RUCELLAI, Bernardo
RUCELLAI, Bernardo. – Figlio secondogenito del mercante-banchiere Giovanni di Paolo, celebre committente di Leon Battista Alberti, e di Iacopa di Palla Strozzi, nacque a Firenze l’11 agosto 1448 e fu tenuto a battesimo da Piero di Cosimo de’ Medici – gesto che segnò l’inizio del ‘disgelo’ tra le due famiglie dopo la caduta del regime degli Albizzi nel 1434.
Il fidanzamento nel novembre del 1461 con Nannina (Lucrezia) di Piero de’ Medici, sorella di Lorenzo il Magnifico, cui sarebbero seguite le nozze nel giugno del 1466 e la nascita dei figli Cosimo, Palla, Piero, Giovanni e Lucrezia – fu molto verosimilmente figlio (naturale) di Bernardo anche l’eccentrico Zoroastro, ovvero Tommaso Masini da Peretola, allievo di Leonardo –, sancì la ritrovata sintonia tra le due potenti casate, segnando per Bernardo l’inizio di una duratura fase di amicizia personale e fiducia reciproca con il cognato e cancellando ogni veto alla sua futura brillante carriera politica.
Agli anni immediatamente successivi al fidanzamento risalgono le prime frammentarie testimonianze sui suoi studi classici, preludio e fondamento dei più ampi interessi culturali che lo avrebbero visto partecipare, in gioventù, alle dispute filosofiche in casa Acciaiuoli e alle riunioni del sodalizio ficiniano di Careggi; e poi, negli anni della maturità, dare vita agli incontri negli Orti Oricellari e dedicarsi ai propri studi maggiori. Alla formazione di tipo umanistico non dovette mancare la più tradizionale istruzione nella ‘pratica di mercatura’ – a cui lo stesso Bernardo, membro dell’Arte del cambio, avrebbe avviato i figli Cosimo e Palla –, come confermano sia gli interessi commerciali di cui continuò a occuparsi anche negli anni dell’attività politica, sia i principali incarichi di natura economico-finanziaria che avrebbe ricoperto: ufficiale del Monte dal 1484 al 1488, dei Dodici Procuratori nel 1487, console della Zecca nel 1488 e conservatore della Zecca nel 1491, e soprattutto, dall’agosto del 1490, membro dei potentissimi diciassette riformatori del Monte e delle Gabelle. Dopo il matrimonio sarebbero giunte le prime missioni di rappresentanza – non ancora ufficiali – al seguito dei giovani Medici: il viaggio a Roma con Giuliano nel 1469 per scortare a Firenze la sposa di Lorenzo, Clarice Orsini; quello a Milano con Lorenzo nello stesso anno per il battesimo del figlio del duca; e ancora, quello a Roma del 1471 con gli oratori fiorentini in visita al nuovo pontefice Sisto IV, durante il quale si svolse la famosa ‘passeggiata archeologica’ alle antiche rovine della città rievocata da Bernardo nel De Urbe Roma (coll. 839-840), effettuata con Lorenzo de’ Medici e Donato Acciaiuoli sotto la guida di Leon Battista Alberti.
Intanto, dal marzo 1468 iniziava a prendere parte alle Consulte, dove la sua presenza sarebbe stata determinante soprattutto tra il 1495 e il 1502, mentre nel 1474 otteneva il primo ruolo politico ufficiale come membro del Consiglio dei cento, a cui sarebbe seguito, a partire dal 1478, quello di ufficiale di Studio. Nel febbraio del 1482, mentre fervevano i preparativi per la guerra di Ferrara, partì per la sua prima missione diplomatica, l’ambasciata al duca di Milano – ma di fatto a Ludovico il Moro –, che si protrasse fino all’ottobre del 1483; l’anno successivo, in un clima politico totalmente mutato e in cui le relazioni con il ‘Signor Ludovico’ si erano fatte problematiche, ricevette il suo secondo mandato milanese, che, iniziato nel novembre del 1484, si concluse nell’ottobre dell’anno successivo. Dopo la mancata ambasciata veneziana del gennaio 1486 e mentre gli esiti della guerra dei baroni non si erano ancora placati, svolse il suo terzo mandato presso il re di Napoli (ottobre 1486-agosto 1487), occupandosi tra l’altro delle trattative per il matrimonio tra Alfonsina Orsini e Piero de’ Medici, che rappresentò nelle nozze per procura celebratesi in castel Nuovo nel febbraio del 1487.
