BERTA di Toscana
Figlia naturale di Lotario II re di Lotaringia (nata fra l'860 e l'865), era stata data in matrimonio al conte lorenese Teobaldo (avanti l'880: Ann. Bertiniani, p.151), che dopo gli sfortunati tentativi di Ugo, anch'egli figlio naturale di Lotario II, per la conquista del regno del padre, contro il re di Francia (880-85), aveva dovuto esulare presso il cugino Bosone di Provenza, divenendo conte di Arles. Da queste nozze nacquero quattro figli, destinati a svolgere attività di primo piano in Italia: Ugo (forse nell'881?), che fu re d'Italia, Bosone, che fu marchese di Toscana, Ermengarda, che divenne marchesa di Ivrea, avendo sposato l'anscaride Adalberto, Teutberga, andata sposa a Guarniero di Chalons. Il matrimonio non durò molto per la prematura morte di Teobaldo (di cui non si ha più notizia dopo l'887), ma l'esilio provenzale fu sufficiente per permettere a Ugo di assicurarsi una posizione, come conte di Vienne, all'ombra di Lodovico, re di Provenza.
Dal nome dei figli di Teobaldo e Berta è possibile dedurre gli orientamenti politici dei genitori: così Ugo e Teutberga segnano il momento di adesione alla casa di Lorena (Ugo era il senior di Teobaldo, Teutberga la moglie di Lotario II), e dovettero quindi nascere prima del 880-885, appunto in Lorena; Bosone ed Ermengarda nacquero durante la residenza in Provenza (quindi fra il 885-887: Bosone - anche se nome di famiglia, uno zio ed il nonno di Teobaldo, ma morti da tempo in Italia - ripete certamente il nome del re di Provenza, 879-887; Ermengarda quello della regina provenzale, figlia dell'imperatore Lodovico II). Tuttavia, per ora, le date non possono che restar congetturali, per mancanza di una documentazione più sicura.
Rimasta vedova, B. passò a seconde nozze con Adalberto di Toscana, probabilmente perché, avendo la famiglia di questi proceres italici molti beni in Provenza (come risulta da una lettera di papa Giovanni VIII dell'aprile 879, in Mon. Germ. Hist., Epist., VII,1,Berolini 1912, n. 171, p. 139), B. e i suoi parenti, o il suo partito, si ripromettevano particolari posizioni in Provenza. Quindi potremmo pensare che il secondo matrimonio sia stato combinato negli ultimi anni del IX sec. Gli avvenimenti, invece, portarono B. a svolgere un'intensa politica in Italia.
Il marasma prodottosi all'indomani dell'abdicazione del morente Carlo il Grosso poneva di fronte, come è noto, Berengario, marchese del Friuli, e Guido, marchese di Spoleto, come pretendenti alla corona italica. Entrambi, naturalmente, cercarono di crearsi un partito: fra i Guideschi, ma solo a partire dall'889, troviamo il marchese Adalberto di Toscana, nipote di Guido. Non fu, però, un caldo fautore, o meglio, proprio per la posizione strategica del suo marchesato, che controllava tutte le strade fra il nord e il centro d'Italia, poté mantenere una certa libertà di movimenti, tanto da permettersi di tentare, nell'894, di imporre condizioni ad Arnolfo per il suo progettato viaggio a Roma, e poi, dopo la clamorosa rottura col re germanico, bloccare i passi e far fallire il disegno. Anche per ciò che riguarda i rapporti con Guido e Lamberto, la regola fu di calcolata fedeltà, ma è difficile dire se in ciò ebbe parte B. e da quando. I nomi dei figli di Adalberto e B. - Guido e Lamberto - indicano indubbiamente una adesione alla casa guidesca, ma perciò stesso son già un indice cronologico. Solo a partire dall'889 (L. Schiaparelli, I diplomi di Guido e Lamberto, Roma 1908, n. I, 27 maggio 889), Adalberto si è deciso per Guido, ma nell'894 cercò di intendersi con Arnolfo e nell'896 il suo atteggiamento berengariano fu tanto contro Arnolfo quanto contro Lamberto, e la riconciliazione con quest'ultimo non durò che poco più di un anno (primavera 897-luglio 898). Questi atteggiamenti politici condizionano, in un certo senso, anche i… battesimi, che pare opportuno restringere al periodo 891-894, se si accetta l'ipotesi che questi nomi rappresentino un particolare rapporto di filiazione spirituale, come, del resto, non è infrequente. In tal caso - e con tutte le cautele possibili - si può mettere il matrimonio di B. con Adalberto nell'890. L'atteggiamento nei riguardi di Berengario, quindi, non fu amichevole, almeno fino alla seconda discesa di Arnolfo (896), ma in tutte queste vicende non ci è dato sapere qual parte possa aver avuto Berta.
