Scannabecchi, Bernardo (Bernardino) di Canaccio
Cavaliere, magistrato e rimatore, di nobile famiglia bolognese esiliata a Verona, nella sua giovinezza amico di D., soprattutto noto per avere composto e fatto incidere sulla tomba di D. l'epitafio che ancora vi si legge nel rifacimento di B. Bembo.
La famiglia, di non remota origine perugina, se fu suo antenato l'omonimo Bernardo S. da Monteacuto (Perugia) già notaio a Bologna nel 1220, fu di Parte lambertazza (ghibellina) e il suo avo Bernardino, decapitato nel 1284, fu una vittima delle feroci lotte politiche bolognesi. Negli anni seguenti tutti gli S. furono più volte banditi dalla città; in una lista di confinati " pro parte Lambertaciorum " (redatta, si deve notare, sotto il capitanato di Fulcieri da Calboli) figurano confinati a Verona nel 1299 Arpinello, detto Canaccio, e Tommaso figli di Bernardino, e il piccolo " Bernardinus filius dicti Arpinelli, ætatis duorum annorum ". A Verona e nell'ambiente degli esuli protetti dagli Scaligeri poté dunque nascere un'amicizia tra D. e la famiglia S.: troveremo più tardi attestato con sicurezza l'affetto di Bernardo per D. vivo. Solo nel 1349 Iacopo e Giovanni Pepoli revocarono il bando a Bernardo, a suo fratello Guglielmo e a Doffo di Tommaso. In questo mezzo secolo gli S. erano rimasti nell'orbita degli Scaligeri: Guglielmo aveva tenuto varie cariche e incarichi per Alberto e Mastino della Scala, e Bernardo era stato podestà per loro a Conegliano nel 1330-32, nel 1336 aveva partecipato a trattative con Roberto re di Napoli, era stato podestà di Vicenza nel 1342-43. Durante questa podesteria, il 17 marzo 1343 fu posta la prima pietra del castello scaligero, e l'epigrafe celebrativa ci fornisce il primo ricordo di lui come uomo di cultura, nell'accenno alle sue doti di mente e di eloquio, dono di Pallade: " Scanabica ab origine miles / Bernardus tunc rector erat, quem mentis et oris / dotibus ornavit Pallas ". Più importa che in quella carica avesse tra i suoi funzionari, come giudice e vicario, Pietro di Dante. Nel 1352 è nota una sua presenza a Bologna, ma non sembra che vi prendesse dimora. L'anno seguente, col figlio Lodovico e altre persone, subì in Bologna un processo, del quale sappiamo solo che fu coimputato dell'assassinio di Bonifazio Carbonesi. Nel 1356 dimorava in Ravenna con la moglie Sara di Camposampiero, una donna nobilissima, già vedova di Meliaduse Tempesta Avogaro signore di Noale, poi di Bertrando dei Rossi di Parma. Il testamento di Sara (Ravenna, 26 agosto 1356), a cui Bernardo era presente, oltre a due figli del secondo marito, ne nomina quattro di Bernardo: Lucia, Annibale, Guglielmo e Scipione. È l'ultima notizia documentaria su di lui; ma probabilmente si deve porre all'anno seguente lo scambio di sonetti relativo all'epitafio dantesco e l'incisione di questo sulla tomba di D.; e la vita di lui, a Ravenna o altrove, poté certo protrarsi oltre questa data.
