BESTIAME (fr. bétail; sp. ganado, bestiaje; ted. Vieh; ingl. cattle)
Per bestiame s'intende l'insieme degli animali domestici utili all'agricoltura. Essi appartengono tutti alla classe dei Mammiferi e a quella degli Uccelli. Fanno parte dei Mammiferi: il cavallo, l'asino, il mulo, il bardotto, il bue, il bufalo, lo zebù, gli ibridi fra i bovini e gli zebù, il cammello, il dromedario, la pecora, la capra, il maiale, il coniglio, la cavia, il cane. Fanno parte degli Uccelli: la gallina, l'oca, l'anitra, il tacchino, il colombo, la gallina faraona.
I cavalli, gli asini, i muli, i bardotti, i bovini, gli zebù, gl'ibridi zebú-bovini, i cammelli, i dromedarî costituiscono il cosiddetto òestiame grosso. Gli ovini, i caprini, i suini costituiscono invece il bestiame minuto. I conigli, le cavie e tutti i volatili domestici si sogliono chiamare animali di bassa corte.
Tutte le specie di animali domestici derivano da forme ancestrali che vivevano allo stato selvaggio; alcune di esse hanno ancora dei rappresentanti che vivono allo stato di piena libertà (v. domesticazione).
Con l'addomesticamento si è iniziata l'arte dell'allevamento e del miglioramento delle diverse specie, esaltando negli animali determinate funzioni fisiologiche e trasformandole in funzioni economiche. Così l'uomo ha ottenuto razze bovine, ovine e suine di grande mole e precocità che rappresentano delle vere macchine trasformatrici dei foraggi in carne o in grasso; razze bovine capaci di una produzione lattea individuale media di 4000 litri, ed eccezionali di anche più di 15.000 litri per anno; razze di pecore in cui il pelo delle forme primitive è divenuto un vello estesissimo, folto, morbido e straordinariamente fine; razze di polli che invece di 30-40 uova annuali ne producono 250-300, ecc.
Le funzioni economiche del bestiame sono indicate nel linguaggio zootecnico come attitudini: esse sono diverse nelle diverse specie e per una stessa specie nelle diverse razze.
La specie cavallina viene sfruttata per la produzione del lavoro. Alcune razze sono specializzate per il lavoro veloce, altre per il lavoro d'intensità (sforzo), altre per un lavoro nello stesso tempo rapido ed intenso. La specie asinina nella produzione del lavoro non presenta differenze qualitative così marcate.
Il mulo e il bardotto producono lavoro prevalentemente sotto forma di intensità (tiro o trasporto e basto).
La specie bovina produce lavoro, carne, latte. Di fronte alle razze a triplice attitudine, vi sono quelle a duplice attitudine, p. es. lavoro e carne, carne e latte; ed altre specializzate o per la carne o per il latte.
Anche il bufalo e lo zebù, come i bovini, producono carne, latte e lavoro ma con minor grado di specializzazione.
Le specie cammello e dromedario sono utilizzate per la funzione economica del lavoro, subordinatamente per la produzione del pelo e della carne.
La specie ovina fornisce lana, carne e latte. Vi sono anche in questa specie razze a triplice e duplice attitudine e razze a funzione specializzata.
La specie caprina produce specialmente latte; la produzione della carne ha importanza secondaria, quella del pelo assume valore economico soltanto in qualche razza, come per il pelo mohair della capra d'Angora, e il pelo cashmir della capra del Tibet.
La specie suina fornisce insieme carne e grasso; alcune razze hanno più attitudine a produrre carne, altre grasso.
La specie coniglio è allevata per la produzione della carne e delle pellicce. Dai volatili domestici si ottiene carne, uova, piume e penne. Gli animali domestici forniscono altri prodotti importanti, come il letame e le pelli.
