1330) di essere prolissa in confronto a quella francese. Tacito è noto per la prosa estremamente concisa ed efficace. Davanzati volle dimostrare che l’italiano può essere altrettanto o anche più conciso della lingua di Tacito. Il suo stile fu molto ammirato. In realtà più di un critico letterario ha ritenuto quella traduzione troppo ostica e pesante (Custodi 1804, p. 6 nota; sulla vita di Davanzati, oltre a Custodi, v. Bindi 1852; Nuccio 1965; Zaccaria 1987). Soprattutto, come nota Vegas (1961), l’improba fatica di Davanzati è dovuta a un mero puntiglio linguistico che non ha alcun respiro letterario e culturale (pp. 1330-31). Il lavoro di Davanzati non ha in ogni caso nulla a che fare con il contemporaneo ‘tacitismo’, la corrente di realismo politico che s’ispirava a Tacito (pensando in realtà a Niccolò Machiavelli, che nell’Italia controriformista era pericoloso citare).
Con lo stesso stile Davanzati tradusse in compendio una storia dello scisma d’Inghilterra (pubblicata nel 1602), scritta in latino dal gesuita inglese Nicholas Sanders (De origine ac progressu schismatis anglicani), e altre opere. Scrisse ancora la Coltivazione toscana. Delle viti, e d’alcuni arbori (1600), e diversi opuscoli. Tra questi viene spesso ricordata l’Orazione in morte di Cosimo I (1574), letta all’Accademia degli Alterati, di cui pure faceva parte. Scrisse anche poesie che non ebbero fortuna. Fu consulente per il primo Dizionario dell’Accademia della Crusca fondata nel 1582.
I lavori economici di Davanzati si limitano a due opuscoli: la Notizia de’ cambj (in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 2, 1804, pp. 51-69; d’ora in poi, Cambi), del 1581 (non del 1582, come ritenuto erroneamente, cfr. Cambi, p. 67); e la Lezione delle monete (in Scrittori classici, cit., pp. 15-50; d’ora in poi, Monete), scritta nel 1588 (e non nel 1558). Questi testi furono molto apprezzati quando l’autore era in vita; e furono ripubblicati molte volte in seguito. Con il tempo questi brevi scritti, in cui la profonda conoscenza pratica della mercatura e la capacità analitica si armonizzano e producono analisi brillanti ed eleganti, dettero a Davanzati una meritata fama nel campo dell’analisi economica.
Il dibattito monetario del 16° sec. fu molto intenso. Lo sviluppo del commercio internazionale e delle manifatture favorirono una discussione sul ruolo della moneta che ha un’impostazione profondamente rinnovata rispetto al periodo precedente. In questo secolo si formano le idee basilari che avrebbero guidato il pensiero economico fino alla scuola classica. Il merito di Davanzati consistette nel dare a una serie di concetti di base un’impostazione nuova, adeguata alla nuova realtà economica.
Apparentemente il modo in cui Davanzati parla della divisione del lavoro è ancora legato al vecchio concetto dei Padri della Chiesa. Essi la vedevano come specializzazione internazionale della produzione, dovuta alla diversità di clima e di proprietà geografiche, e voluta dalla Provvidenza per favorire lo scambio solidale fra Paesi. Nel nostro autore vi è un’eco di quest’impostazione. Tuttavia egli si riferisce anche alla divisione del lavoro fondamentale, quella fra gli individui. La sua analisi è dinamica e molto più approfondita di quelle antiche, di Senofonte e di Platone, e di quelle medievali. Davanzati ci fornisce la migliore descrizione della divisione del lavoro prima di Sir William Petty (1623-1687). L’uomo, egli scrive, è
bisognoso di molte cose, le quali niuno potrebbe procacciarsi da sè; onde noi viviamo nelle città per ajutarci l’un l’altro diversamente, per diversi ufficj, gradi ed esercizj.
Ogni uomo e ogni Paese (secondo il clima) nasce adatto a una particolare produzione. Perciò ognuno
lavora e s’affatica non per se solo, ma per gli altri ancora, e gl’altri per lui; e l’una l’altra città, e l’uno l’altro regno condisce del suo soverchio [col suo sovrappiù], ed è fornito del suo bisogno (Monete, pp. 22-23).
Il commercio dei beni, mediati dalla moneta, nasce perché «era malagevol sapere a cui la cosa a te soverchia mancasse, o la mancante a te lui soverchiasse» (p. 23).