Il testo dell'epitafio è riportato da numerosi manoscritti dei secoli XIV e XV, che rappresentano, con varianti dovute ai copisti, il testo qual era inciso sulla tomba di D. prima del 1483. L'epitafio andò allora perduto nella sua forma originale, certamente in maiuscole gotiche, ma B. Bembo volle tuttavia conservarne il testo nella sua sistemazione della tomba di D., facendolo reincidere, probabilmente sullo stesso sarcofago rilavorato, nelle forme capitali imposte dalla nuova epigrafia d'imitazione classica. Vi furono premesse le tre lettere " S(ibi) V(ivus) F(ecit) " (altre interpretazioni sono certamente da escludere) che esprimono l'opinione allora invalsa, dovuta all'uso della prima persona, che ne fosse autore lo stesso D.; opinione certo condivisa dal Bembo e alla quale forse dobbiamo la sua decisione. Un solo manoscritto presenta una copia di origine diversa: il Canoniciano ital. 97 della Bodleian Library di Oxford della Commedia, col titolo " Epitaffium ad sepulcrum Dantis in Ravenna urbe, factum per dominum Bernardum de Canatro " (da corr. " Canatio "); il testo è seguito da un anonimo Sonettus de laude dicti domini Bernardi, che lo loda e ringrazia per avere realizzato l'epitafio sulla tomba (" Vostro sì pio officio offerto a Dante, / tanto aspettato già, messer Bernardo, / tanto più car li fia, quanto più tardo / gli è stato ogni altro amico al simigliante. / ... Voi fate che il suo nome omai non more / ... scritto nel marmo vostro ad ogni vista. L'onor che date al cenere et all'osse / vostro amor mostra quanto al vivo fosse "), e da un sonetto di risposta per le rime, Responsio dicci domini Bernardi (incipit " Quando 'l turbato volto al bel Palante ", ugualmente caudato con due versi). Il codice è unica fonte per i due sonetti ed è anche il solo che attesti la paternità dell'epitafio e una probabile variante d'autore al v. 5. Un tale dossier di testimonianze non può che risalire in ultima analisi a Bernardo stesso, nonostante l'errore del nome e qualche deterioramento nel testo dei due sonetti. Il tutto fu reso noto dal Mortara nel 1864, ma la ricostruzione storico-biografica procedette solo molto lentamente per merito del Borgognoni, del Ricci e del Livi. Scartata l'identificazione con un canonico Bernardo Catenacci di Piacenza (L. Frati, in un primo tempo accettata dal Ricci), è stata a poco a poco chiarita la biografia dello S., e resa sempre più probabile l'attribuzione del primo sonetto, intenzionalmente anonimo (vv. 7-8 " ma me guardo / di nominarmi in questo foco ov'ardo, / ché servir non ven posso come fante ") a Menghino Mezzani (v.); i versi citati alludono a una sua disgrazia politica presso Bernardino da Polenta con conseguente prigionia, documentata nel 1357 e riconosciuta dal Torraca nella X egloga del Boccaccio. Ma anche se non si accettassero l'attribuzione al Mezzani del sonetto anonimo e la datazione connessa, ineccepibili resterebbero le testimonianze offerte dal sonetto stesso e l'autorità del codice Canoniciano per la paternità dell'epitafio.
Niente pertanto si oppone a far risalire la composizione dell'epitafio al tempo della morte di D. e alla gara di poeti di cui parla il Boccaccio (v. EPITAFI). D'altra parte il contenuto (canone ristretto delle opere, Monarchia e Commedia, e motivo dell'esilio) lo accosta a quello di Giovanni del Virgilio, con questo in più, che il riferimento alla Monarchia sottolineato dalla posizione iniziale, può ben rispecchiare sentimenti e qualificazione politica di Bernardo, come nell'efficace accentuazione del tema dell'esilio è possibile scorgere una sua calda partecipazione personale e familiare. L'epitafio, composto di sei esametri riuniti in tre coppie rimate, si legge come segue nel codice citato: " Iura monarchiae, superos, Flegetonta lacusque / lustrando cecini voluerunt fata quousque; / sed quia pars cessit melioribus hospita castris / auctoremque suum petiit felicior astris /hic claudor Dantes, propriis eiectus ab oris, / quem genuit parvi Florentia mater amoris ". Il marmo attuale presenta due varianti ortografiche (v. 1 Phlegetonta, 4 actoremque) e al v. 5 patriis extorris; " propriis " si trova anche in un altro codice, ma " eiectus " solo in quello, sicché almeno questa parola dovrebbe risalire alla stesura originaria dell'autore, forse sostituita per miglioramento formale o, come è stato detto, per riguardo a Firenze, con il più elegante e meno forte extorris, " esule ". Nel v. 1 si suole vedere in " superos, Flegetonta lacusque " le tre cantiche (lacus, " i lavacri " del Purgatorio: Zingarelli, Chimenz), ma molti riscontri rendono più probabile che " Flegetonta lacusque " designino insieme l'Inferno (Antognoni, pp. 326, 342) senza che per questo sia necessario intendere in " superos " anche la seconda cantica. Nel v. 2 è abbastanza curioso " lustrando cecini ", riferito insieme alla prosa della Monarchia e alla poesia della Commedia; al v. 3 " hospita " si deve certo congiungere con " pars " (l'anima), non con " castris ". Modeste tracce della cultura scolastica dello S. si possono vedere al v.1 " Iura monarchiae " (l'espressione ricorre due volte nel Tobias di Matteo di Vendòme, cap. 8 ed Epil.; v. Migne Patrol. Lat. CCIV 961, e Faral, Les arts poétiques, Parigi 1924, 12); v. 3 " pars cessit ", possibile derivazione da Virgilio Aen. III 333-334, come al v. 6 " genuit " dall'epitafio di Virgilio. Generico, ma non improbabile, l'accostamento dei vv. 5-6 a Rime CXVI 77-79 Fiorenza, la mia terra, / che fuor di sé mi serra, / vota d'amore e nuda di pietade (C. Ricci, p. 305).