Appartiene al periodo delle tre legazioni laurenziane la maggior parte delle lettere del suo vasto carteggio (da non confondersi con quelle dell’omonimo e coevo congiunto nell’Archivio Spinelli della Beinecke Library, Spinelli family papers, 124), scambiate con gli organi istituzionali preposti e soprattutto con Lorenzo de’ Medici, e la cui prosa chiara, lucida, sintetica, spesso ironica, prelude già alle doti stilistiche di cui avrebbe dato prova nelle opere storiche. Alle epistole di natura politica si intrecciano, lungo un più ampio arco di tempo, quelle scambiate con intellettuali e umanisti: Marsilio Ficino, Pietro Dolfin, Andrea Conero, Francesco da Diacceto, Filippo Redditi, Antonio Ivani da Sarzana, Bartolomeo Fonzio, per ricordarne alcuni – riprova, se pure frammentaria, dei vasti interessi culturali che sempre lo animarono.
Al rientro dall’ambasciata napoletana, e dopo essere stato ‘veduto’ gonfaloniere di Giustizia già nel 1485, ebbe inizio per lui una fase di ininterrotti incarichi politici, che, come alleato e sostenitore di Lorenzo, lo portarono ad assumere un ruolo preminente nel governo della Repubblica. Tra i più significativi, membro del Consiglio dei settanta, pressoché continuativamente degli Otto di Pratica, accoppiatore a imborsare la Signoria.
Nonostante il legame con Lorenzo de’ Medici, durante gli ultimi anni della vita di questi i loro rapporti iniziarono a mostrare segni di incrinatura, probabilmente dovuti a una certa intolleranza di Bernardo nei confronti dei modi più autoritari che stava assumendo Lorenzo – come egli stesso sembra voler suggerire in una più tarda lettera alla Signoria in cui afferma di essersi sempre sforzato «che lui usassi bene la grandezza sua» (Comanducci, 1996, pp. XXXVII s.). La rottura con i Medici giunse però dopo la morte del Magnifico, quando la crescente tensione nei rapporti con l’erede Piero prima indusse Bernardo a cercare di allontanare da Firenze, inutilmente, suo figlio Cosimo (novembre 1492), e poi vide lo stesso Cosimo implicato, e condannato in contumacia come ribelle, in un tentativo di esautorare il giovane Medici. Alla caduta di Piero nel novembre del 1494 Bernardo recuperò il terreno politico perduto nei mesi precedenti, ricoprendo una serie di incarichi diplomatici vitali, interni al nuovo governo. Nella difficile fase seguita alla cessione di Pisa, Livorno, Pietrasanta e Sarzana a Carlo VIII in marcia verso Napoli, e alla successiva ribellione di Pisa, fu membro di due legazioni al sovrano francese in procinto di entrare a Firenze (novembre 1494); fu ambasciatore a Milano (novembre 1494-gennaio 1495) per cercare di rompere l’isolamento politico in cui stava cadendo la Repubblica; fu ambasciatore al re di Francia vittorioso in Napoli per le congratulazioni d’uopo, ma in realtà per trattare la restituzione di Pisa (marzo-giugno 1495); e ancora, fu oratore a Siena (luglio 1496) e a Venezia (agosto-ottobre 1498) – mentre l’ambasciata all’imperatore Massimiliano sbarcato a Pisa, decretata nell’ottobre del 1496 e di cui avrebbe dovuto far parte, non ebbe mai luogo per i laceranti dissidi che si erano manifestati all’interno della classe dirigente fiorentina. Fu proprio per tali dissidi che il progetto di riforma ottimatizia dello Stato da lui caldeggiato già all’indomani della caduta di Piero, quando era stato eletto tra i venti accoppiatori incaricati di dar vita al nuovo sistema di governo (dicembre 1494), non poté andare in porto, di fatto vanificato dalla creazione del Consiglio maggiore, che introduceva nelle istituzioni una forte componente di tipo ‘popolare’; e poi, in maniera definitiva, dalla creazione del gonfalonierato a vita secondo un modello costituzionale che invece di conferire a un Senato vitalizio di tipo veneziano (Prègadi) le competenze, in particolare fiscali, detenute dal Consiglio maggiore – come avrebbe voluto Bernardo, in più sedi fautore di un simile progetto – ne lasciava le prerogative sostanzialmente immutate. È così che, nonostante gli alti incarichi che continuò a ricoprire dal 1494 nelle magistrature sia ordinarie (per esempio, Dieci di Balìa nel 1496, 1497, 1499) sia straordinarie (fu per esempio dei dodici paciali nel 1487 e dei dodici per la riforma delle gravezze nel 1501), iniziò progressivamente a declinare i ruoli pubblici quale segno di dissenso nei confronti di un governo incapace di uscire dall’isolamento internazionale e dalla crisi finanziaria, e di produrre una riforma dello Stato in senso ‘stretto’ quale egli auspicava: il caso più eclatante, oltre alla rinuncia a varie legazioni (a Napoli, Roma e in Francia al posto di Niccolò Machiavelli), fu, dopo la caduta di Girolamo Savonarola, di cui era stato oppositore, quella alla carica di gonfaloniere di Giustizia (novembre 1498).
Quando la riforma del 1502, da lui non condivisa, portò al potere come gonfaloniere a vita Pier Soderini, da cui lo separavano anche dissapori personali, si ritirò dalla vita politica, precludendosi, con il rimanere ‘a specchio’, ovvero non pagando le gravezze, la nomina a qualsiasi pubblico ufficio. Sono questi gli anni dei famosi (primi) incontri negli Orti Oricellari, il giardino ‘antiquario’ della sua residenza di via della Scala, dove, circondandosi di amici e intellettuali che con lui condividevano ideali politici e interessi di studio (Piero Crinito, Francesco da Diacceto, Bartolomeo Fonzio, Piero Martelli, Giovanni Corsi, Giovanni Canacci, Francesco Vettori, Dante Popoleschi), spostò – momentaneamente – il suo impegno politico dal piano pratico a quello speculativo, facendo della riflessione storica un esercizio volto al ripensamento non solo del passato, ma anche e soprattutto del presente.
Questo è quanto emerge chiaramente dalle sue opere maggiori lette e discusse dagli amici degli Orti: il De Urbe Roma (a cura di D.M. Becucci, in RIS, suppl. II, Firenze 1770), studio topografico-archeologico della città di Roma sulla scorta degli antichi regionari allora attribuiti a Sesto Rufo e Publio Vittore, databile tra il 1502 e il 1504, e che avrebbe dovuto costituire l’introduzione a una più ampia indagine sulle istituzioni politiche, militari e religiose di Roma antica; e il De Bello Italico (a cura di D. Coppini, Firenze 2011), storia dell’impresa italiana di Carlo VIII scritta entro il 1511 in perfetto stile sallustiano secondo i dettami dell’Actius di Giovanni Pontano – che, come testimonia una lettera a Donato Acciaiuoli (cfr. De Nichilo, 2006, pp. 311-317), ebbe modo di conoscere e frequentare discutendo di come scrivere di storia già dai tempi delle legazioni napoletane. A queste sono forse da aggiungere delle non meglio precisate, e perdute, Castigationes liviane, ricordate nella lettera del 1517 di Antonio Francini da Montevarchi a Palla Rucellai. Opere minori furono il Bellum Mediolanense, breve riscrittura dell’inizio del X libro dell’Historia Florentini populi di Leonardo Bruni; il De Bello Pisano, latinizzazione dei Commentarii di Neri Capponi sulla guerra di Pisa del 1406; e l’Oratio de auxilio Tifernatibus adferendo, sull’assedio di Città di Castello del 1474 (entrambe in appendice a B. Rucellai, De Bello Italico, Londra [Firenze] 1773).