E' certo, invece, ch'essa in qualche misura entrò nelle mene del marito a proposito della chiamata in Italia di Lodovico di Provenza (900). L'interesse della marchesa era predominante, poiché si poteva sperare - e forse si era in qualche modo predisposto - che, acquistata l'Italia e per di più il titolo imperiale, la somma dei poteri nel regno di Provenza sarebbe passata, col titolo regio, ad Ugo (figlio di B. e del primo marito, e che già aveva un posto eminente, come conte di Vienne), oppure che qualche marchesato italiano, tolto ai Berengariani, fosse a lui affidato. Però la politica ludoviciana non dava i frutti sperati: Lodovico, proprio perché imperatore, non intendeva lasciare ad altri il regno provenzale, e tanto meno far di Ugo un viceré. Di qui - e certo per ispirazione di B. - il subitaneo voltafaccia del marchese di Toscana, che passò al campo berengariano, in un certo senso determinando la prima disavventura di Lodovico, costretto a rientrare in Provenza, decorato solo di un titolo vano.
Sull'ispiratore dell'avventura di Lodovico di Provenza abbiamo la testimonianza di Liutprando da Cremona (Antapodosis, II, 33) che ne fa addebito ad Adalberto marchese di Ivrea ("Huius vero tam turpis sceleris auctor Adelbertus Eporegiae civitatis marchio erat…"), al quale evidentemente si sarebbe accodato anche l'omonimo di Toscana, che solo con molti doni Berengario riuscì a staccare ("Fecerat namque sibi Berengarius pluribus conlatis muneribus Adelbertum Tuscorum prepotentissimum marchionem, sibi valde fidelem…", Antapodosis, II, 36, e in ciò si accorda - sia pur spostando la data al 905 - l'autore dei Gesta Berengarii, ed. E. Dümmler, in Mon. Germ. Hist., Poetae, IV, I, vv. 76-79). Ma i documenti rovesciano le posizioni, giacché Adalberto di Toscana è accanto a Lodovico fino alla incoronazione imperiale ed al suo ritorno a Pavia (I diplomi italiani di Lodovico III e di Rodolfo II, a c. di L. Schiaparelli, Roma 1910, n. II, Pavia, 12 ottobre 900; n. IX, Pavia, 11 marzo 901), mentre Adalberto di Ivrea - che fu certamente l'ispiratore della seconda spedizione di Lodovico, nel 905 - è accanto all'imperatore il 21 aprile 902 (ibid., n. XVIII). In sostanza, quindi, è esatta la versione del cap. 36 dell'Antapodosis, naturalmente tenendo presente ciò che più sopra si è detto.
Le speranze di B. si dovevano realizzare pochi anni dopo, ma in ben strana maniera: catturato e fatto accecare da Berengario a Verona (905), Lodovico affidava il governo della Provenza a Ugo, conte di Vienne, duca e marchese, per un ventennio il vero reggitore del regno.
