RICASOLI, Bettino
RICASOLI, Bettino. – Nacque il 9 marzo 1809 a Firenze dal barone Luigi e da Elisabetta Peruzzi, appartenente a una delle più insigni famiglie patrizie fiorentine.
Benché i Ricasoli fossero entrati nel patriziato cittadino di Firenze alla fine del Quattrocento, da allora imparentandosi con le famiglie più illustri della città, la tradizione di nobiltà feudale del casato, fatta risalire al 1187, costituì un elemento fondamentale della coscienza politica di Bettino, che fin da giovane la considerò un obbligo morale e quasi una missione personale.
Orfano del padre nel 1816, Bettino Ricasoli entrò, come tanti altri nobili, nel collegio Cicognini di Prato. Dal 1820 al 1824 frequentò il collegio degli Angeli a Firenze, senza stringere però amicizie durature con collegiali coetanei che lo consideravano troppo aristocratico e quasi misantropo. Dopo aver lasciato il collegio, fu istruito dal precettore Antonio Battarelli, e seguì gli insegnamenti del chimico e botanico Antonio Targioni Tozzetti e dell’entomologo Carlo Passerini. Mostrando grande interesse per le scienze naturali, si costruì nel palazzo gentilizio di Firenze un laboratorio chimico e acquistò nel 1829 una collezione di fossili e di minerali.
L’impegno per il ‘progresso’ tipicamente liberale nel primo Ottocento e il mecenatismo tradizionale della nobiltà fiorentina facilitarono l’inserimento di Ricasoli nell’élite culturale-politica dei moderati fiorentini. Già nel 1834 fu nominato socio dell’Accademia dei Georgofili, dove tenne letture agronomiche molto stimate nell’ambiente dei proprietari riformatori.
L’interesse per il miglioramento della produzione agricola derivò non poco dalla disastrosa situazione patrimoniale della famiglia Ricasoli, che pure era tra i maggiori possidenti terrieri della Toscana. Fin dalla morte del padre i beni del casato erano stati amministrati da tutori, dalla madre Elisabetta e dallo zio Vincenzo Peruzzi, che non erano però in grado di porre rimedio ai problemi finanziari dei Ricasoli. Perciò Ricasoli fu dichiarato maggiorenne già all’età di diciotto anni per decreto granducale, affinché divenisse capofamiglia e amministratore del patrimonio (anche per i suoi fratelli minori Gaetano e Vincenzo). Anche se gli anni dal 1830 al 1833 furono assai difficili, Ricasoli riuscì a fronteggiare il dissesto patrimoniale. Un ruolo importante in questo processo di riordinamento svolse la dote cospicua proveniente nel 1830 dal suo matrimonio con Anna Bonaccorsi (1811-1852), figlia di Filippo, ricco possidente nobile di Tredozio nella Romagna toscana, la cui casata faceva parte anche del patriziato civico di Firenze. Dal matrimonio nacque, nel 1831, la figlia Elisabetta Penelope (detta Bettina).
Nel 1838 Ricasoli decise di trasferirsi con la moglie e la figlia a Brolio, il castello familiare in Chianti che divenne il centro amministrativo della proprietà. La chiusura del palazzo gentilizio a Firenze fece qualche scalpore nell’alta società della capitale toscana, perché Ricasoli motivò la sua decisione – seguendo Jean-Jacques Rousseau – con l’intenzione di educare la figlia in campagna e lontano dalla vita urbana. Tuttavia, il trasferimento fu connesso alla coscienza nobiliare di Ricasoli, perché Brolio, con il suo retaggio feudale, incarnava la tradizione della famiglia, e il lungo soggiorno del barone a Brolio fino al 1847 si configurò come un’«endogamia di luogo e di ceto quasi totale» (Pazzagli, 2010, p. 72). Inoltre, la decisione di vivere in campagna equivaleva a un passaggio «dalla consueta vita di nobile assenteista ad una nuova figura di nobile» (Biagioli, 1980, p. 81), cioè al proprietario-imprenditore agrario che s’impegnava direttamente sulle sue terre.