La derivazione del commercio dalla differenza naturale delle produzioni fra i vari Paesi era stata già spiegata da Davanzati nella Notizia de’ cambj (pp. 51-52), dove egli aggiunge un’interessante tripartizione del commercio: quello tra beni, o baratto, che è un atto naturale; quello di beni con moneta, o vendita, che fu trovato per agevolare il primo; e quello di moneta con moneta, o cambio, che nacque per agevolare il secondo tipo di scambio.
Gli autori del 16° sec. dovettero innanzitutto laicizzare il pensiero economico, liberandosi delle pesanti ipoteche ideologiche del Medioevo. Il problema che più soffriva di un’impostazione ideologica era quello della liceità dell’interesse monetario che allora era chiamato usura.
La Chiesa aveva osteggiato l’interesse per tutto il Medioevo, aiutata anche dalla drastica condanna espressa da Aristotele. I riformatori protestanti attaccarono questo divieto. Charles Dumoulin in particolare, nel 1546, fece una tagliente critica alla condanna dell’usura e difese la liceità dell’interesse.
L’argomento usato da Davanzati in difesa dell’interesse è di ordine pratico. Non è un argomento nuovo, ma è espresso in modo molto efficace. Egli infatti scrive che quando si diffuse l’uso delle lettere di cambio, per evitare di trasportare ogni volta il denaro negli atti di compravendita, ci si rese conto che il pagamento dilazionato lasciava un vantaggio a chi deteneva il denaro per un certo periodo. Così nel prezzo pattuito venne inserita una percentuale in più sulla somma da restituire, rispetto a quella avuta in prestito. Da questo fatto si sviluppò l’ingordigia di voler lucrare quell’interesse, anche se non c’era l’immediata necessità di un prestito in denaro. Nacque così l’arte del cambio (Cambi, p. 54).
L’autore però osserva che l’arte del cambio, anche se è nata da tale ingordigia, ha potenziato le possibilità di commercio e, con questo, ha reso «agiata e splendida» la vita umana. Egli, da un lato, giustifica l’interesse nel modo tradizionale, appellandosi all’autorità di sant’Antonino, vescovo di Firenze (14°-15° sec.), e di Tommaso De Vio, detto il cardinal Gaetano (15°-16° sec.; Cambi, pp. 54-55). Questi autori avevano addotto argomenti in favore dell’interesse, presentandoli come eccezioni necessarie alla condanna ufficiale dell’usura da parte della Chiesa. Essi si rifacevano al francescano san Bernardino da Siena, contemporaneo di sant’Antonino. San Bernardino, a sua volta, aveva attinto abbondantemente, senza citarlo, dagli scritti – proibiti – di Pietro Olivi (13°-14° sec.). Quest’ultimo, anche lui francescano, era stato perseguitato e censurato a causa, però (paradossalmente), del suo pauperismo estremo, non della sua difesa dell’interesse.
Dall’altro lato, Davanzati mostra la sua grande originalità fornendo una specie di protoversione della teoria della mano invisibile, dove però l’interesse per sé non è ancora legittimato: «sebbene l’intenzione de’ particolari cambiatori non è così buona, l’effetto universale che ne seguita è buono» (Cambi, p. 55). Egli spiega poi il variare dell’interesse sui prestiti con un’efficace descrizione dei processi di aggiustamento tra domanda e offerta (pp. 56-57), dando infine un’illustrazione dettagliata dei meccanismi del credito in Europa (pp. 57-69).
Per quanto riguarda la natura e le origini della moneta, nel Medioevo era prevalente – pur se non esclusiva – la posizione metallista, che risale ad Aristotele. Secondo quest’approccio, la moneta è innanzitutto una merce, con un proprio valore d’uso, anche se richiede la sanzione ufficiale dello Stato. Essa viene scelta come unità di conto del valore delle altre merci, e come mezzo di scambio tra loro, grazie al fatto che è molto importante e quindi ha un valore noto a tutti. Ciò implica che il valore di scambio (o potere d’acquisto) della moneta riflette il valore di scambio della merce che ha funzione di moneta.