Nonostante le delusioni procurate da Lodovico, i rapporti fra la piccola corte di Toscana e re Berengario non divennero cordiali: quando nel 906-7 si intavolarono trattative per l'incoronazione imperiale di Berengario, la maggior opposizione venne da Lucca (il marchese fece occupare militarmente il passo di M. Bardone, cioè La Cisa), e la marchesa, per conto suo, cercava notizie a Ravenna sugli spostamenti del re, probabilmente per prevenirne le mosse. Di tutto questo abbiamo notizia attraverso il così detto Rotolo opistografo Pio di Savoia (S. Loewenfeld, AchtBriefe aus der Zeit König Berengars gedruckt und erläutert in: Ceriani e Porro, Il rotolo opistografo del principe Antonio Pio di Savoia, in Neues Archiv, IX [1883], pp. 515-539), che raccoglie otto lettere, senza data, ma che si possono sufficientemente inquadrare nel periodo 906-7 (T. Venni, Giovanni X, in Archivio della Società Romana della storia patria…, LIX [1936], e comunque nel periodo di pontificato di Sergio III (905-912). La quarta è diretta a Berta, e da essa veniamo a sapere che vi era stato un forte urto tra l'arcivescovo di Ravenna e la marchesa di Toscana, superato mercé i buoni uffici di un vescovo Leone. Quale sia stata la causa del "furor" di B. ignoriamo, ma ciò che risalta evidente è che un potentissimo prelato come il ravennate ci teneva a restare in buona con lei ed era pronto a presentarle le soddisfazioni richieste. Non solo, ma si affrettava a dar notizie politiche di un certo interesse: che due messi del marchese Alberico di Spoleto si erano recati a Ravenna, avevano preso contatti anche nel territorio con qualcuno e s'erano poi recati ad Argenta per incontrarsi col conte Didone (di Bologna?) e Guinegildo (certamente un altro conte); che il re Berengario si trovava a Verona per prepararvi il viaggio per Roma; e che la moglie di Guinegildo era giunta nel castello di Piciano in attesa dei messi di B., con cui doveva avere dei colloqui. In più aggiungeva che non appena i messi di Alberico fossero rientrati da Argenta, avrebbe cercato di saper qualcosa di preciso per riferirglielo. Purtroppo, però, i dati che si possono desumere dai diplomi berengariani non ci permettono alcuna precisazione cronologica, poiché due soli diplomi - per il periodo 906-12 - sono datati da Verona, l'uno del 24 agosto 9o6 (I diplomi di Berengario I, a c. di L. Schiaparelli, Roma 1903, LXV), seguito da una lacuna esattamente di due anni, l'altro del 25 marzo 912 (ibid., LXXXII), seguito da un gruppetto di altri quattro che ci mostrano Berengario sempre a Pavia.
Tornando ora alla lettera di Giovanni, rileviamo come i rapporti fra Toscana e Spoleto, buoni fino al momento della lettera III (quando Alberico sostituì Adalberto al comando delle truppe attestate a Parma, evidentemente per bloccare Berengario: "Denique autem audivimus quod Adelbertus sit reversus ad Lucani et Albericus sit in Parma super ipsam ostem, donec ipse revertatur"), si debbono esser poi guastati. C'è da sospettare che i messi del marchese Alberico, abboccandosi con Didone e Guinegildo (e sappiamo che Didone era un sicuro amico di Berengario), avessero per fine di avvicinare il loro senior al re, come forse già avevano fatto i marchesi di Toscana.
B. comunque fiancheggiava l'opera del marito mantenendo contatti politici con altre donne altolocate: se, come proposero Ceriani e Porro, Castel Piciano è da identificare con Prignano in Val di Secchia (dove c'è una frazione detta Castelvecchio), il conte Guinegildo sarebbe da identificare con un conte di Modena.
