OLGIATI, Bernardo
– Nacque a Como nel 1527. Sono ignoti i nomi dei genitori.
La sua formazione fu probabilmente di tipo mercantile. Dal 1550 operava a Roma quale amministratore e socio della compagnia bancaria formata con i fratelli Francesco, Desiderio, Alessandro e Cesare, sotto la denominazione di Eredi di Baldassarre Olgiati, loro zio e banchiere comasco, che aveva fatto fortuna negli anni di papa Paolo III. La società, come quella degli altri mercatores Romanam Curiam sequentes, era dedita, oltre alle consuete attività mercantili, al commercio del denaro sulla piazza di Roma. In quell’anno, per esempio, partecipò a un prestito di 64.000 scudi d’oro in oro alla Reverenda Camera apostolica, insieme con i più bei nomi della finanza fiorentina e genovese in affari con la corte papale: Bernardo Acciaioli, Tommaso Cavalcanti, Giovanni Gualdo e soci, Bernardo Altoviti e soci, Sebastiano de Montacuto e soci, Pietro Antonio e Alamanno Bandini e soci, Roberto Ubaldini e soci, Bartolomeo Bettini e soci, Giacomo e Benedetto Negroni, Martino Bernardino e Vincenzo Spada e soci, e Francesco Frumento. Allo stesso modo, nel 1555, partecipò, insieme con altri banchi genovesi e fiorentini, all’acquisto di 950 luoghi del Monte Novennale per complessivi 95.000 scudi. In quello stesso anno risulta anche un contratto per la fornitura di 5.000 salme di grano orientale all’Annona di Roma.
Nel 1557 la società fu rinnovata per un quinquennio, essendo molto ben inserita nel tessuto economico romano e negli ambienti curiali, forse grazie ai rapporti ereditati dallo zio: basti pensare che nell’agosto 1559 ebbe il delicato compito di depositeria apostolica, ossia di banca della S. Sede durante la sede vacante seguita alla morte di Paolo IV. Fra i prestiti di quegli anni si segnalano un anticipo di 25.000 scudi all’Annona (1560) e un altro di 60.000 alla Camera apostolica (1562) per l’acquisto di grano con cui rifornire la città.
Quale amministratore del banco Olgiati, Bernardo compare in due atti notarili del maggio 1562. Nel primo incassa, per conto di Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, la somma di 22.500 scudi d’oro in oro, a saldo dei 45.000 versati dal mercante fiorentino Pietro da Gagliano per l’acquisto, avvenuto nell’aprile 1559, di tre tenute nel territorio di Cerveteri. Nel secondo il cardinale Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora accende un censo redimibile, garantito dal suo palazzo e da altre case nella città di Roma, con cui s’impegna a versare 768 scudi d’oro in oro annui a Olgiati in cambio della somma di 12.800 scudi d’oro.
Allo scadere dei cinque anni, Olgiati diede vita a un banco autonomo che poteva contare su solide basi e su una clientela senza dubbio altolocata, a cominciare da Paolo Giordano Orsini cui concesse nel corso degli anni numerosi prestiti. Nel 1568 risultava creditore della somma di 400 scudi nei confronti del cardinale Gabriele Paleotti che, per prorogare il prestito, chiese l’intercessione di Giovanni Morone. Un altro versante di attività fu la compravendita delle prime emissioni del debito del Comune di Roma: la prima iniziativa riguardò nel 1567 l’acquisto in blocco dei 1000 luoghi del Monte della farina che rivendette a piccoli acquirenti. Sono attestate svariate operazioni di questo tipo con la rivendita di luoghi, per esempio alla città di Ragusa, a conventi e a esponenti della nobiltà romana.
L’agiatezza di Olgiati è testimoniata, nel 1566, dall’acquisto da Paolo Giordano Orsini – compiuto da lui o dal fratello Alessandro – della tenuta di oltre 800.000 ettari posta fra la via Cassia e la via Clodia, che avrebbe preso il nome di Olgiata. Giuseppe Tommassetti (1979) riferisce anche di altre due ville di proprietà di Olgiati e del possesso del marchesato di Catino (in Sabina).
Il vero e proprio salto di qualità fu segnato nel 1572 dall’ascesa alla depositeria generale della Camera apostolica, incarico che implicava una notevole capacità operativa e un prestigio consolidato all’interno del mercato del credito. Infatti, il depositario generale doveva non solo amministrare tutte le entrate e le uscite della Camera apostolica, provvedendo a tutti i pagamenti disposti dal papa e dal tesoriere generale, ma era anche chiamato a fornire prestiti e anticipi su di esse. Alla sua designazione (contribuì probabilmente il rapporto con il cardinale Tolomeo Gallio, anch’egli comasco, nonché lontano parente di Olgiati, richiamato alla guida della Segreteria di Stato dal neoeletto papa Gregorio XIII nel giugno 1572 (Fratarcangeli, 2004) .