Davanzati innanzitutto parla dell’invenzione della moneta come mezzo di scambio per superare la scomodità del baratto (Cambi, p. 52). Quindi parla della moneta come «misura di valore»: alle origini del commercio – scrive – come si scelse un luogo per lo scambio (il mercato, le fiere), così si scelse una merce per «farla valere per tutte l’altre, e ogni altra dare e ricevere per un tanto di lei» (Monete, p. 24). Qui egli inserisce l’interessante osservazione che la parola comperare non è altro che la versione toscana di comparare, a indicare il ruolo di unità di conto della moneta. E osserva più volte che l’oro e l’argento dapprima fungevano da moneta come semplici pezzi. Poi questo materiale «si venne al pesarlo, al segnarlo, al farne monete» (Monete, p. 25; cfr. Cambi, pp. 52-53).
Davanzati ritiene che solo il rame, l’argento e l’oro possano fungere da moneta nei mercati internazionali. Essi sono stati scelti come «metalli più nobili e portabili, contenenti in poca massa molta valuta» (Cambi, p. 52). L’autore assimila le monete fatte di altri materiali a segni convenzionali che non valgono al di fuori del mercato domestico (Monete, pp. 28-29). Da qui deriva la sua forte condanna per ogni alterazione della moneta. Il sovrano può decidere la forma della moneta; «basta che egli non tocchi la sostanza, ove non ha potere, cioè non faccia moneta che de’ tre metalli, e non le dia mentito pregio» (p. 31) dandole un valore nominale superiore al metallo contenuto.
Sembrerebbe dunque che Davanzati fosse un metallista rigido. E così ne parla nel 1949 Joseph A. Schumpeter, il quale dice che il suo metallismo si trasmise a tutti gli italiani successivi; in particolare a Geminiano Montanari, a Ferdinando Galiani e agli autori dell’Illuminismo milanese (1954, parte II, cap. 6, § 2a-b, pp. 292-93). Tuttavia il metallismo rigido – legando il valore della moneta alla sua forma materiale – appare poco coerente con l’idea del valore basato sull’utilità, che tutti gli storici riconoscono in Davanzati. Il valore-utilità porta infatti a pensare più alla funzione della moneta che alla sua materia.
In realtà, nell’analisi di Davanzati si affaccia spesso la tradizione opposta al metallismo che potremmo chiamare nominalista (o cartalista, secondo la terminologia adottata da Schumpeter). Quest’impostazione, che risale a sua volta a Platone, vede la moneta soprattutto come segno. In questo senso, il suo valore è dato dal sovrano, ed è indipendente dal valore intrinseco del bene che funge da moneta.
Nel Medioevo vi era un filone che possiamo chiamare di metallismo moderato, il quale riconosceva alla moneta un valore intrinseco, dato dalla materia di cui era fatta, ma riteneva anche che questo valore potesse essere variato dal sovrano. Nella prima parte del 16° sec., accanto al nominalismo degli inglesi, come John Hales, si era affermato questo metallismo moderato, soprattutto con il giurista francese Dumoulin (per un’analisi più vasta v. Perrotta 2004).
Una simile posizione assume, di fatto, Davanzati in diversi passaggi. Per es., quando dice che la moneta è «quasi mezzana o fonte del valor universal delle cose, o separata sostanza e idea» (Monete, p. 24). O quando afferma che gli uomini «si sono accordati» a fare di oro e argento la misura di tutte le altre cose, anche se questi «alla vita nostra […] poco servono per natura» (p. 20). Concetto che poi ribadisce: la moneta è valore e misura di tutte le cose «perchè così d’accordo son convenuti gli uomini, e non perché tanto vagliano di natura questi metalli» (p. 31).
Ma la tendenza nominalistica di Davanzati appare soprattutto (come ammette lo stesso Schumpeter, 1954, II.6.4b, pp. 313-14) nella sua analisi del valore e del prezzo. Come vedremo meglio, egli spiega che il valore dell’insieme di tutti i beni esistenti corrisponde al valore della massa di tutto il denaro disponibile. Il valore di un bene quindi è determinato dalla porzione che questo bene rappresenta di tutto l’insieme di beni; e il suo prezzo è espresso dalla corrispondente quota della massa di denaro (Monete, pp. 32-33).
Nel Medioevo gli scolastici, discutendo intorno al giusto prezzo delle merci, avevano usato, per definire il valore di un bene, sia criteri oggettivi, basati sul costo di produzione, sia criteri soggettivi, basati sull’utilità. L’età moderna invece si apre con la separazione – mai più ricomposta – dei due criteri di misurazione del valore dei beni. Davanzati è il primo, o almeno il più efficace, ispiratore del filone del valore-utilità. Questo filone si presenta per primo. Quello del valore-costo di produzione riapparirà solo con Petty.