Dieci anni dopo (agosto 915) B. balzava Veramente in primo piano: in quel mese moriva Adalberto, e il figlio Guido, giovanetto, dovette pur acconciarsi a riconoscere ufficialmente il re e a fargli atto di vassallaggio (probabilmente nel novembre, quando arengario sostò a Lucca nel suo viaggio verso Roma, per l'incoronazione imperiale), se voleva ottenere l'investitura del marchesato. B. divenne la reggente, ma naturalmente la situazione creatasi in Toscana dopo la morte di Adalberto non poteva che facilitare a Berengario il raggiungimento del suo sogno imperiale.
Brevissima pausa: B. cominciò a intrecciare nuove congiure ai danni del debole imperatore, con più largo raggio di interessi. E il primo ad essere irretito fu il marchese Adalberto di Ivrea, che, con la morte della moglie Gisla, figlia di Berengario (sposata forse nel 905,dopo la tragedia veronese di Lodovico di Provenza), si sentiva meno legato all'imperatore. Il problema di questo marchese, di tradizione guidesca, ma per anni leale vassallo del suocero, era sopra tutto quello della difesa delle sue terre piemontesi contro i Saraceni di Frassineto, e una intesa intima con la Provenza avrebbe potuto facilitare una lotta a fondo contro questi predoni. In buon punto, quindi, poteva giungere un'alleanza familiare col potente duca-marchese Ugo, sposandone la sorella Ermengarda. Ma per B., autrice di tali nozze, voleva dire allearsi, attraverso la figlia, al più potente marchese dell'Italia settentrionale. Queste nozze si possono porre nel 916-917.
E già poco dopo si potevano vedere i primi frutti, in una non felice spedizione di Ugo, per la conquista del Regno, terminata con un patto (oggi si direbbe di non aggressione) tra il vincitore Berengario e il pretendente, accerchiato e messo addirittura nella impossibilità di combattere. La cosa non passò, però, liscia per i marchesi italiani: nell'ottobre 919 Adalberto di Ivrea era, se non fuggiasco, per lo meno assente dalla sua città, dove troviamo Berengario, che dispone di diritti del marchesato senza il solito intervento del titolare locale (ibid., CXXII, su istanza del march. Olderico per concessione di diritti di regalia fra il Ticino e Trecate, a cui si può aggiungere quello del 17 novembre, n. CXXIII, da Pavia, a favore del vescovo di Novara, su intervento dei marchesi Grimaldo e Olderico); poco dopo, diciamo nella prima metà del 920, la rappresaglia cadde sui marchesi di Toscana: B. ed il figlio Guido vennero tratti in arresto e tradotti in custodia a Mantova.
Anche per questi avvenimenti la cronologia è quanto mai controversa: Liutprando da Cremona (Antapodosis, III, 12) parlando dell'offerta della corona italica ad Ugo, dopo l'esperimento di Rodolfo II di Borgogna, accenna ad un tentativo del provenzale al tempo di Berengario e terminato appunto con una fuga, mentre Costantino Porfirogenito (De administrando imperio, XXVI), male interpretando o Liutprando o una fonte italica simile, pone la prima comparsa di Ugo nel 923. Ma da ciò che risulta dai diplomi berengariani, dal marzo 922 al giugno 923 B. rimase in Verona e vi tornò subito dopo la sconfitta di Fiorenzuola d'Arda.
Altri (De Manteyer, Fasoli) pensarono al 912, legando il tentativo di Ugo all'arresto di B. e dei figlio Guido, che, però, Liutprando (Antapodosis, II, 55) pone "paulo post" l'assunzione di Guido alla carica di marchese di Toscana. L'infedele Bosone (I dipl. di Berengario I, XCI, 19 sett. 913) non può esser il fratello di Ugo, che non aveva rapporti di vassallaggio con Berengario. E d'altra parte se l'arresto di B. e Guido - contro la testimonianza di Liutprando - si dovesse porre al 912-13, non si capisce perché non sia stato arrestato anche il marchese Adalberto. Al 916 non è neppur possibile di pensare: fino al dicembre dell'anno precedente i rapporti del re con Lucca furono più che cordiali (Guido è detto addirittura: filiolus), e un arresto per i fatti del 912 sarebbe troppo tardivo. Rimane quindi plausibile proprio l'estate del 919, a cui seguì nell'ottobre la puntata su Ivrea e nella primavera del 920 l'azione dimostrativa su Lucca: dal giugno 920 al febbraio 921 Berengario rimase tra Pavia, Mantova e Verona.
