TANUCCI, Bernardo
– Nacque a Stia, nel Casentino, il 20 febbraio 1698 da Giuliano e da Lucrezia Tommasi.
La famiglia vi si era trasferita da Firenze nel XVII secolo. Tra i suoi avi figura Antonio Minucci da Pratovecchio, giurista del XV secolo.
A fine Seicento, la famiglia si spostò a Pisa, dove lo zio paterno Andrea tenne corsi di diritto canonico. Fu questi a indirizzare Bernardo al diritto. Tra i suoi primi maestri, Filippo Buonarroti, archeologo e allora segretario della giurisdizione, e Giuseppe Averani; conobbe Alessandro Marchetti, docente di matematica e traduttore di Lucrezio. Si appassionò all’antiquaria: negli anni Quaranta la sua biblioteca superava i duemila libri. Cominciò a far pratica a Firenze nel 1719 e si addottorò a Pisa nel 1727, dove conobbe la moglie, Ricciarda Catanti, di famiglia pisana. Subito insegnò diritto civile come professore straordinario; nel 1733 concorse alla cattedra di ordinario. Seguire Carlo di Borbone a Napoli mise fine alla sua carriera, ma il ricordo delle radici toscane gli fu sempre vivo.
Si fece conoscere anche fuori della Toscana grazie a due polemiche, dove si vide il suo carattere collerico e intransigente. La prima riguardò le origini delle Pandette.
Nel 1722 un erudito olandese, Hendrik Brenkmann, pubblicò l’Historia Pandectarum, e sostenne che i pisani si erano governati senza il codice giustinianeo. Guido Grandi, matematico dai molteplici interessi, lo confutò e indirizzò ad Averani la Lettera sopra le Pandette (1727), dove accusò Tanucci di aver frainteso luoghi del Codex di Giustiniano. Tanucci nell’Epistola de Pandectis (1728) ammise i propri errori, accusò Grandi di aver plagiato il Dell’uso, e dell’autorità della ragione civile (1720-22) del napoletano Donato Antonio d’Asti e discusse Giambattista Vico nella lettura delle XII tavole. Le leggi erano per lui espressione scritta dello ius civile svincolata dalla consacrazione religiosa. Tanucci sostenne che in epoca medievale il diritto romano era stato assente, perché incompatibile con la soggezione feudale. La storia italiana di principati e signorie si formò percorrendo una strada estranea al sistema imperiale tedesco. «Coloro che per forza, o per inganno, o per volontà dei popoli, presero i governi – scriveva il 28 luglio 1746 – non poterono con prender poi quelle carte tedesche pregiudicare alla libertà nativa di quelli stessi popoli, la cui sovranità nelle case dei loro principi si generò a poco a poco col tacito consenso» (Epistolario..., II, 1980, p. 88).
La formazione della sovranità moderna fuori dalla cornice feudale-imperiale fu il cuore dell’altra polemica, alla quale Tanucci partecipò stavolta non come accademico, ma come consigliere del principe.
Tra il 1715 e il 1719, mancando di eredi i due figli di Cosimo III, Francesco e Gian Gastone, le potenze europee decisero a Londra nel 1718 di concedere il granducato a Carlo di Borbone, ma come feudo imperiale. A negare le pretese imperiali intervenne Averani; poi nel 1726 Carlo Rinuccini incaricò Tanucci di rispondere agli Asburgo. Tanucci redasse vari testi le cui linee si trovano nel Diritto della Corona di Napoli sopra Piombino (1760) e nella Memoria al marchese di Salas per mandar a Spagna del 23 ottobre 1742 (ibid., I, 1980, pp. 633-635). «Io che nella storia d’Italia ho preso un sistema diversissimo dal romano vostro e dal germanico del Muratori – scriveva il 9 novembre 1746 – [...] stimo che il regno italico finisce legittimamente in Federico II [...] credo fermamente che tutti i principi e repubbliche italiane siano indipendenti e che il re di Germania abbia in Italia il medesimo imperio che vi possa pretendere il re della Cina» (ibid., II, cit., p. 117). Negli stessi anni redasse Del dominio antico pisano sulla Corsica (1731-33, ma 1758), dove unì Giambattista Vico alla tradizione umanistica per pensare la formazione storica del diritto.