Allevamento del bestiame e coltivazione delle piante sono due branche di un'unica entità tecnico-economica che è rappresentata dall'industria agraria. L'allevamento del bestiame, nelle sue forme primitive e rudimentali di pastorizia, precede l'agricoltura ma prepara a questa le condizioni necessarie al suo sviluppo, sia con la formazione di capitale, sia con la fertilizzazione del suolo, sia con la disponibilità del lavoro animale. Con la messa a coltura delle terre, il bestiame assume una funzione sempre più complessa, tecnicamente ed economicamente importante, quanto più l'agricoltura si evolve, passando dalla forma estensiva verso quella intensiva. Il bestiame infatti trasforma in prodotti utili e facilmente commerciabili (carne, latte, burro, formaggio, uova, ecc.) i foraggi propriamente detti e un'ingente quantità di sottoprodotti delle aziende e delle industrie agrarie che spesse volte non potrebbero essere diversamente utilizzate; fornisce il lavoro per la coltivazione della terra; produce il letame, concime completo per le sue qualità fertilizzanti e perché arricchisce la terra di humus; rende possibili le rotazioni agrarie razionali. Non solo è per sé stesso un produttore di ricchezza, ma contribuisce anche efficacemente al miglioramento dell'agricoltura. Infatti nelle regioni dove maggiore è la quantità e migliore la qualità del bestiame si riscontra, in generale, un'agricoltura più progredita e si realizzano le più alte produzioni agrarie unitarie. Può essere interessante a questo proposito mettere a confronto la densità di bestiame bovino riferita alla superficie agraria e la produzione media di frumento ad ettaro nelle diverse regioni d'Italia nel dodicennio 1909-1920:
Come si vede, alle maggiori densità di bestiame bovino corrispondono le maggiori produzioni unitarie di frumento. Sembrano fare eccezione la Sardegna e la Campania, ma è da osservare che la Sardegna è regione eminentemente pastorale e che la Campania destina le migliori terre a colture specializzate e quelle meno buone a frumento, il che spiega il fatto che ad una discreta densità di bovini si contrapp0ne una scarsa produzione unitaria di frumento.
La quantità di besliame esistente nei principali paesi del mondo risulta dai dati seguenti (1918-1925):
Economia e statistica dell' allevamento. - L'imprenditore che si dedica all'industria zootecnica deve affrontare la soluzione di problemi speciali, connessi con il carattere poco elastico della domanda e dell'offerta del bestiame stesso. I consumatori presentano le proprie richieste di viveri giorno per giorno, con variazioni tenui di carattere stagionale e con modifiche più profonde solo in caso di un notevole gonfiaisi del reddito a vantaggio di ceti molto numerosi; anche in tal caso, per il considerevole intervallo tra l'accrescersi dei guadagni e le sue ripercussioni sull'allevamento, rimane l'impressione di una fermezza tenace, di una inelasticità quasi completa e può dirsi quindi che la domanda si conservi a lungo stazionaria. Varie cause contribuiscono d'altra parte a mantenere statica l'offerta: prima tra tutte il frazionamento della produzione in una miriade di piccole e medie imprese, disperse in vasti territorî, lontane spesso dai mercati e slegate fra loro. Sono appunto l'assenza di formazioni monopolistiche naturali e la mancanza di intesa tra i singoli produttori, per cui si opera in regime di libera concorrenza limitata solo dal protezionismo locale, che rendono impossibile una politica unitaria dei prezzi e attutiscono la sensibilità dell'organismo produttivo al variare delle condizioni generali e particolari del mercato. Le imprese devono inoltre ricorrere a coefficienti di produzione ben poco elastici, quali il terreno, limitato o mai nella sua quantità e nella sua qualità, e la mano d'opera, che in questo ramo della produzione più che in altri non è suscettibile di rapidi aumenti e diminuzioni. Si tratta per lo più di proprietarî coltivatori che mirano ad assicurarsi il necessario con calcoli grossolani sul costo e il rendimento, senza eccessive preoccupazioni sull'andamento futuro dei prezzi. Se non si verificano quindi circostanze eccezionali (quali: siccità, con conseguente scarsezza nel raccolto dei foraggi, epidemie, obblighi di mattazioni per guerre o altro) la produzione del bestiame tende a mantenersi costante e a reagire solo limitatamente alle variazioni subite dalle altre forze dell'equilibrio economico. Nella vita rurale il lavoro continua anche in periodi di crisi, e gli effetti di essa si ripercuotono solo sui profitti, non di rado a insaputa degli stessi interessati che, prevedendo, avrebbero potuto dedicarsi ad altro ramo di attività e realizzare maggiori guadagni. Per ciò l'offerta oscilla solo in rapporto al clima, or più or meno propizio, e alla frequenza e gravità delle epidemie.
