BAGAROTTI, Bertuccio
Nato a Padova intorno al 1445, fu noto giureconsulto e professore di diritto nell'università cittadina con l'alto stipendio di 300 ducati annui. Nel 1495 fu per la prima volta eletto all'ufficio di deputato "ad utilia" del Comune, ricoprendo questa carica anche nel 1497, nel 1501 e nei due anni seguenti, e infine anche nel 1505. In molte occasioni il governo di Venezia si avvalse delle sue conoscenze giuridiche e delle sue capacità diplomatiche, affidandogli delicati incarichi. Fra l'aprile e il maggio del 1498 egli fu inviato nel Friuli e presso Trieste a concordare con alcuni messi imperiali una regolamentazione definitiva dei confini fra la Repubblica veneta e l'Impero; nel maggio del 1502 venne incaricato di dirimere la controversia sorta fra Verona e Padova circa un argine sull'Adige; infine, nel maggio del 1509, pochi mesi prima della sua tragica morte, collaborò, preparando anche svariati "consilia" (ms. in Archivio di Stato di Venezia, Consultori "in iure",b. n. 552), alla stesura dell'appello che il governo veneto presentò avverso la sentenza di scomunica lanciata contro la Serenissima da papa Giulio II; in questa occasione, anzi, egli consigliò al Senato di proporre al pontefice l'elezione di un arbitro nella persona di un principe non sospetto. Anche il Comune di Padova si avvalse nei suoi rapporti con Venezia del prestigio e della fama del Bagarotti. Nell'agosto del 1499 egli, infatti, fece parte di una delegazione padovana che invano tentò di ottenere un sussidio straordinario dal Senato. Nel 1503, inoltre, sostenne vigorosamente, sia a Padova in sede di Consiglio comunale, sia a Venezia come inviato del Comune, la necessità di impedire che si desse corso ad un deliberato del Senato veneto, secondo il quale la cosiddetta "rotta Sabadina" dell'Adige avrebbe dovuto essere allargata: cosa che, secondo il B., avrebbe arrecato gravi danni alle campagne padovane.
Ma la sua figura acquistò particolare rilievo nel drammatico periodo del giugno-luglio 1509, quando Padova passò dal dominio veneziano a quello imperiale, per ritornare quindi di nuovo sotto la Serenissima.
Dopo la rotta di Agnadello (14 maggio 1509), mentre le truppe veneziane si ritiravano rapidamente dai centri di terraferma, le tendenze autonomistiche avevano ripreso vigore in numerose città del Veneto, nelle quali la nobiltà e la grossa borghesia, angariate dal sistema fiscale della Serenissima, vedevano nel dominio di Massimiliano d'Asburgo la possibilità di riacquistare vecchi privilegi. A Padova i primi giorni di giugno furono assai agitati, in quanto i rappresentanti del governo centrale non avevano la possibilità di imporre la fedeltà alla Repubblica, mentre il popolo basso, decisamente filo-veneziano, guardava con sospetto alle simpatie imperiali dei maggiori cittadini.
In questa difficile situazione il B. svolse il ruolo di pacificatore, ottenendo il 2 giugno, in una seduta del Consiglio generale cittadino, che nella nuova giunta di coadiutori, allora costituita, fossero rappresentati anche i ceti popolari. Quando poi, tre giorni dopo, fuggiti i rappresentanti della Repubblica, Padova passò senza colpo ferire alla parte imperiale e le truppe di Massimiliano entrarono in città, il B. pare tentasse di rifugiarsi a Venezia. Non riuscitovi, mentre continuava a deprecare il dominio asburgico e a mantenere contatti con amici veneziani, accettò tuttavia di ricoprire ancora una volta la carica di deputato "ad utilia", anche se non sembra che abbia attivamente partecipato al governo della città. Nella notte fra il 16 e il 17 luglio le truppe veneziane riuscirono però a impadronirsi di nuovo di Padova e il B., mentre la sua casa veniva saccheggiata, si presentò spontaneamente al provveditore Andrea Gritti. Severissimi ordini venuti da Venezia impedirono però a quest'ultimo di mostrarsi indulgente. Il 22 luglio il B., insieme con altri otto cittadini padovani considerati ribelli, fu trasportato a Venezia e imprigionato; quindi, malgrado si dichiarasse innocente, condannato a morte e impiccato, insieme con i compagni, il 1° dicembre di quello stesso anno.
Nel 1519 suo figlio Pietro, nel chiedere una pensione al Senato veneto, tentò di scagionare la memoria del padre dall'accusa di tradimento; riuscendovi, a quanto pare, perché il governo veneto, anche se non pronunziò una formale riabilitazione, pure concesse la pensione richiesta.
Il B. aveva sposato una Giulia di Niccolò Sangonacci, cui nel 1531 Carlo V donò una somma in ducati.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii,I,Venezia 1879, col. 949; II, ibid. 1879, coll. 1076, 1114; III, ibid. 1880, col. 655; IV, ibid. 1880, coll. 265, 807-810, 818; VIII, ibid. 1882, coll. 162, 367, 439, 495, 533, 542, 543; IX, ibid. 1883, coll. 73, 116, 295, 353, 359; I Libri Commemoriali della Repubblica di Venezia,a cura di R. Predelli, V, Venezia 1901, p. 328, n. 217; VI, ibid. 1903, p. 211, n. 109; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane,VI,Venezia 1853, DD. 242-245; G. Della Santa, Leappellazioni della Repubblica di Venezia dalle scomuniche di Sisto IV e Giulio II, in Nuovo arch. veneto,n. s., XVII (1899), p. 231; Id., Ilvero testo dell'appellazione di Venezia dalla scomunica di Giulio II, ibid.,n. s., XIX (1900), p. 349-361; A. Bonardi, IPadovani ribelli alla Repubblica di Venezia,in Miscellanea di storia veneta,s. 2, VIII (1902), pp. 322-324, 329, 341, 374, 381, 383, 395-403.