Quando Tanucci giunse a Napoli aveva dunque una matura visione della sovranità, poggiante sul rapporto tra popolo e sovrano e una netta posizione giurisdizionalista; condannava «la tirannide feudale, la più vergognosa invenzione politica di quante se ne siano escogitate per genere umano, per cui un privato domina privati non rei di alcuna colpa» (25 gennaio 1746, ibid., I, cit., p. 891); ferma era la sua opposizione all’Impero visto come sostegno del feudalesimo e incompatibile con l’autonomia politica dello Stato. Era consapevole della propria identità intellettuale nei rapporti con il potere: nei successivi oltre quarant’anni di vita politica intrecciò sempre la pratica con la teoria giuridica nella quale si era formato e cui si tenne fedele. Non sapeva però cosa fosse una corte.
Tanucci arrivò a Napoli con il grado di colonnello di cavalleria del reggimento Batavia, ma nel seguito di Carlo di Borbone primeggiava per superiorità di cultura. A Napoli vide che le «disonorate catene» del feudalesimo non erano state non che vinte, ma nemmeno combattute da quella «mollissima gente» (ibid.); vi ritrovò il giurisdizionalismo che aveva studiato. Lì il governo conservava «costantissimamente tutto quanto lo spirito ecclesiastico degli Spagnoli, in mezzo d’un popolo il più ghibellino di quanti ne siano in Europa» (28 dicembre 1745, ibid., II, cit., p. 869). Del primo ventennio del regno di Carlo, Tanucci fu protagonista con gli spagnoli Manuel Domingo de Benavides y Aragón, duca di Santisteban, e José Joaquín de Montealegre, marchese di Salas. Fu nominato segretario di Giustizia e inserito nella giunta degli Inconfidenti e nella giunta giurisdizionale. La prima giunta individuava nobili ed ecclesiastici che non fossero leali con i Borbone e che mantenessero simpatie imperiali. La giunta diede in quei primi anni prova di severità. La nomina di Tanucci nella giunta giurisdizionale, anch’essa del 1734, fu invano osteggiata da Roma. Affrontò i problemi spinosi dell’investitura di don Carlos e delle immunità. Alla fine del 1735 la giunta fu soppressa per tensioni interne al governo e come segretario di Giustizia non ebbe più quella sponda per svolgere la politica giurisdizionalista, che scemò di intensità.
Nei rapporti tra Chiesa e Stato mantenne sempre una posizione di indipendenza, attento ai risvolti pratici. Sul proclama che nel 1740 aveva facilitato l’insediamento degli ebrei nel Regno, difeso da Pietro Contegna, prese nel 1742 una (infelice) posizione contraria, anche per opporsi a Montealegre, in quel momento suo avversario. Si era appena concluso il concordato del 1741 tra Roma e Napoli. Tanucci seppe sfruttare le tensioni che avevano dominato fin dal 1734 i rapporti tra i due Stati e abilmente smussò le tesi dei giannoniani, Contegna in testa. Non ebbe dubbi sui vantaggi che il Regno aveva ricavato dal concordato e provò fastidio per le ‘sottigliezze dei giureconsulti’. Il Regno aveva ottenuto la sostanza delle rivendicazioni, Roma l’apparenza.
Tanucci guidò l’opposizione all’arcivescovo Giuseppe Spinelli, quando questi nel 1746 sembrò voler stabilire a Napoli il tribunale del S. Uffizio. Riconobbe a Niccolò Fraggianni, delegato alla Reale Giurisdizione, un ruolo importante; ma osservò che la Chiesa non aveva reagito perché essa «suole agire se non quando può valersi del popolo contro il governo; in questo negozio tutti gli ordini sono uniti e per caldo universale anche noi di Palazzo» (7 gennaio 1747, ibid., II, cit., p. 167). La «tanta rivoluzione di popolo» e il «tanto consentimento» che avevano uniti «tutti gli ordini di persone» (8 gennaio 1747, ibid., p. 170) della città avevano stupito Tanucci, che però pensò che a muovere il popolo fossero stati gli avversari curiali di Spinelli, non i «legali» (14 gennaio 1747, ibid., p. 175).