Altre difficoltà derivano, per chi si dedica all'industria zootecnica, dal fatto che nella produzione del bestiame si verificano esempî di offerte congiunte (p. es. carne e lana, carne e pelli): così che p. es. una più intensa domanda di carne può soddisfarsi solo affrontando anche una maggior produzione di pelli o di lana, con conseguente ribasso dei prezzi se non siano cresciuti anche per queste il bisogno e la richiesta. Solo in alcuni casi è possibile rimediare in parte a tale inconveniente, modificando il tipo prodotto (la sostituzione p. es. di pecore incrociate a quelle merinos permette d'aumentare relativamente di più il quantitativo di carne ottenuta) e si può anche calcolare il costo marginale di ciascuno dei due prodotti congiunti, osservando la spesa diversa che occorre per ottenere - a parità di lana - un quantitativo maggiore di carne o viceversa, sostituendo una razza all'altra.
D'altra parte l'industria zootecnica, legata a tutto il complesso agricolo, dà vita sempre più a una domanda congiunta, essendo il bestiame un bene capace di soddisfare bisogni diversi. Appena superato infatti il periodo pastorale, alle utilizzazioni primitive si uniscono quelle per i lavori agricoli, per la concimazione dei campi, e per l'impiego delle foraggere, così necessarie nella rotazione delle colture. Bisogna ricordare però che mentre un tempo si chiedeva al bestiame insieme carne e lavoro, ora con la più larga diffusione di trattori, autoveicoli, forze motrici, tende a diminuire l'importanza di tale domanda congiunta, riducendosi al minimo l'ultimo dei due compiti. Vi è inoltre una domanda composta dei varî tipi di bestiame, che si integrano a vicenda per lo sfruttamento dei rispettivi sottoprodotti: l'allevamento dei bovini e delle pecore p. es. origina l'industria casearia e questa consiglia a sua volta di allevare suini per l'impiego di cascami e residui, non altrimenti utilizzabili.
Tutto ciò ha una grande importanza nei calcoli dell'allevatore, resi ancor più complessi dal fatto che la legge delle proporzioni definite fa sentire in questo campo della produzione tutto il suo peso.
Tristi erano le condizioni del patrimonio zootecnico italiano verso la metà del secolo scorso. La scarsezza dei prati e dei capitali d'esercizio permettevano un solo capo grosso ogni cinque ettari di superficie agraria, mentre il fabbisogno ne avrebbe richiesto almeno uno per ettaro; gli ovini, inferiori di due terzi al necessario, rendevano ciascuno appena metà della lana tosata per capo in Francia e in Inghilterra, né compensavano con la qualità la quantità limitata; gl'incroci disordinati avevano intristito le razze migliori di cavalli, muli e ovini, abbastanza numerosi nel mezzogiorno; mancava in molte zone meridionali la stabulazione ed era in altre assai primitiva. La siccia estiva e la mancanza di fieno imponevano in molte zone (Maremma, Agro Romano, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) la transumanza, la quale consente sì lo sfruttamento dei buoni pascoli montani, il risparmio delle elevate spese di fienatura e trasporto e l'avvicinamento dei greggi ai centri di consumo di latte e latticinî nel periodo di più alta produzione; ma nella maggioranza dei casi è causa di distacco dell'allevatore dal coltivatore, con notevole danno nella condotta e nel rendimento dei pascoli.
Ostacoli tecnici non lievi e anche il parco accrescersi dei consumi del nostro popolo resero dapprima assai lento l'incremento del patrimonio zootecnico italiano; ma verso la fine del sec. XIX l'offerta mondiale di bestiame crebbe, sia perché, superate le difficoltà dei trasporti a lunga distanza (si apprese in quell'epoca a trasformare la carne in estratto, si costruirono le prime navi frigorifere e s'abbandonò il trasporto degli animali vivi), i paesi dell'emisfero meridionale, che dovevano prima limitare la loro esportazione alla lana e alle pelli, intensificarono l'alevamento, sia perché s'era frattanto più diffusa la domanda del ceto industriale; e anche per l'Italia le cifre indicano un progressivo sviluppo.
Inferiori alla consistenza reale si debbono considerare i dati del 1881, in quanto la rilevazione avvenne nell'inverno, epoca in cui la scarsezza dei foraggi e le macellazioni riducono le mandre; il 1908 ci dà un sensibile aumento, che si conserva nel 1918, pur attraverso la guerra cui si deve il sacrificio straordinario di oltre 3 milioni di capi di bestiame grosso; nell'ultimo decennio le perdite sono però colmate e si progredisce ancora, mentre l'impiego dei trattori e veicoli meccanici restituisce già, in confronto al 1914, circa un milione di bovini alla sola funzione alimentare.