La canzone carnascialesca nota come Trionfo della Calunnia invece, nonostante gli sia assegnata in tutte le stampe, è ascritta al figlio Cosimo (sopra una precedente attribuzione al figlio Giovanni) nel codice Barberiniano Latino 3945, p. 239, della Biblioteca Vaticana, risalente ai primi decenni del XVI secolo. Da tempo smentita è l’attribuzione a Bernardo del libello De magistratibus Romanorum veterum.
Il legame esistente fra gli studi ‘oricellari’ sul passato e sulla storia e l’elemento politico attualizzante non sfuggì a Guicciardini, che scrive nell’Oratio accusatoria: «cominciò quello orto suo a essere come una accademia: quivi concorrevano molti dotti, molti giovani amatori delle lettere, parlavasi di studi, di cose belle. Era udito come una sirena perché era ornatissimo ed eloquentissimo, né si vedeva cosa alcuna che si potesse biasimare o riprendere; nondimanco, e la natura dell’uomo, e la riputazione che aveva, ed el concorso di tanti malcontenti e giovani faceva paura a chi considerasse più drento [...]» (in Opere, a cura di E. Lugnani Scarano, I, 1970, p. 533).
In effetti il malcontento che aleggiava dietro alle riunioni negli Orti – dove tra i temi discussi non mancò l’esaltazione del modello statale alla veneziana, in cui componente monarchica e senatoria si equilibravano secondo un’armoniosa coesistenza e dove, in chiave antigovernativa, si andava configurando il topos storiografico dell’età aurea laurenziana – avrebbe presto prodotto profonde conseguenze politiche, prima tra tutte il riavvicinamento ai Medici di cui Bernardo e i figli furono protagonisti, e di cui fu evidenza, nel 1508, il matrimonio tra Filippo Strozzi, stretto congiunto dei Rucellai, e Clarice di Piero de’ Medici, nelle cui segrete trattative ebbe larga parte con il figlio Giovanni. Intanto, forse per timore di ritorsioni, nel 1506 aveva lasciato Firenze insieme a Giovanni per una sorta di volontario esilio che lo condusse prima ad Avignone e poi a Marsiglia, Milano, Bologna, Venezia, Ferrara e, con almeno una tappa, Roma, verosimilmente in relazione al ‘parentado’ Medici-Strozzi. Al suo ritorno a Firenze, dove risulta dal 1511, le riunioni negli Orti assunsero un tono scopertamente antigovernativo, al punto che tra i promotori dei fatti che avrebbero portato alla caduta di Soderini e al ritorno dei Medici (agosto-settembre 1512) vi furono proprio quel gruppo di malcontenti legati ai Rucellai, non prima però che Bernardo e il figlio Giovanni venissero fatti arrestare in extremis dal gonfaloniere.
Con il nuovo governo mediceo Bernardo tornò a ricoprire numerosi incarichi di prestigio: fu, ad esempio, tra i XX Accoppiatori deputati alla riforma del governo, fu ‘veduto’ gonfaloniere di Giustizia, eletto tra i XVII Riformatori delle gabelle e del monte, e nel ricostituito Consiglio dei Settanta. Nel 1513 fu tra gli oratori nominati per rendere omaggio al nuovo pontefice Leone X, ma per motivi di salute, da molti reputati un pretesto, non poté recarsi a Roma. Morì l’anno successivo, il 7 ottobre 1514, e fu sepolto sotto la soglia dell’entrata principale di S. Maria Novella, dove un’iscrizione in porfido – che Vasari attribuisce, in maniera improbabile, ad Alberti – recita tuttora il suo nome.
Nelle Storie fiorentine Guicciardini, che attinse al De bello italico per la sua Storia d’Italia, pur critico nei suoi confronti lo definisce «di grande ingegno, di ottime lettere» e «universalmente riputato savissimo», e a premessa del lungo excursus che gli dedica scrive che «perché fu uomo eccellente e qualche volta in riputazione grande non sarà fuora di proposito dirne qualche cosa» (in Opere, cit., pp. 228 s.).
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