Tanucci infatti ebbe diffidenza per il mondo ‘giannoniano’ dei togati e forensi, non solo per la fedeltà agli austriaci di molti di loro e perché altri ne vide compromessi con Roma: comprese che questa tradizione era ancora viva pur nell’assenza di Pietro Giannone. Scrisse che Giannone alla sua Istoria «contribuì pochi materiali forensi, e la sfacciataggine; il resto fu di Capasso, di Cirillo, di Aulisio, gente di cattedra che, come sapete, è inquieta in tutte le parti del mondo»; aggiunse sarcasmi su Costantino Grimaldi, Gaetano Argento e Contegna, che «era un Prete non un Giureconsulto, e appunto da questo ordine di persone qualche male è venuto, per l’incontinenza di quel che altrove si sa ugualmente, e si tace» (14 gennaio 1747, ibid., pp. 175 s.). Per costoro l’Istoria giannoniana era vangelo: «Nemico della Patria è riputato chi non giura su quella storia, chi non la riverisce, chi non perseguita come infedeli ed eretici i contraddittori di Giannone» (14 agosto 1745, ibid., I, cit., p. 819).
Raffaele Ajello ha giustamente osservato che Tanucci accostò Giannone a John Locke e a Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (13 febbraio 1751, ibid., II, cit., p. 625), e dunque alla cultura dell’Illuminismo, la quale gli rimase sempre estranea (Ajello, 1976, pp. 235-250).
Con quel gruppo di intellettuali Tanucci si misurò quando avviò il progetto forse più ambizioso di questo periodo, cioè l’ordinamento del codice napoletano. Si pensò pure a un codice di diritto marittimo; la creazione del Supremo Magistrato di Commercio (1739), la profonda revisione nel 1738 della giurisdizione baronale, le prime ipotesi di un catasto, l’istituzione di Consolati di terra e di mare furono altri progetti di riforme con cui si cercò di rispondere a nuove esigenze. Ma il progetto della codificazione fu sentito come il simbolo della nuova autonomia politica. La necessità di una codificazione sistematica circolava da tempo. Nel 1737 Giovanni Pallante (Lo Stanfone, o sia Memoria per la riforma del Regno di Napoli) la ripropose. Tanucci nel 1740 dapprima incaricò Giuseppe Borgia di pubblicare un’edizione completa di prammatiche e dispacci a partire dal 1715. Pochi mesi dopo incaricò Giuseppe Pasquale Cirillo di un programma più ampio, che fu quello della codificazione carolina. Il primo volume apparve nel 1742, ma l’impresa si protrasse fino alla fine del secolo senza risultati apprezzabili, pur se mobilitando discussioni.
Tanucci poi fu abile negoziatore per la revisione di una clausola del Trattato di Aquisgrana (1748), che impediva a Carlo di trasmettere il Regno di Napoli al figlio se fosse divenuto sovrano di Spagna; nel 1755, con la riforma delle segreterie, controllava la politica estera, la casa reale, le fabbriche del re. A lui si dovette l’Accademia ercolanense. Era nel governo l’uomo di maggior spicco quando nel 1759 Carlo divenne re di Spagna e andò a Madrid.
Fu consapevole che molte delle energie del 1734-35 si erano perdute: si era tentato di modernizzare il Regno, ma il vecchio regime si era mantenuto «con una leggerissima e sola mutazione, risultante dall’essere ora qui il Sovrano, dove prima per più di due secoli, era stato un Viceré» (9 giugno 1772, in Viviani Della Robbia, 1942, II, p. 297). Tuttavia tracciò pure un bilancio positivo: «Il Re ha mutato questa nazione bollente con una ferma e costante giustizia, con una truppa che non han mai veduta sì prepotente i Napoletani, e colla permissione di viaggiare, colla quale tornan costoro dalle Nazioni straniere, e paragonano e benedicono» (7 marzo 1754, in Epistolario..., III, 1982, p. 143). In tante lettere descrisse i due poli del potere: il re, capace di civilizzare l’aristocrazia e la nazione; la corte, area di corruzione.
L’ultima fase di attività politica di Tanucci durò poco più di un quindicennio: appoggiato da Carlo III, fu l’uomo forte del Consiglio di reggenza, che era un organo collegiale, in cui Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro, retrivo aio dell’erede, lo ostacolò senza tregua; divenuto Ferdinando re il 12 gennaio 1767, restò a capo del governo, ma osteggiato dalla regina Maria Carolina d’Austria, dai ‘magnati’ e dal clero, che da sempre lo avevano temuto.