Il filo del ragionamento sull’oro e l’argento che, pur avendo poca utilità, sono diventati misura di ogni valore, porta naturalmente Davanzati a esaminare il cosiddetto paradosso del valore (Schumpeter 1954, II.6.3a, p. 300). Questo paradosso risaliva al Medioevo e consisteva nel chiedersi come mai l’acqua, che ha un’utilità massima, ha così poco valore di scambio, mentre il diamante, che ha una minima utilità, ha un valore di scambio molto grande.
Riflettendo sull’utilità intrinseca dell’oro e dell’argento, dunque, Davanzati separa il valore di scambio dal valore d’uso. Egli afferma:
Un vitel naturale è più nobile ch’un vitel d’oro; ma quanto è pregiato meno [quanto minore è il prezzo]? Un uovo, ch’un mezzo grano d’oro si pregia, valev’a tener vivo il cont’Ugolino nella torre della fame ancor il decimo giorno, che tutto l’oro del mondo no’l valeva.
Che più a nostra vita importa che’l [del] grano? Nondimeno diecimila granella oggi si vendon un gran d’oro (Monete, pp. 31-32).
L’elemento della rarità è dunque la chiave che Davanzati fornisce per spiegare il paradosso del valore. Ecco il suo esempio più icastico:
Schifissima cosa è il topo; ma nell’assedio di Casilino uno ne fu venduto 200 fiorini per lo gran caro [qui cita Plinio], e non fu caro, poichè colui che ’l vendè morìo di fame e l’altro scampò (Monete, p. 34).
Egli prosegue con un lungo elenco di esempi storici che mostrano come il valore delle cose dipenda soltanto dall’utilità che il compratore vi attribuisce. Negli esempi e nelle espressioni, Davanzati passa di continuo dall’idea di utilità cardinale (secondo cui l’utilità di un certo bene è uguale per tutti) a quella di utilità ordinale (per la quale le scale di preferenza dei singoli sono diverse; quindi lo stesso bene ha un valore diverso per i diversi consumatori). Egli non avverte la differenza fra i due tipi di utilità. Invece gli scolastici usavano quasi sempre il concetto di utilità cardinale, poiché nei criteri di valutazione di un bene includevano la stima data dalla comunità.
Mentre illustra i vari esempi, l’autore si pone la domanda cruciale sul valore di scambio; la stessa che si era posta Aristotele duemila anni prima, senza saper dare una risposta chiara. Davanzati scrive:
Ma com’è ciò, che cose per natura sì valenti vagliano sì poc’oro? E da che radice dipende, che una cosa vaglia tanto più dell’altre, più tosto che tanto, o tant’oro più tosto che cotanto? (Monete, p. 32).
La spiegazione che egli fornisce è complessa. Gli uomini, afferma, lavorano per essere felici; e cercano la felicità nel soddisfare i loro bisogni attraverso le cose della natura (i beni). «Tutte le cose terrene», prese nel loro insieme, valgono quanto tutto l’oro (argento e rame) che viene lavorato come moneta. Perciò «quanta parte di tutta la felicità d’un regno, d’una città, d’un uomo alcuna cosa opera e cagiona, tanta parte vale di tutto ’l suo oro o lavoro» (Monete, p. 32). In termini moderni possiamo dire che il grado di soddisfazione procurato corrisponde alla parte di massa di denaro che esprime il suo prezzo.
Davanzati, però, si sposta insensibilmente verso il concetto di utilità ordinale, che mal si accorda con l’idea del valore rappresentato da una quota oggettiva di beni e di denaro: un bene «tanta ne cagiona [di felicità] quant’è la sua voglia o ’l bisogno: perochè si gode tanto del bere quanto è grande la sete» (pp. 32-33). L’intensità dei desideri e dei bisogni dipende dai gusti, dalle circostanze, dall’«eccellenza», e anche dalla rarità o abbondanza. E tutti questi fattori variano continuamente: «prendon misura con perpetuo variare» (p. 33).
A questo punto, Davanzati cambia di nuovo registro e fa dipendere il valore del denaro dalla sua abbondanza, prospettando l’idea dell’inflazione. Per es., scrive, l’arrivo dell’oro americano ha fatto crescere i prezzi di tutte le cose; ma, sottintende, ciò non sposta i rapporti tra di esse, cioè i rispettivi valori di scambio (p. 35).