Ricasoli investì molto capitale e razionalizzò la produzione delle sue fattorie, pur conservando la tradizionale mezzadria. La sua gestione si basò sulla convinzione che il proprietario-imprenditore rappresentasse quasi un «rurale comandante guerresco» (Pischedda, 1956, p. 62) che doveva guidare minuziosamente l’opera dei fattori ed educare i contadini predicando una concezione gerarchica della famiglia e una morale rigida. Con spirito missionario Ricasoli sostenne che il volere del padrone doveva essere sempre il volere interiore e autentico degli stessi contadini, dai quali rivendicò ubbidienza assoluta e affetto. Sorvegliò di persona i lavori agricoli e la vita privata dei contadini, e diresse i fattori con regolamenti, bandi e discorsi. Il ruolo di patriarca corrispondeva al suo carattere rigido e a una condotta di vita molto disciplinata e quasi puritana.
Il governo autoritario e personale esercitato sul microcosmo di Brolio fu una specie di «palestra di iniziazione politica» (Pavone, 1964, p. 151), visto che il barone pretese un ruolo di natural leader nel Chianti e nelle comunità vicine al suo castello e non riuscì a sopportare l’intromissione di funzionari statali oppure di preti nella sua sfera di influenza. L’esperienza di Brolio d’altra parte condizionò il pensiero politico di Ricasoli e il suo liberalismo elitario e autoritario.
Fino al 1847 Ricasoli non manifestò pubblicamente la sua visione politica, preferendo discuterne in privato con gli amici che gli stavano più vicino: con l’abate Raffaello Lambruschini e l’avvocato empolese Vincenzo Salvagnoli che aveva conosciuto durante il congresso degli scienziati di Firenze nel 1841. Nei primi anni Quaranta Ricasoli si avvicinò al movimento nazionale, ma non sostenne una posizione favorevole al neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, perché non accettava l’idea di una confederazione italiana presieduta da un papa investito di potere temporale. Peraltro non aveva opinioni politiche sistematiche, né chiare idee sulla riforma del Granducato di Toscana, non distinguendosi dal concetto moderatissimo di una ‘monarchia consultativa’ che doveva arginare il potere della burocrazia statale, oppure dal programma di una riforma del sistema comunale in favore di un autogoverno locale dei proprietari terrieri.
Solo dopo la crisi del 1846-47, nel marzo del 1847, intervenne con una memoria per il segretario di Stato Francesco Cempini criticando severamente l’inefficienza del governo e chiedendo l’indipendenza dall’Austria come pure una riforma vagamente liberale di carattere municipalista della Toscana.
Con quella presa di posizione Ricasoli non entrò però in contrasto con la dinastia lorenese, e in seguito fu inviato da Leopoldo II alla corte di Torino per intervenire presso Carlo Alberto nella questione di Fivizzano occupata dal Ducato di Modena dopo l’annessione di Lucca al Granducato di Toscana. Compiuta la missione con successo, Ricasoli ottenne la nomina alla carica di gonfaloniere di Firenze (18 gennaio 1848), che interpretò come un ufficio politico in servizio dell’idea nazionale e quasi come una specie di dirigenza liberale del Comune. Non si ritirò neanche dalla direzione del giornale La Patria che aveva fondato nel luglio 1847 insieme ai suoi amici politici Lambruschini e Salvagnoli e che si profilò durante il 1848 come uno dei più influenti organi della corrente moderata. Promosse il programma nazionale di una Confederazione degli Stati italiani che però si sarebbero dovuti evolvere in senso costituzionale. Per questo motivo si recò con Ferdinando Tartini dal granduca per chiedere una costituzione o almeno un Consiglio generale. Il 17 febbraio 1848 fu concessa una costituzione di tipo censitario-liberale che Ricasoli approvò con fervore, pur sostenendo, come tutto il patriziato liberale, che essa dovesse essere integrata da una riforma dell’amministrazione comunale e regionale mirante a costituire un sistema di autogoverno locale dei possidenti terrieri. Aderì inoltre alla richiesta di una guardia civica, intesa come strumento di conservazione dell’ordine sociale. Prese inoltre parte attiva alla vita parlamentare come deputato al Consiglio generale (eletto nel primo collegio di Firenze), intervenendo innanzitutto sulla questione municipale.