Quest'ultimo riferimento può senza sforzo essere accostato allo stile ‛ dantesco ' del solo sonetto noto dello S. (nel quale sono anche presenti motivi virgiliani, agiografici e biblici), così che forse non è arrischiato inserire lo S. nel " soddilizio " di cultori di D. recentemente affiorato nel sonetto XLIII di Antonio da Ferrara, così vicino al Mezzani (v.). Nel canto VII della Leandreide è nominato come rimatore (forse non a caso insieme con due bolognesi e ‛ dantisti ', Matteo Mezzovillani e Iacopo della Lana), ma purtroppo conosciamo dello S. quel solo sonetto, che poté anche essere il medesimo che di lui si leggeva nel perduto codice Boccoliniano di rime antiche.
Bibl. - V. Carrari, Historia de' Rossi parmigiani, Ravenna 1583, 110; P. Litta, Famiglie celebri italiane, Camposampiero della Marca Trevigiana, tav. II; ID., Rossi di Parma, tav. II; A. Mortara, Catalogo dei ... Codici Canoniciani Italici ... nella Biblioteca Bodleiana a Oxford, Oxford 1864, 110-112, 269-270; A. Borgognoni, Del vero autore dell'epigrafe che si legge sul sepolcro di D., in " Diario Ravennate " (1868), poi in " Rassegna Settimanale " IV (1879) 239-241; E. Moore, The tomb of D., in " English Historical Review " III (1888) 641, 643-647 (poi in Studies on D., IV, Oxford 1917, 166-208); L. Frati - C. Ricci, Il sepolcro di D., Bologna 1889, VII-XII, 4, 13-14; L. Frati, L'autore dell'epigrafe che si legge sul sepolcro di D., in " Fanfulla della Domenica " XI (1889) n. 26; C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a D.A., II, Roma 1890, 72-81; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Milano 1891, 1921² (nuova ediz. a c. di E. Chiarini, Ravenna 1965, 86, 248, 260-267 [e 280-283 note], 291, 294-308 [e 365-367 note], 542-544 [Chiarini]; S. Rumor, Un castello scaligero..., Vicenza 1891, 8-9 (epigrafe di Vicenza); O. Antognoni, L'epigrafe incisa sul sepolcro di D., in Scritti vari di filologia, Roma 1901, 325-343 (sostiene l'attribuzione dell'epitafio a D. stesso, ma ammette che l'iniziativa di realizzarlo sulla tomba sia dello S.; cfr. M. Pelaez, in " Bull. " IX [1901-02] 295-297); C. Cipolla - F. Pellegrini, Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, in " Bull. Ist. Stor. Ital. " XXIV (1902) 105-106 (epigrafe di Vicenza); E. Levi, Antonio e Nicolò da Ferrara..., in " Atti e Mem. Deput. Ferrar. St. Patria " XIX (1908) 216-220; G. Livi, D., suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918, 64-73, 199-203, 253, 256; ID., D. e Bologna. Nuovi studi e documenti, ibid. 1921, 15, 43-48, 51, 95; S. Muratori, Per la storia del sepolcro di D., in Ricordi di Ravenna medioevale, Ravenna 1921, 162-163, 189; Zingarelli, Dante 1351-1357 (spesso ipercritico), 668; P. Ginori Conti, Vita ed opere di Pietro di D. Alighieri, Firenze 1939, 61-63, 178-180 doc. XI; Piattoli, Codice 322 (App. I, nn. XVI-XVII); S.A. Chimenz, in Dizion. Biogr. degli Ital. II (1960) 427 (segue Zingarelli).