Il ruolo di depositario generale e il favore del papa si concretizzarono nel conseguimento di numerosi e lucrosi incarichi e appalti: Olgiati divenne nel 1575 tesoriere segreto, ossia banchiere privato, di Gregorio XIII e prese in appalto insieme con il fiorentino Antonio Bandini le dogane di Ripa, Terra e Grascia in cambio del versamento di 133.000 scudi annui. Diventò anche un punto di riferimento nel collocamento dei luoghi dei Monti del debito pontificio: nel maggio 1576, quando fu istituito il Monte delle Province, con un’emissione di 3000 luoghi per un capitale complessivo di 300.000 scudi d’oro al 6,5% d’interesse annuo (per un ammontare di 19.500 scudi a carico delle comunità dello Stato ecclesiastico), acquistò in blocco i luoghi. Inoltre dal 1579 divenne depositario del Monte delle Religioni, carica che mantenne fino al 1586, esercitando con scrupolo l’incarico di incassare e versare le somme relative agli interessi ai montisti.
Nel 1578, in società con il banchiere fiorentino Giovanni Francesco Ridolfi, assunse per dodici anni l’appalto delle miniere di allume di Tolfa (uno dei più ambiti e redditizi dello Stato pontificio), per un affitto annuo di 27.960 scudi di moneta. L’appalto fu successivamente rinnovato nel 1590 per altri dodici anni, questa volta in società con Ridolfi e Giovanni Battista Altoviti e in cambio di un affitto di 35.220 scudi di moneta.
Intanto Olgiati continuava la sua attività di banchiere della nobiltà romana: nel 1576 Pompeo Colonna gli cedette, con patto di retrovendita, il casale di Pantano de’ Griffi, lungo la via Prenestina, e nell’agosto 1578, Paolo Giordano Orsini gli vendette per 21.000 scudi il castello di Cesano, che però ricomprò nel giro di tre anni (in entrambi i casi si trattò quasi certamente di una vendita fittizia a garanzia di un prestito). Fu anche il banchiere di fiducia di Giacomo Boncompagni, duca di Sora e figlio naturale di Gregorio XIII.
Nel 1583 finanziò i lavori per la costruzione di una cappella di famiglia all’interno della basilica romana di S. Prassede (chiesa di cui era titolare il cardinale Carlo Borromeo, con cui dovette intrattenere buoni rapporti), la cui volta fu decorata, a partire dal 1587, dal Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari).
Nel febbraio 1573 stipulò a Roma una società con il banchiere napoletano di origine genovese Giovanni Vincenzo Solaro, attivo anche nel commercio di grano e seta, allo scopo di aprire un banco nella città di Napoli, per il quale i due soci versarono al viceré una cauzione di 150.000 scudi. Le attività del banco napoletano di Olgiati e Solaro trassero ampio giovamento dalla posizione del primo a Roma: egli infatti garantì non solo il prestigio derivante dall’essere depositario generale della Camera apostolica, ma anche la protezione della corte papale, gli investimenti personali di Giacomo Boncompagni, nonché la gestione dei cospicui interessi economici e finanziari della Camera apostolica nel Regno di Napoli, anche dopo la fine del pontificato gregoriano. La società fu allargata nel 1578 a un altro mercante comasco, Tobia Casnedi, che aveva già lavorato per Olgiati a Roma. Tuttavia un anno dopo essa si sciolse e Olgiati continuò da solo l’attività con il supporto di Casnedi e del nipote Ottavio Olgiati, che gestivano il banco, mentre il titolare continuò a risiedere a Roma. In tale occasione è attestato un prestito di 25.000 scudi da parte di Giacomo Boncompagni.
L’ascesa di Olgiati nello scenario finanziario di Napoli è attestata dal fatto che, nel marzo 1580, egli rilevò per 430.000 ducati la rendita annua (di 43.000 ducati) che gli eredi della regina Bona Sforza godevano sulle finanze del Regno. Il banco Olgiati godeva di tale forza da partecipare, in quello stesso anno, al tentativo di costituire una sorta di cartello con altri mercanti-banchieri per ottenere dal viceré e da Filippo II il monopolio dell’attività bancaria nella piazza di Napoli in cambio dell’impegno in un’operazione di riduzione del tasso d’interesse (dal 19 all’8%) su un capitale di 360.000 ducati di rendite del Regno e al contempo di fornitura di 400.000 ducati annui al 10% d’interesse. L’accordo alla fine non fu però ratificato a causa delle pressioni degli altri banchi, genovesi e napoletani, che vedevano minacciato il proprio ruolo.