Durante la prima guerra d’indipendenza (1848-49) Ricasoli acquistò fama di essere un fautore di Carlo Alberto e del Piemonte, e in effetti criticò severamente il governo moderato diretto da Cosimo Ridolfi per la sua flebile politica nazionale e di guerra. A Ricasoli sembrò poco probabile raggiungere un accordo con papa Pio IX dopo l’Allocuzione del 29 aprile 1848. Dopo le dimissioni di Ridolfi tentò invano di formare un governo e rifiutò la nomina di ministro dell’Interno nel governo di Gino Capponi formatosi all’inizio di agosto e al quale toccò affrontare la crisi nazionale dopo l’armistizio di Salasco (9 agosto 1848) e l’insurrezione democratica di Livorno, del 25 agosto. Costretto alle dimissioni Capponi, che non riuscì a placare la sollevazione labronica, Leopoldo II nominò un ‘governo democratico’ diretto da Giuseppe Montanelli con Francesco Domenico Guerrazzi al dicastero dell’Interno. Ricasoli si dimise subito dall’ufficio di gonfaloniere e si ritirò dalla vita pubblica rifiutando ogni collaborazione con i democratici. A differenza di Salvagnoli, che emigrò a Torino, egli rimase a Firenze anche dopo la fuga di Leopoldo II a Gaeta alla fine di gennaio 1849 per cercare un’occasione di richiamare il granduca a Firenze e di promuovere la restaurazione della monarchia costituzionale. Per questo sostenne il colpo di Stato del Municipio di Firenze che rovesciò il governo democratico l’11 aprile 1849. Ricasoli sperava che si potessero chiamare truppe piemontesi per ristabilire l’ordine a Livorno sempre dominata da forze radicali, ma fu l’armata austriaca a occupare il Granducato nel maggio 1849. Al contrario delle speranze di Ricasoli e di altri patrizi liberali, Leopoldo II non restaurò la monarchia costituzionale dopo il suo ritorno a Firenze, ma perseguì una politica neoassolutista abolendo anche le riforme liberali dell’amministrazione comunale.
Mentre, negli anni Cinquanta, la maggioranza dei moderati credeva in un’imminente conversione nazionale del granduca che avrebbe di nuovo messo in vigore lo Statuto fondamentale, Ricasoli sostenne già nel 1850 che la Toscana doveva unirsi a un altro Stato. Il suo avvicinamento all’unitarismo filopiemontese divenne ancora più chiaro dopo la guerra di Crimea (1853-56), quando Ricasoli progettò una monarchia italiana con la dinastia sabauda e la capitale Roma. Immaginò una rivoluzione nazionale che superasse gli antichi Stati italiani e rendesse possibile la guerra d’indipendenza contro l’Austria nel quadro di una visione autoritaria e illiberale. Ricasoli infatti non escludeva «la dittatura costruttrice di nazionalità» di «un eroe dominatore» (Pischedda, 1956, p. 71) che incarnasse la politica nazionale, creasse l’ordine nuovo e dirigesse il popolo non ancora politicamente maturo per la nuova nazionalità. Era una visione lontana da quella dei nobili moderati, che tuttavia egli non rese pubblica, ma discusse preferibilmente in lettere private con suo fratello Vincenzo. Si ritirò anzi dalla vita politica e nel 1849 partì per un lungo viaggio in Svizzera, dove rimase fino al 1851.