Oltre allo sviluppo quantitativo si ebbe poi un notevole miglioramento qualitativo per il processo di selezione, spontaneo in alcune zone e studiato in altre, e per il perfezionarsi dell'industria zootecnica. Nelle regioni settentrionali, specie in Lombardia, si moltiplicarono gli esemplari di grande taglia destinati, mediante incroci e scelte, a una speciale utilizzazione: carne, latte o lavoro; si raddoppiarono contemporaneamente i suini per utilizzare i sottoprodotti dei numerosi caseifici. In scala sempre più larga fu adottato il ricorso alle migliori razze esotiche negl'incroci (tori Schwitz, vaccine olandesi, cavalli belgi, pecore merinos, suini del Yorkshire); attente cure furono dedicate alle specie indigene, ben note soprattutto quelle del pollame, e il progresso si diffuse a poco a poco in buona parte della penisola.
Il valor capitale complessivo del nostro patrimonio zootecnico, che era forse inferiore a 2 miliardi di lire poco dopo la metà del secolo scorso, raggiungeva alla fine, nonostante la caduta di due quinti nel livello generale dei prezzi, i 2/5, pari in moneta di equivalente capacità di acquisto a 3,3 miliardi. Nel 1908 il Vezzani, in base ai dati del censimento, lo calcolò a 4,25, e, poiché il livello generale dei prezzi era poco lontano da quello di mezzo secolo prima per il rincaro provocato dalle scoperte aurifere dell'Africa del Sud, le cifre sono senz'altro comparabili; tenendo conto però che l'epoca scelta per le successive rilevazioni trovava le mandre e i greggi già ridotti del 15% circa, il valore può portarsi a 4,9 miliardi.
Uguale sviluppo traspare dal reddito lordo nel cinquantennio: da un miliardo circa nei calcoli del Maestri all'origine del regno, si passa a 2,3 in quelli del Fotticchia per le annate precedenti la guerra. La riduzione della mano d'opera agricola, il restringersi del terreno lasciato a pascolo, la scarsezza dei concimi chimici, assorbiti dalle fabbriche di munizioni, e il crescente fabbisogno degli eserciti causarono il fortissimo rincaro del bestiame negli anni dal 1914 al'20; rincaro che appare poi ingigantito dalla svalutazione della moneta. A troncarlo intervenne, nel 1920, la crisi che in America e in Europa ebbe enorme ripercussione sulle industrie agricole. Si calcola infatti che molte derrate, soprattutto la carne di qualità comune, abbiano subito nel 1920-4 ribassi ancor più accentuati dei manufatti, con danno incalcolabile di migliaia di agricoltori e loro passaggio ad altri rami di produzione. Né ciò fu causato da un eccessivo incremento dell'offerta ma piuttosto, secondo il Sering, dall'arresto nell'aumento delle popolazioni, per la guerra e la diminuita natalità, e dal minor reddito spendibile.
Gli effetti della crisi, con la grave caduta di un quarto nei prezzi del bestiame, si risentirono in Italia tra il 1925 e il 1928 e il valor capitale che il Fotticchia riteneva di 24 miliardi prima del ribasso si valuta ora intorno a 19, mentre il reddito lordo si calcola disceso da 14,3 a 12,5 miliardi di lire. Si deve tener conto della rivalutazione monetaria, operatasi nell'intervallo, ma la perdita rimane tuttavia sensibile tanto più che negli stessi anni continuarono sia l'aumento numerico sia il progresso qualitativo. Si tratta però sempre di perdite inferiori a quelle subite da altri paesi, forse perché la ripresa, che s'iniziava già altrove nel 1925 almeno in riguardo ai latticinî e alle carni di qualità fine, attenuò in Italia le ripercussioni della crisi. In ogni modo i 12,5 miliardi di lire cui ammonta il reddito lordo annuo dell'industria zootecnica (in buona parte dati dal latte e dal pollame) costituiscono un terzo quasi del reddito lordo complessivo dell'agricoltura italiana.
Ad alimentare il nostro bestiame concorrono, insieme con 225 milioni di q. di foraggio falciato, panelli e cascami in quantità mal precisabile, e altri mangimi - strame e scherbature, paglia e cime, frasche di olivo e cereali di scarto - che tradotti in fieno corrisponderebbero a 75 milioni di q. Dopo la guerra si ricorse infatti ancor più a questi prodotti secondarî per il contrarsi del foraggio da taglio, rimasto alla cifra complessiva anteriore, nonostante l'accrescersi della superficie che lo fornisce (attualmente 11 milioni di ettari tra prati naturali e artificiali, erbai, pascoli, terreni a riposo).