Davanzati è stato fra i primi a descrivere la circolazione del denaro nella società con la metafora, in seguito molto usata, della circolazione sanguigna dell’organismo biologico (Monete, pp. 36-38). Egli preferisce questa metafora dinamica a quella, molto diffusa al suo tempo, del denaro come nerbo della guerra o dello Stato (p. 36). Il denaro, dice, vivifica tutte le nostre attività. Se esso si ferma nel capo o nei ceti più alti della società, crea delle occlusioni che portano all’atrofia e ad altre malattie (Francesco Boldizzoni, 2008, p. 86, osserva giustamente che l’analogia di Davanzati riguarda il denaro, non il capitale). Se è mal governato, il denaro genera falsità, monopolio, simonia, usura e tanti altri mali (Monete, p. 38).
La circolazione deformata dall’alterazione delle monete e dalla legge di Gresham è oggetto di un’altra brillante descrizione, che chiude la Lezione delle monete. Invece la Notizia de’ cambj termina con una splendida analisi dei movimenti del denaro sulla base delle variazioni dei tassi d’interesse (v. anche Boldizzoni 2008, pp. 40-41). L’interesse monetario, stabilito dal confronto tra le monete correnti e la moneta d’oro puro, dice l’autore, è quello che si chiama «la pari». Intorno a questa pari i prezzi del cambio monetario oscillano «quasi Mercurio intorno al Sole, or innanzi or addietro, nè se ne posson molto discostare» (Cambi, p. 68). Se si discostano troppo da essa, il cambio viene rifiutato, e il prezzo torna rapidamente «al suo segno della pari». Contando sul doppio significato del termine piazza (che significa sia il luogo urbano sia il mercato finanziario di un posto), Davanzati spiega con estrema efficacia: «il contante, come acqua, corre ne’ luoghi più bassi, e viene e va secondo che una piazza ne diviene asciutta o traboccante; perciò non lascia il cambio far le pazzie» (p. 69).
Ma i prezzi del cambio non possono neanche stare fermi sulla pari. Essi vanno su e giù secondo la scarsità o l’abbondanza dell’offerta di denaro. Infatti, se si cambiasse sempre allo stesso prezzo, non ci sarebbero guadagni. Ciò farebbe cessare l’attività del cambio e gli scambi commerciali ne soffrirebbero (Cambi, pp. 67-69).
Come facevano gli autori più avvertiti ormai da tre secoli (da Nicola d’Oresme in poi), anche Davanzati svolge la sua serrata critica alla pratica dell’alterazione della moneta (cioè alla coniazione fraudolenta, soprattutto da parte del sovrano, che metteva una quantità di metallo pregiato inferiore a quella dichiarata). Quest’abitudine, dice, per successive piccole variazioni, ha ridotto di un terzo in sessant’anni il valore delle monete europee. Quanto più si deteriora la lega o il peso della moneta tanto minori sono le entrate dello Stato, ma anche i crediti e le proprietà dei privati perdono di valore.
L’autore usa gli stessi argomenti dei suoi predecessori, ma lo fa con grande efficacia. L’alterazione provoca l’aumento dei prezzi e quindi deprime la domanda di beni (Monete, p. 40). La miopia del sovrano non gli fa vedere che danneggia se stesso, perché ciò che guadagna nell’immediato lo toglie ai sudditi, e quindi alle tasse che essi pagano (p. 41).
Per di più l’alterazione genera confusione perché rende inadeguate tutte le misure e i pesi. Non vi è niente di peggio per lo Stato, esclama Davanzati, che cambiare ogni giorno leggi, moneta, regole e usanze. La confusione si crea tra le stesse monete: se la moneta d’argento viene alterata, quella d’oro aumenta di valore; e tutto l’oro fluisce là dove vale una maggiore quantità di argento (pp. 41-42).