Tornato in Italia, Ricasoli visse una profonda crisi personale dopo la morte di sua moglie e il matrimonio della figlia con Alberto Ricasoli Firidolfi, discendente di uno dei rami principali in cui era diviso da secoli il casato dei Ricasoli. Negli anni a seguire si lanciò in un esperimento di agricoltura nella Maremma, dove tentò di trasformare la tenuta Barbanella in senso capitalista introducendo la grande coltura con lavoratori salariati e l’uso di macchine. Inoltre s’impegnò nel campo dell’enologia per produrre un vino commerciabile sul mercato internazionale. Mentre Ricasoli si concentrava sulle sue iniziative capitalistiche, s’inasprì il conflitto con il governo granducale che aveva sospeso la bonifica della Maremma e che a suo dire non interveniva per impedire furti campestri ormai endemici ed estremamente dannosi per i proprietari.
Quando, alla fine degli anni Cinquanta, riprese il movimento nazionale, Ricasoli aderì al progetto editoriale della Biblioteca civile dell’italiano presso la tipografia Barbèra di Firenze (1857-58). La sua visione unitaria ebbe molto in comune con il programma della Società nazionale, ma Ricasoli volle rimanere indipendente e andò a Torino alla fine del 1858 e nella primavera del 1859 per conferire in prima persona con Camillo Benso di Cavour e capire che cosa ci si aspettasse dalla Toscana. Quando il 27 aprile 1859 a Firenze si svolse la ‘pacifica rivoluzione’ che rovesciò il governo granducale, Ricasoli sostenne il governo provvisorio toscano, composto da Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini e Alessandro Danzini, che resse la Toscana fino all’11 maggio. Il governo propose a Vittorio Emanuele II la dittatura sulla Toscana, ma il re assunse solo un protettorato per la durata della guerra e nominò Carlo Boncompagni suo commissario straordinario. Questi incaricò Ricasoli di formare un governo in cui il barone ebbe un ruolo essenziale e assunse il ministero dell’Interno. Pur stimando i consigli di Boncompagni e di Cavour, egli si mosse in piena indipendenza, ribadendo che la Toscana doveva unirsi al Piemonte, ossia alla nuova Italia, il più presto possibile. La sua convinzione unitaria prese quasi la forma di un credo politico, in cui egli si vide come uomo scelto dalla provvidenza per unire l’ex Granducato all’Italia. In questo disegno il popolo ebbe un ruolo solo secondario, come evidenziò Ricasoli stesso nel luglio 1859 scrivendo al governatore di Livorno: «Non è il popolo che comanderà al Governo; ma il Governo che deve indirizzare il popolo ai migliori destini che possono conseguirsi» (Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di M. Nobili et al., 1939-1980, VIII, p. 329). Su questa linea il governo perseguì una «politica di progressiva integrazione nazionale» (Barsanti, 2014, p. 14) della Toscana volta a convincere, da un lato, le potenze europee e il governo piemontese, dall’altro, i moderati autonomisti ancora esitanti circa la necessità dell’unione, nel contempo intimidendo gli oppositori reazionari. Per avere i consensi della nobiltà liberale Ricasoli mise di nuovo in vigore il regolamento comunale del 1849 che rafforzava il potere locale dei possidenti terrieri. Infine, aumentò il controllo sull’amministrazione centrale mediante un’epurazione degli impiegati fautori della dinastia lorenese.