L'estendersi delle foraggere nella rotazione delle colture, e soprattutto il miglioramento dei pascoli appenninici, devono formare la base di ogni progresso in questo campo; mentre infatti molto si è già fatto nella zona alpina, in molte zone meridionali il bestiame, doppio forse di quanto consentirebbe la germogliazione abituale, è condannato a una fame continuata, né d'altra parte basta a restituire al terreno, sfruttato da secoli, quanto esso perde annualmente di fosforo e di azoto.
La statistica del bestiame non offre dati continuativi (si potrebbero probabilmente ottenere utilizzando le cifre dell'imposta prelevata in quasi tutti i comuni), poiché i censimenti avvengono di solito ogni cinque o ogni dieci anni e possono anche cadere in epoche che, per contingenze eccezionali, come guerre, siccità, epizoozie, non siano del tutto adatte alla rilevazione, mentre le specie si rinnovano nell'intervallo con velocità diverse e con caratteri proprî di ciascun paese. Le valutazioni dovrebbero essere quindi annuali per il pollame e i suini, più distanziate per i cavalli e i buoi.
Quanto all'epoca della rilevazione, l'ottobre, in seguito all'ingrassamento, è il mese più indicato per conoscere la cifra più alta, l'aprile al contrario per conoscere il minimo: il dicembre dà cifre intermedie, ma permette, per la sospensione del lavoro dei campi, di raccogliere notizie dettagliate circa la specie, l'età (per gli ovini e i suini si dovrebbero distinguere due classi di età, per i bovini quattro, per i cavalli cinque), il sesso e la qualità. Questo è il carattere più difficile a precisare, dato che il peso, che ne sarebbe un buon indice, è di difficile misurazione in campagna e il valore venale denunziato è per ragioni fiscali di assai dubbia attendibilità. Notizie assai dettagliate si ottengono quindi per lo più ove si limiti la rilevazione a una zona più ristretta o ad una sola specie, desumendone i caratteri medî di peso e di valore per estenderli poi, non senza arbitrio, al resto del territorio.
Poiché il censimento coglierebbe talora le mandre e i greggi in moto, si stabilisce in generale di riferire le cifre alla località dove il bestiame risiede più a lungo. Gli incaricati del rilievo interrogano ciascun possessore di bestiame, di casa in casa, così che le omissioni in campagna sono quasi del tutto impossibili; si verificano invece in città, ma non hanno grande importanza, perché il bestiame che qui vive è ormai scarsissimo. Il risultato dei censimenti del bestiame, come di qualsiasi altra rilevazione simile, è spesso turbato dall'ignoranza e dalla reticenza degl'interrogati.
Le cifre complessive, che risultano per singole regioni e provincie, messe a confronto col numero degli abitanti dediti all'agricoltura e con la superficie agraria, dànno percentuali di densità che, pur con qualche restrizione, hanno notevole significato, specie se riferite a vasti territorî.
Rilevazioni indipendenti hanno per oggetto le malattie, epidemiche o no, che colpiscono il bestiame, e i dati si desumono dai registri dei veterinarî per gli animali morti, o dall'esame eseguito al momento della macellazione. L'afta epizootica e altre malattie con sintomi esterni sono di facile rilevazione; la tubercolosi invece, che in qualche stato si ritiene colpisca dal 15 al 25% del bestiame, spesso non si avverte. Le epidemie molto estese si accertano con minore esattezza, per l'impossibilità che i veterinarî visitino tutti gli animali colpiti, e le cifre risultanti quindi approssimative.
Bibl.: A. Pirocchi, Per la tutela e l'incremento del patrimonio zootecnico, in L'Italia agricola e il suo avvenire, II, Piacenza 1920; E. Azimonti, Le zone della coltura estensiva, in L'Italia agricola, 15 luglio 1925; I. Müller, Deutsche Wirtschaftsstatistik, Jen 1925; V. Peglion, Fascismo georgico, Piacenza 1928; Fotticchia, La zootecnia italiana, in L'Italia agricola, 15 ottobre 1929; G. O'Brien, Agricultural Economics, Londra 1929; M. Sering, Internationale Preisbewegung und Lage der Landwirtschft, in den aussereuropäischen Ländern, Berlino 1929; L. Lenti, L'industria zootecnia italiana, in Annali d'Economia, gennaio 1930.