In questo contesto l’autore fornisce una brillante versione della legge di Gresham, che veniva emergendo nella letteratura proprio in quel periodo. Secondo questa legge la moneta alterata, che vale di meno, tende a occupare il mercato. La moneta buona invece sparisce, perché viene tesaurizzata. Se il sovrano, egli scrive, non partecipa alla pratica comune dell’alterazione, la sua moneta sparisce dal mercato per tornarvi solo una volta che viene alterata dai privati; mentre le monete straniere (alterate) occuperanno il mercato. In questo caso, dice Davanzati, non bisogna permettere la circolazione delle monete straniere e si deve obbligare chi le ha a cambiarle, in base al loro valore effettivo (che è minore di quello dichiarato), con monete dello Stato. Così l’alterazione della moneta buona da parte dei privati non sarà più conveniente (Monete, pp. 43-44).
Dunque Davanzati chiede che il valore della moneta corrisponda esattamente al valore di un pezzo del metallo pregiato dello stesso peso, tanto che le due cose siano intercambiabili (Monete, pp. 46 e 49). È vero, aggiunge, che – per compensare le spese di coniazione – molti autori sostengono il diritto di signoraggio (la tassa che normalmente crea un certo divario tra valore nominale, superiore, e valore reale della moneta), ma altri sostengono che la spesa di coniazione dev’essere a carico dello Stato. È una spesa pubblica necessaria per garantire la circolazione del denaro, e quindi il commercio; allo stesso modo – dice Davanzati – in cui lo Stato paga i soldati e i giudici per la libertà e la sicurezza (questa tesi di Davanzati fu molto apprezzata nel 1923 da Arthur Eli Monroe, rist. 1966, pp. 59-61). Tuttavia, se proprio è necessario prevedere il signoraggio, che almeno sia minimo e che si risparmi sulla coniazione, anche a costo di fare le monete meno belle (Monete, pp. 46-49).
A questo proposito l’autore accenna al fatto che nelle monete, nel vasellame o nei drappi ricamati, spesso le migliorie apportate dal lavoro valgono più della materia di quel bene (Monete, p. 47). Ma da questo accenno fugace non si può dedurre alcuna tendenza di Davanzati per un’idea del valore-costo di produzione.
Il 16° sec. fu segnato dall’arrivo massiccio di oro e di argento dall’America in Spagna e, attraverso essa, in Europa. Questo fenomeno sconvolse l’economia europea. La Spagna si ritenne ricca e trascurò la produzione interna. Sacrificò le manifatture e la piccola agricoltura all’interesse dei latifondisti allevatori, che volevano esportare la lana grezza, uccidendo le possibilità di sviluppo. Oppresse il commercio con le tasse; lasciò la produzione agricola alla mercé dei parassiti che campavano di rendite. Il risultato fu una spaventosa inflazione che spinse gli spagnoli ad acquistare dall’estero tutti i beni manifatturieri che consumavano. Si formò quindi un imponente flusso di denaro verso i Paesi più avanzati. Il commercio spagnolo, interno ed estero, fu monopolizzato dagli stranieri, soprattutto dai genovesi. La Francia, l’Olanda e l’Inghilterra si arricchirono vendendo i loro prodotti industriali alla Spagna; e potenziarono le loro industrie grazie all’oro spagnolo, che esse trasformavano in capitale da investire.
Questi processi cambiarono radicalmente anche il pensiero economico. Come abbiamo detto, nel Medioevo si era affermata la consapevolezza delle conseguenze negative dell’alterazione delle monete: svalutazione e aumento dei prezzi (conseguenza già nota nell’antichità); abbassamento del valore dei redditi fissi e dei crediti; diffondersi della sfiducia; scomparsa della moneta migliore.
Nel 1566, per spiegare la crescente inflazione dei prezzi, il francese Jehan Cherruyt de Malestroict nei suoi Paradoxes sur le faict des monnoyes ricorse alla spiegazione tradizionale: l’alterazione delle monete è la causa unica dell’aumento dei prezzi. Ma Jean Bodin, nel rispondergli, diffuse per la prima volta l’idea dell’inflazione come frutto dell’aumento dell’offerta di moneta (Réponse aux paradoxes de Mr. de Malestroict, 1568, in appendice a J. Bodin, Les six livres de la République, VI.2, 1576, pp. 882-83).
Davanzati riprende la tesi di Bodin, non sappiamo quanto consapevolmente, ma lo fa con maggiore chiarezza ed efficacia del francese. Egli osserva che il valore dei beni dipende anche dalla loro utilità e dalla rarità. Tuttavia, al momento, tale valore viene sconvolto dall’eccesso di offerta monetaria. Scrive il nostro autore:
[...] quando tutto l’oro di quelle contrade [americane] sarà nelle nostre versato (che tosto avverrà seguitando queste ricche navigazioni […]), allora converrà, perchè l’oro ci fia vilissimo, trovar altra cosa più rara per far moneta, o tornar al baratto antico (Monete, p. 35).
