FRESCOBALDI, Berto
Forse figlio di Ranieri e forse nipote di Lamberto (l'uno fu degli Anziani nel 1255 e l'altro nel 1252), nacque probabilmente a Firenze, nella prima metà del secolo XIII. Giovanissimo avrebbe combattuto alla battaglia di Montaperti (1260). Nel decennio successivo, egli viene ricordato tra i maggiorenti guelfi; nei documenti il suo nome è sempre preceduto dalla qualifica di "messere". Il 2 maggio 1273 fu tra i testimoni delle disposizioni testamentarie del conte Alessandro degli Alberti in favore della Parte guelfa. Nel 1282 fu forse podestà di Padova. Nella primavera del 1285 fu ambasciatore al conte Ugolino Della Gherardesca e a Genova. Sempre nel 1285, insieme con i fratelli Stoldo e Paniccia e con il cugino Ghino di Lambertuccio Frescobaldi, si vide richiedere dal Comune un ingente prestito per la riparazione dei ponti della città. Insieme con il fratello Stoldo, tra il 1288 e il 1289, militò nella guerra contro i ghibellini di Arezzo innalzando lo stendardo di Carlo d'Angiò; partecipò alle operazioni contro la città avversaria e alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1288). Il 6 luglio 1291 fu eletto capitano di Bologna, ma non ricoprì tale carica. Ripetutamente membro dei Consigli nel 1285 e dal 1289 al 1293, proprio in quest'ultimo anno, con tutti i suoi, fu incluso fra i magnati. Contrastò vivacemente gli ordinamenti di giustizia promossi da Giano della Bella, e fu tra i promotori della reazione magnatizia.
Sembra che il F. sia stato personale nemico di Giano. Secondo quanto ci narra Salvemini (p. 243), lo avrebbe una volta affrontato nel corso di un consiglio riunito nella chiesa di S. Piero Scheraggio. Fra la fine del 1294 e i primi del 1295 avrebbe poi presieduto una riunione di magnati, davanti ai quali, dopo aver lamentato che "i cani del popolo" avevano sottratto ai nobili ogni potere, chiese "di uscire da questa servitù" prendendo le armi e scendendo in piazza: "uccidiamo amici e nemici, di popolo, quanti ne troviamo, sicché giammai noi né i nostri figliuoli non siano da loro soggiogati" (Compagni, I, 15).
Le "interdizioni" derivanti dagli ordinamenti non impedirono comunque al F. di continuare a sostenere un ruolo di rilievo nella politica fiorentina. Risulta infatti, ad esempio, che nel maggio del 1295 egli prese parte, con Oddo Altoviti, alle consultazioni con gli ambasciatori pisani. Nel 1297 fu forse podestà di Orvieto. L'11 nov. 1300 fece parte dell'ambasceria fiorentina che si presentò a Bonifacio VIII insieme con i rappresentanti di Bologna, di Lucca e di Siena. Schierato dapprima con i "bianchi", per i debiti che aveva con Vieri dei Cerchi (si parlava di 17.000 fiorini depositati presso la sua società), passò poi ai "neri", pur senza sostenere fin in fondo Corso Donati. Anzi, nei primi mesi del 1302 fece fuggire da Firenze Giano di Vieri dei Cerchi, provocando l'ira del gruppo familiare dei Franzesi, e in particolare di Giovanni Paolo (Musciatto) Franzesi. Ne nacque un duro scontro tra Frescobaldi e Franzesi, che si concluse con il bando di Musciatto, poi sospeso, nel settembre del 1305, per l'intervento di Roberto di Calabria.
Di indole violenta e polemica, il F. si attirò gli strali di Guittone d'Arezzo per il suo attaccamento alle glorie e ai beni terreni. All'incremento delle sue ricchezze, infatti, egli dedicò buona parte del suo impegno, valendosi anche di una compagnia bancaria e mercantile di grandissimo rilievo, le cui prime vicende non appaiono - allo stato attuale delle ricerche - ancora sufficientemente chiarite. Essa trasse vigore, probabilmente, dall'incrociarsi delle attività di un fondaco fiorentino del F., che aveva ramificazioni anche in Francia, con quelle del fratello Stoldo, il quale operava in Inghilterra e forse anche in Fiandra fin dall'ottavo decennio del Duecento.
Tra il 1295 e il 1298 Stoldo raccolse forse l'eredità della compagnia inglese dei "Frescobaldi bianchi", di cui aveva presumibilmente fatto parte. Tale compagnia era stata diretta da un cugino del F., Giovanni Frescobaldi, detto "Chiocciola", fratello del già ricordato Lambertuccio. Quest'ultimo, da parte sua, guidava la compagnia detta dei "Frescobaldi neri", anch'essa attiva in Inghilterra. Fatto si è che all'inizio del Trecento si hanno prove documentarie dell'esistenza di una società non più intitolata a Giovanni Frescobaldi, ma al F. o, per essere esatti, a "Stoldo, Berto e Paniccia Frescobaldi e Rucco Pitti e soci". Nel 1300 ne era rappresentante in terra inglese un Coppo (o Coppuccio) Cotenna, che fu nominato da Edoardo I "valletus" del tesoriere regio e che ci è noto sin dal 1283, quando operava per i Frescobaldi in Scozia. Accanto al Cotenna, in Inghilterra appaiono: nel 1302 Stoldo Angiolieri e un figlio del F., Bettino; poi Andrea Gherardi, dal 1304 almeno; un secondo figlio del F., Amerigo, dal 1305 almeno.