La solitudine non ridusse la sua combattività. Dal carteggio con Carlo si evince la continuità dei suoi obiettivi: combattere la violenza baronale, la rapina e sopraffazione ecclesiastiche, la miseria del Regno, gli arbitri della burocrazia. Perseguì questa politica con alterna fortuna, ma con coerenza di metodo. Per «la salute del popolo» occorreva il gradualismo. «Le emendazioni e le riforme devono farsi, quando siano necessarie, con la minor mutazione non solamente di cose, ma di parole ancora e di nomi» (gennaio 1760, in Chiosi, 1986, pp. 48 s.). Nel 1760 prese le distanze dalla giunta dell’Allivio, che avrebbe dovuto migliorare le condizioni delle province, perché la figura proposta, l’intendente, gli parve mascherasse con una vernice francese l’antica struttura dell’arbitrio feudale e propose di dare invece nuovo vigore ai presidi. Il suo tenace lavoro produsse nelle province una positiva mobilità sociale e il rinnovamento culturale.
Tuttavia, Tanucci seppe affrontare l’emergenza. Lo si vide nel caso della carestia del 1763-64 e dell’espulsione della Compagnia di Gesù dal Regno (1767).
Franco Venturi (V, 1, 1995) ha mostrato che nelle spaventose carestia ed epidemia che allora decimarono le campagne, aristocrazia e clero non furono pronti che ad approfittare della situazione; nessun soccorso venne dai ‘legali’; le istituzioni si rivelarono inadeguate. Da solo, Tanucci si prodigò per trovare soluzioni concrete; e comprese che la causa stava nel rapporto tra l’abnorme città di Napoli e la provincia. Puntare alla liberalizzazione del mercato fu soluzione a lui estranea. Colse questa occasione per ledere il potere che l’aristocrazia delle piazze napoletane si era arrogata nella conduzione del Regno; depotenziò l’arma del donativo che l’aristocrazia brandiva per negoziare i propri interessi con il sovrano.
Nel novembre del 1767 seguì l’espulsione dei gesuiti, firmata quindi da Ferdinando IV, ma voluta da Carlo III e da Tanucci. Fu più che il coronamento di decenni di conflitti con Roma.
Era cambiata la prospettiva: non più il mero conflitto risolto secondo la tradizione giurisdizionalistica, ma la volontà di secolarizzare lo Stato, nel quale la Chiesa non avesse ruolo politico. Era un orizzonte europeo, illuminista, che nella Compagnia di Gesù trovò il simbolo e il nemico per tale lotta. A Napoli Tanucci guidò lo scontro, consapevole che il sostegno indispensabile stava nell’opinione pubblica. «Io avevo provveduto da tempo – scriveva a José Fernandez Miranda Ponce de Leon, duca di Losada il 1° dicembre 1767 – affinché il popolo imparasse a conoscere la cattiveria, le ruberie, l’orgoglio, l’invidia e lo spirito di ribellione dei gesuiti, facendo di tratto in tratto pubblicare nella nostra gazzetta notizie intorno a qualche mancamento commesso in qualche paese dai gesuiti [...]. Inoltre io feci uscire dalla stamperia regia un volume sotto il titolo di Inquietudini dei gesuiti [...]. Tutto venne letto avidamente e così tutte le classi furono preparate all’espulsione e guadagnate a tale misura» (Renda, 1974, p. 30). Tanucci istituì una giunta degli Abusi che ufficialmente doveva controllare il rispetto delle leggi, ma che costruì il processo ai gesuiti e ne decise l’espulsione, la chiusura dei collegi, l’acquisizione dei beni alla Corona. Il suo intento era stato di trasformare le nuove forme dell’educazione pubblica utilizzando le risorse gesuitiche e distribuire le terre in modo da formare o rinforzare la piccola e media proprietà contadina. A tale scopo costituì l’Azienda gesuitica. Non ebbe l’effetto sperato perché in Sicilia l’aristocrazia riuscì ad accaparrarsi le terre espropriate. Ma fu l’unico antecedente alla frantumazione del latifondo del secondo dopoguerra del XX secolo.
Il conflitto con l’aristocrazia feudale continuò, anche se molte delle misure proposte da Tanucci furono bloccate. Con molti compromessi, sulla base di una visione economica neomercantilista e con una strategia giuridica più che politica, egli ebbe il merito di tenere viva la questione feudale sui modi della gestione statale dei feudi devoluti e sul controllo della giurisdizione feudale nelle province.