A Napoli Olgiati si dedicò a lucrosi investimenti nei prestiti alla Corona, nella compravendita di entrate fiscali (come per esempio quote della gabella della seta calabrese) e nell’amministrazione dei patrimoni di importanti famiglie della nobiltà romana e napoletana. Nel 1584 stipulò un accordo con Felice Orsini, vedova di Marco Antonio Colonna, con cui per un quinquennio assumeva – tramite i suoi due banchi di Roma e Napoli – l’amministrazione dei beni della famiglia nello Stato ecclesiastico e nel Regno. Allo stesso modo assunse l’amministrazione dei beni del principe di Bisignano, Niccolò Bernardino Carafa, per 140.000 ducati. Anche quando sorgevano problemi – come fu nel caso del principe di Bisignano – Olgiati poteva contare sulla protezione della Curia romana e del nunzio. Infatti, anche dopo la fine del pontificato di Gregorio XIII e del suo mandato quale depositario generale (1585) mantenne ottimi rapporti sia con Sisto V sia con Clemente VIII.
Nella primavera 1587, ormai trasferitosi a Napoli, dopo aver lasciato la gestione del banco romano al nipote Settimio, dichiarò di voler chiudere il proprio banco. Chiese e ottenne, ancora una volta, l’appoggio della Curia papale e del nunzio, al fine di ottenere che il viceré nominasse un giudice sommariamente al corrente delle cause pendenti. Non si sa perché decise di recedere dal proposito. Nel febbraio-marzo 1591 fu coinvolto dal viceré e dal nunzio Alessandro Glorieri nell’acquisto di una partita di grano del Regno destinata a sfamare la città di Roma. L’operazione comportò l’arrivo di 100.000 ducati sul banco Olgiati di Napoli. In quegli anni, peraltro, prestò agli oratoriani i 6200 ducati necessari alla costruzione della loro casa napoletana e un’altra somma per la chiesa. Pare infatti che, sin dagli anni romani, fosse in stretti rapporti con l’ambiente oratoriano, forse per il tramite del cardinale Ottavio Parravicino, già allievo di s. Filippo Neri e di Cesare Baronio, nonché amico di padre Antonio Talpa, superiore dell’Ordine a Napoli.
Nell’aprile 1598 Olgiati fu incaricato dal viceré Enrique de Guzmán conte di Olivares di corrispondere gli arretrati dell’appannaggio dell’infanta Catalina Micaela, moglie del duca di Savoia morta da poco. Tuttavia le speculazioni sull’acquisto di grano condotte dai banchi napoletani nel corso di quell’anno produssero una serie di clamorosi fallimenti. Dopo il genovese banco De Mari, il 13 maggio di quell’anno, anche il banco napoletano di Olgiati dichiarò fallimento a causa di un passivo di 700.000 ducati del Regno. Il banchiere ottenne comunque dal viceré un salvacondotto per potersi allontanare da Napoli avendo dimostrato di possedere beni per una somma superiore. Come scrisse l’agente veneziano, l’avvenimento era considerato assai grave per la piazza finanziaria partenopea, poiché del banco Olgiati si servivano quasi tutti le principali famiglie cittadine. Inoltre, essendo implicati nelle operazioni di prestito diversi ministri, Olivares si affrettò a far bandire che entro due mesi tutti i creditori del banco sarebbero stati rimborsati del capitale e dei relativi interessi al tasso d’interesse del 7%.
Malgrado gli interventi a suo favore del nunzio papale, anche per conto del cardinale nipote di cui era banchiere di fiducia, Olgiati fu incarcerato nel giugno 1598. Dopo lunghe trattative, nel febbraio 1600, fu posto agli arresti domiciliari in cambio di una cauzione di 35.000 ducati, mentre si calcolava che i suoi debiti ascendevano ancora a 350.000 ducati. Sulla vicenda pesa però il dubbio che l’incarceramento fosse in realtà una mossa di Olgiati per evitare di affrontare i creditori(Delumeau, 1959, II, pp. 921 s.). A ogni modo, grazie all’attività del banco romano rimasto indenne dalla bancarotta, i clienti furono progressivamente risarciti, al punto che Olgiati poté aprire una nuova attività, chiusa tuttavia definitivamente nel 1603.
Morì in luogo ignoto in una data imprecisata del 1604. Suo erede universale fu il nipote Settimio.
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