Quanto sia durata la detenzione non sisa: è probabile che, di fronte al pericolo che veniva dalla Borgogna - con l'offerta della corona italiana a quel re, Rodolfo -, il debole imperatore abbia pensato che era meglio tirare un velo sul passato, e, liberando i marchesi toscani, assicurarsi la neutralità del fronte meridionale. E infatti, mentre Adalberto di Ivrea compare come il centro del partito rodolfino, B. e Guido non prendono parte all'avventura anche perché l'interesse di B. non collimava certamente con quello di Rodolfo, la cui vittoria non avrebbeportato alcun beneficio ai figli, ormai potenti in Provenza. Se B. e i figli rimasero neutrali nella contesa fra Berengario e Rodolfo, a quest'ultimo si opposero decisamente quando fu il solo re d'Italia. Una prova è un matrimonio: quello di Guido con Marozia, rimasta da poco vedova di Alberico marchese di Spoleto, e alla quale non poteva esser tornata gradita la sostituzione del figlio, cui sarebbe dovuto andare il marchesato, con un borgognone, Bonifazio, cognato del re.
Le fila di una nuova congiura si andavano tessendo alla corte di Lucca, e questa volta decisamente in favore di Ugo di Provenza: ma la marchesa B. non nevide la vittoriosa affermazione, poiché morì l'8 marzo 925, pochi mesi prima dello scoppio della rivolta.
Un lato caratteristico della politica di B. riguarda i suoi rapporti col califfo di Baghdäd, al-Mü'ktafï. è l'anno 293 dell'egira (2 nov. 905-21 ott. 906), proprio l'anno in cui Berengario ventilava il primo progetto di incoronazione imperiale. Uno scambio di ambascerie e di messaggi, fortunatamente arrivati fino a noi, mette chiaramente in luce come la marchesa - da cui partì l'iniziativa - intendesse allacciare rapporti diplomatici con Baghdäd, forse allo scopo di frenare, per mezzo dell'autorità del califfo, le scorrerie saracene nel Tirreno, forse di predisporre una comune azione contro le terre bizantine dell'Italia meridionale. Ma ciò che stupisce è l'ingenua vanteria della marchesa, che si proclamava tranquillamente regina di tutto l'Occidente e nientemeno che sovrana di ben ventiquattro regni. è un tratto, questo, che sottolinea la personalità di questa donna: forse megalomania, forse un alto sentimento di sé e delle proprie capacità politiche o forse addirittura incoscienza, ma che certo è un aspetto caratteristico del sec. XI.
Fonti e Bibl.: Per le fonti e la bibl. essenziale, fino al 1953, C. G. Mor, L'età feudale, I, Milano 1952-3; si veda poi: G. Levi Della Vida, La corrisp. di Berta di Toscana col califfo Muktafi, in Riv. stor. ital., LXVI (1954), pp. 21-38; C. G. Mor, Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al califfo di Bagdad, in Arch. stor. ital., CXIII (1954), pp. 299-312; W. Mohr, Boso von Vienne und die Nachfolgefrage nach dem Tode Karls d. Kahlen und Ludwigs d. Stammler, in Arch. latinit. medi Aevi, XXVI(1956), pp. 141-65; E. Hlawitschka, Franken, Alamannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (774-962), Freiburg in Br. 1960, pp. 81-83. L'epitaffio, esistente nella cattedrale di Lucca, è riprodotto in fotografia in A. Silvagni, Monumenta epigraphica christiana, III, 1, in Civitate Vaticana 1943, tav. 1, 3.