In quei due momenti cruciali della sua azione politica, Tanucci fu vicino ad Antonio Genovesi. Vicinanza pure nella riorganizzazione degli studi e del modello di burocrazia, in cui entrambi si tennero lontani da quello austriaco, come dimostrò l’episodio della creazione di una nuova carica, l’avvocato della Corona (1768); Genovesi fu consultato pure nella scelta di figure importanti della burocrazia. A dividerli fu la diversa idea di sovranità. Il suo assolutismo fu un «rabbioso impegno» (Venturi, V, 1, 1995, p. 244), intollerante di corpi intermedi e di autonomia della sfera dell’opinione pubblica, che andava educata, non ascoltata. La censura era un dovere, oltre che un diritto del sovrano. Il potere proveniva dal popolo ma restava nelle mani del re. Ben conosceva l’avvertimento di Niccolò Machiavelli, che non si governa con i paternostri; ma la sua idea di sovranità non ne tollerava la fondazione secolarizzata. Uomo dell’assolutismo, Tanucci ne condivise la concezione sacrale della sovranità; lo influenzò non Voltaire, ma il giurisdizionalismo ispirato al De statu Ecclesiae (1763) di Giustino Febronio.
Senza voler «riformare il non riformabile» (3 dicembre 1763, Epistolario..., XII, 1997, p. 654) fu però convinto della necessità delle riforme. Il climax della sua azione con Ferdinando fu l’imposizione ai magistrati di motivare le sentenze, con i dispacci del 23 settembre e 21 novembre 1774. Già nel 1738 il rapporto tra giurisdizione e legislazione era rimasto debole; poi Tanucci abbandonò la speranza nella riforma complessiva della legislazione, che egli stesso aveva promosso. Meglio sarebbe stato «rettifica[re] la Magistratura prima di pensare al Codice» (1° giugno 1745, ibid., I, cit., p. 792). In una lettera del 30 gennaio 1768 i codici moderni gli parevano «non corpo vivo, non tela, non drappo; una massa di pietre simili son tutti li codici, ma non muraglia, quale si può con le Pandette romane o con uno spirito delle leggi; non quello abortivo e puerile di Montesquieu, ma di un Donello [Doneau], di un Antonio Fabro; non ci ammetto neppure il Cujaccio» (ibid., XX, 2003, p. 71). La decisione di Tanucci fu di indubbia e radicale innovazione, e le opposizioni che suscitò tra i ‘legali’ parvero agli illuministi prova della sua giustezza. Gaetano Filangieri la commentò con entusiasmo nelle Riflessioni politiche, vedendovi una svolta nella vita civile del Regno. Ma la mancata elaborazione del codice privò questa risoluzione di chiarezza legislativa.
Ormai il suo tempo stava finendo. Tanucci fu in quegli anni in difficoltà nelle relazioni internazionali. Francia e Gran Bretagna mal tolleravano la sua volontà di non far trattare il Regno come una piccola potenza; Carlo qui non lo aiutò, ad esempio nel tentativo di avviare trattative autonome con i Paesi dell’Impero turco per negoziare rapporti commerciali. Fu chiaro a Tanucci che il rafforzamento di questa politica richiedeva il parallelo rafforzamento militare dello Stato, ma la difficoltà rimase. A corte la sua posizione era ormai debole. Sempre pugnace, riaprì lo scontro con la massoneria regnicola, che si era riorganizzata nel 1773 con l’appoggio della regina. Gli parve che fosse uno scudo per ribadire l’indipendenza nobiliare, e un canale per creare consenso verso l’Impero e dissenso verso la Spagna. Tramite Gennaro Pallante, singolare figura di spia, elaborò un piano che avrebbe dovuto colpire tutti i massoni, ma il complotto si risolse invece in un’operazione controproducente.
Tanucci fu licenziato il 25 ottobre 1776. Nel maggio a Parigi era caduto Robert-Jacques Turgot. Furono i due più grandi ministri riformatori dell’assolutismo settecentesco, diversi nelle idee ma simili nella dedizione allo Stato.