L’aumento dei prezzi dei beni quindi è nient’altro che lo svilimento del valore della moneta, dovuto all’eccesso di moneta sul mercato.
La consapevolezza dell’inflazione da eccesso di offerta monetaria è la premessa della cosiddetta teoria quantitativa della moneta. Secondo questa teoria, l’aumento dell’offerta di moneta o della sua velocità di circolazione, a parità di altre condizioni, accresce i prezzi nella stessa proporzione. Invece il livello dei prezzi è in proporzione inversa al numero delle transazioni (scambi); perché l’aumento delle transazioni impegna più moneta, e agisce come se diminuisse la quantità di moneta disponibile (la formulazione definitiva di questa teoria fu data solo nel 1911, da Irving Fisher). Il principale corollario di questa teoria è che le variazioni monetarie non influiscono sui processi dell’economia reale. Infatti il simultaneo aumento di tutti i prezzi lascia immutati i rapporti tra i fattori economici reali.
Dagli anni Trenta fino ai Cinquanta del Novecento, vi fu una vivace discussione tra gli storici per stabilire chi abbia avuto il primato nell’esprimere questa teoria. L’attenzione fu puntata proprio sugli autori del 16° secolo. Furono indicati a turno Nicola Copernico; gli anonimi autori sassoni del dibattito sulle monete (i cosiddetti autori albertino ed ernestino, dal nome dei principi i cui interessi rispettivamente rappresentavano); gli scolastici spagnoli, che analizzarono per primi il fenomeno dell’inflazione e la sua connessione con la quantità di oro (Martín de Azpilcueta e Tomás de Mercado); Jean Bodin. Infine Jean-Yves Le Branchu (1934, pp. 1250-56), e Schumpeter (1954, parte II, cap. 6, § 4b, pp. 313-14) hanno affermato che è Davanzati l’autore del 16° sec. che più di tutti si è avvicinato alla formulazione della teoria, probabilmente proprio a causa del brano succitato sul deprezzamento della moneta in seguito all’arrivo dell’oro americano.
Schumpeter vede un’affinità logica tra la teoria quantitativa e la posizione cartalista, cioè nominalista, sulla moneta. La teoria, infatti, tratterebbe la moneta non come una merce, ma come un voucher. In realtà, si può concedere che ci sia una certa affinità, ma non che essa sia tanto cogente da determinare la presenza di una teoria quantitativa in Davanzati. Nel nostro autore troviamo soltanto la chiara consapevolezza dell’inflazione da offerta di moneta e il calcolo del valore di un bene sulla base della quota di denaro che esso rappresenta.
Tutte le formulazioni di quel periodo si limitano sostanzialmente a stabilire un rapporto causale tra offerta di moneta e livello dei prezzi (v. anche Roncaglia 2001, p. 55); ed è troppo poco per parlare – anche per quanto riguarda Davanzati – di teoria quantitativa. D’altra parte i classici e i neoclassici, grazie alla teoria quantitativa, hanno sempre trascurato l’importanza dell’accumulazione di denaro ai fini dello sviluppo. I mercantilisti invece, che proprio nel sec. 16° cominciarono ad affermarsi, avevano un forte senso dell’importanza del denaro come capitale. Essi certamente non credevano che l’offerta di denaro fosse ininfluente sull’aumento della produzione.
Davanzati è un autore economico di scarse conoscenze teoriche, anche rispetto ai suoi contemporanei (si pensi, per un confronto, a Bodin, a Dumoulin, o ai dottori domenicani della Scuola di Salamanca). Tuttavia la sua ricca esperienza pratica, la sua eccezionale capacità di analisi e anche la sua grande capacità descrittiva e metaforica gli permettono, nei suoi due brevi opuscoli sull’economia monetaria, di fissare molti concetti teorici fondamentali per l’economia dell’età moderna. La sua influenza sul pensiero successivo fu grandissima.
Notizia de’ cambj, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 2, Milano 1804, pp. 51-69 (rist. anast. Roma 1965).
Lezione delle monete, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte antica, t. 2, Milano 1804, pp. 15-50 (rist. anast. Roma 1965).
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