Fin dal 1299 la società dei Frescobaldi ebbe in appalto le miniere d'argento del Devon e le fu concessa, sul continente, la ricevitoria delle Contee di Pontieu e di Montreuil (fra l'Artois e il Ducato di Normandia). Nel primo lustro del Trecento, pur risultando molto attiva in ogni campo, non doveva essere ancora solidissima, se risulta indebitata con il marchese d'Este per la cospicua somma di 5.675 fiorini d'oro, che ebbe difficoltà a pagare, e se fu accusata dall'ormai declinante società dei "Frescobaldi neri" di rifiutarsi di onorare un ingentissimo debito. Essa superò tuttavia il difficile momento e in breve si affermò come una delle principali compagnie fiorentine, specie per i grossi successi conseguiti dalla filiale inglese, diretta dai figli del F., Bettino e Amerigo.
Il F., "fondatore della fortuna della famiglia e della società", rimase per lo più a Firenze "a presiedere alle succursali stabilite" in Inghilterra, in Francia, nelle Fiandre, e a controllare tutto il movimento dei suoi rappresentanti (cfr. Sapori, 1947, pp. 31 s.). Si trattava di un compito di tutto rispetto: in Inghilterra, nel 1306, i mercanti impegnati per la compagnia erano almeno sei; in Francia le filiali erano due, a Parigi e a Bordeaux. Non è perciò forse un caso che il F. venisse creato dal re Edoardo II, il 15 genn. 1311, consigliere privato della Corona - anche se questa nomina potrebbe rientrare nel quadro delle manovre allora compiute dal sovrano per sostenere la compagnia stessa, che stava attraversando un momento di difficoltà.
Ignoriamo la data esatta della morte del F., il quale, per quanto vecchio e malato, dovette probabilmente vivere almeno sino alla metà del 1315, quando, come attesta un documento del 20 giugno di quell'anno, citato dal Davidsohn (1896-1908, III, reg. 672, p. 133), la sua compagnia, ormai avviata all'estinzione, si intitolava ancora a lui, a suo fratello Tegghia e a un Ruggiero Frescobaldi. È ricordato invece come già scomparso, in documenti dell'anno successivo, relativi al ricorso promosso contro i suoi figli dal medesimo Tegghia.
Davidsohn e Sapori affermano che il F. morì nel 1310, fondandosi sulla circostanza che nel febbraio del 1311 fu concesso ai suoi due figli, Giovanni e Filippo, di lasciare l'Inghilterra per recarsi in Italia a recuperare l'eredità paterna. Questa datazione, che è stata accolta in seguito da molti altri studiosi, è contraddetta dalla ricordata nomina del F. a consigliere privato del re, avvenuta appunto nel 1311, come ha fatto rilevare il Kaeuper, il quale ha avanzato anche l'ipotesi che la notizia della morte del F., circolata allora in Inghilterra, fosse falsa e diffusa ad arte, forse anche con la connivenza del re, proprio per consentire l'espatrio dei due figli Giovanni e Filippo.
Morendo, il F. lasciava la moglie Andriola, forse sposata in seconde nozze, che risultava ancora vivente nel novembre 1326, e almeno nove figli maschi legittimi, forse non tutti nati da un unico matrimonio, e due figli illegittimi, Guelfo e Piero.
A parte Amerigo e Bettino, ai quali è dedicata una voce, si ricordano i seguenti. Francesco, per il quale, nonostante il difetto di età, il papa Bonifacio VIII chiese, il 12 luglio 1297, la concessione di un pievanato o di un priorato nella diocesi di Firenze o in quella di Fiesole, forse rappresentò a Padova la compagnia paterna. Bonaccorso, costretto a entrare, ancora giovanissimo, tra gli agostiniani, ricevette da Bonifacio VIII, nel 1297, un canonicato in Arras. Più tardi ebbe da Clemente V (1305-14) il permesso di uscire dall'Ordine degli agostiniani pur permanendo nello stato ecclesiastico. Non è da escludere che sia da identificare nel "chierico" suo omonimo che nel 1346 fu ambasciatore fiorentino ad Avignone. Giovanni divenne canonico del duomo di Firenze grazie a un intervento di Bonifacio VIII. Fu poi canonico di Salisbury e titolare di altre prebende in patria e in Inghilterra. Guglielmo (o Guglielmino) fu canonico a Firenze e quindi tesoriere del capitolo del duomo in quella città. La sua elezione nel 1319 a vescovo di Firenze da parte del capitolo della cattedrale non fu accolta dal papa, che preferì inviare nella città un vescovo di sua scelta. Guglielmo morì forse nel 1339. Filippo fu titolare della chiesa di S. Pietro in Mercato nella val d'Elsa. Ottone esercitò anch'egli l'attività di mercante e operò forse in Inghilterra. Sposò Giovanna di Francesco di Arrigo di Manetto della Foresta appartenente al gruppo familiare dei Franzesi, che portò la cospicua dote di 1.200 fiorini. Fu in seguito uno dei tutori del cognato Guido di Francesco della Foresta. Morì nel 1343, lasciando almeno un figlio maschio, Filippo. Simone, pure partecipe delle attività economiche del padre e dei fratelli, combatté a Montecatini nel 1315.
Quasi tutti i figli del F., compresi quelli che avevano abbracciato la carriera ecclesiastica, parteciparono, soprattutto all'estero, alla gestione degli affari di famiglia, affiancando di volta in volta Amerigo e Bettino.
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