A lui, uomo di assoluta probità, successe una delle figure più corrotte del Regno, il marchese Giuseppe Beccadelli della Sambuca. Tanucci rimase consigliere di Stato e pensò di poter ancora avere voce nella politica napoletana. Poi ne scomparve, ritiratosi a S. Giorgio a Cremano, nei pressi di Napoli. Mantenne il carteggio con Carlo. Nel 1781 perse la figlia Marianna, a lui carissima; già aveva perduto i figli Giulio e Lucrezia.
Morì il 29 aprile 1783.
Opere. Oltre ai testi citati, si segnalano: Epistola in qua nonnulla refutantur ex Epistola Grandi de Pandectis ad Averanium, in Ad nobiles socios Cortonenses, Lucca 1728; Difesa seconda dell’uso antico delle Pandette [...] contro le Vindiciae del P.D. G. Grandi, Firenze 1729 (trad. lat. Defensio secunda, Firenze 1731); Epistola de Pandectis Pisanis, Firenze 1731; Del dominio antico pisano sulla Corsica, in Saggi di dissertazioni accademiche, VII, Cortona 1758, pp. 173-198, nuova ed. Cortona 1983; Brieve dissertazione sul sagro militar ordine costantiniano di S. Giorgio, Napoli 1760; Diritto della Corona di Napoli sopra Piombino (1738), Napoli 1760; Inquietudini dei gesuiti, I-III, Napoli 1764-1767; Istruzioni di S. M. il Re delle due Sicilie per lo sfratto dei gesuiti e sequestro dei loro beni, Venezia 1767; (Draunerus Cibanctus), Epistola ad J.B. Nerium, in Variorum opuscula, Pisa 1769-1771; Per la vedova Fortunata de Martino madre dei minori Antonio e Caterina Mescovischi, Da esaminarsi nella Suprema Giunta degli Abusi, s.l. 1772; Diritto del re delle Sicilie sul Ducato di Castro e Ronciglione, Napoli 1773.
Fonti e Bibl.: Per le indicazioni delle fonti archivistiche riguardanti Bernardo Tanucci si rimanda alle informazioni contenute nell’edizione critica – in corso – dell’Epistolario, I-V, IX-XVIII, XX, Roma 1980-2003. Inoltre: Lettere di B. T. a F. Galiani, con introduzione e note di F. Nicolini, I-II, Bari 1914; D. Schiappoli, La legislazione tanucciana contro la manomorta ecclesiastica, Napoli 1926; E. Viviani della Robbia, T. e il suo più importante carteggio, I-II, Firenze 1942; R. Ajello, Preilluminismo giuridico e tentativi di codificazione nel Regno di Napoli, Napoli 1968, ad ind.; Lettere a Carlo III di Borbone, 1759-1776, regesto di R. Mincuzzi, Roma 1969; R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 461-717; F. Renda, T. e i beni dei gesuiti in Sicilia, Roma 1974; R. Ajello, Arcana Juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976, pp. 229-272; L. Barreca, Il tramonto di T. nella corrispondenza con Carlo III di Spagna (1776-1783), Palermo 1976; F. Venturi, Settecento riformatore, II, Torino 1976, pp. 163-184, V, 1, Torino 1995, pp. 221-305; M. Verga, Dai Medici ai Lorena: aspetti del dibattito politico nella Toscana del primo Settecento dall’epistolario di B. T., in Società e storia, 1985, vol. 29, pp. 548-594; E. Chiosi, Il regno di Napoli dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, IV, 2, Napoli 1986, pp. 48 s.; B. T. e la Toscana, Firenze 1986; B. T. statista, letterato, giurista, a cura di R. Ajello - M. D’Addio, I-II, Napoli 1986; M.G. Maiorini, La Reggenza borbonica (1759-1767), Napoli 1991, ad ind.; R. Tufano, «Le renversement des alliances» europee e l’espulsione di T. dal governo delle Sicilie (1774-76), in Frontiera d’Europa, IX (2003), 2, pp. 87-178; F. Lomonaco, Tracce di Vico nella polemica sulle origini delle Pandette e delle XII tavole nel Settecento italiano, Napoli 2005, pp. 1-20; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, IV, Torino 2007, pp. 259-486; A. Cernigliaro, B. T., in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma 2012, pp. 232-237; P. Vazquez Gestal, Verso la riforma della Spagna. Il carteggio tra Maria Amalia di Sassonia e B. T. (1759-1760), con un saggio di R. Ajello, I-II, Napoli 2016.