Dopo la pace preliminare di Villafranca (11 luglio 1859) che prevedeva il ritorno del granduca, Ricasoli organizzò l’elezione di un’Assemblea di rappresentanti (secondo la legge elettorale del 1848) che l’11 agosto dichiarò decaduta la dinastia dei Lorena e optò per l’unione al Piemonte. Dal 29 agosto in poi i ministri toscani iniziarono a governare in nome di Vittorio Emanuele II, «re eletto» (Fruci, 2007, p. 597). Dopo il trattato di Zurigo del 10 novembre 1859, che lasciò aperta la strada a un regno dell’Italia centrale favorito da Napoleone III, Ricasoli propose la nomina del principe Eugenio di Savoia Carignano a commissario straordinario del «re eletto» in Toscana. In seguito alla decisione del principe di Carignano di non accettare in prima persona – volle infatti mandare Boncompagni – Ricasoli si contrappose alla politica nazionale esitante del governo torinese perché l’unione non apparisse una conquista sabauda, ma si svolgesse come un congiungimento di due provincie italiane. La situazione si complicò quando l’imperatore francese e Cavour imposero un plebiscito a suffragio universale maschile alla Toscana, che Ricasoli non ritenne necessario perché il voto di quasi tutti i comuni toscani in favore dell’unione al Piemonte nel luglio 1859 era già stato, a suo avviso, un’adeguata manifestazione di volontà popolare. Nondimeno, il barone dovette accettare il plebiscito, che fu efficacemente preparato. I gonfalonieri e i fattori furono incaricati di sorvegliare e condurre ordinatamente alle urne i contadini, che votarono come la popolazione urbana nella stragrande maggioranza a favore dell’unione della Toscana a un Regno d’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II, respingendo il regno separato. Dopo l’elezione dei rappresentanti toscani al Parlamento nazionale di Torino (25 e 29 marzo 1860), Ricasoli si dimise dalla carica di governatore e divenne semplice deputato.
L’impegno durante la rivoluzione toscana del 1859 gli aveva procurato un immenso prestigio politico, cosicché il re gli offrì la presidenza del Consiglio dopo le dimissioni di Cavour nel marzo 1861. Ricasoli rifiutò, per accettare poi una seconda offerta del sovrano all’indomani della morte di Cavour (6 giugno 1861). Assunse così la presidenza del Consiglio (e il ministero degli Esteri) con ampio consenso nella Camera dei deputati. Il più grande problema della politica interna del suo primo ministero (12 giugno 1861 - 2 marzo 1862) fu la riorganizzazione amministrativa del nuovo Regno. Per affrontare le minacce all’ordine pubblico nel Sud e per facilitare la repressione del brigantaggio, Ricasoli abbandonò la tradizione municipalista dell’autogoverno dei moderati toscani e puntò su un modello accentrato dell’amministrazione imperniato sulla figura del prefetto. I decreti accentratori dell’ottobre 1861 accelerarono l’unificazione, ma provocarono le dimissioni del ministro degli Interni Marco Minghetti, sostenitore di un progetto parzialmente regionalista.
Un secondo problema politico di centrale importanza per il ministero fu la questione di Roma, che Ricasoli intendeva risolvere quanto prima. La sua «ossessione romana» (Bartoccini, 1971, p. 201) era motivata dal fatto che Ricasoli vedeva nella Roma papale un centro politico antiunitario che fomentava la sollevazione meridionale. Inoltre, l’unione di Roma al Regno gli sembrò una questione di onore e di dignità nazionale, perché soltanto quando il re fosse salito al Campidoglio e Roma fosse divenuta capitale dell’Italia unita sarebbe stato contrastato e ridimensionato il ruolo svolto da Giuseppe Garibaldi e dalle forze democratiche nella formazione del nuovo Regno. Per risolvere la questione romana Ricasoli trattò con la Francia sulla base del progetto del ministro degli Esteri Édouard-Antoine de Thouvenel, mentre non escluse di promuovere insurrezioni nello Stato della Chiesa contro il governo pontificio. Il punto cruciale del suo programma fu però una politica ecclesiastica nettamente separatista, sul modello di quella svolta durante il governatorato toscano. Non si trattava solo di un’applicazione della massima cavouriana ‘libera Chiesa in libero Stato’, poiché Ricasoli suggeriva che la Chiesa dovesse purificarsi dal potere temporale con il sostegno dello Stato nazionale. In una lettera del settembre 1861 consigliava addirittura a Pio IX di liberarsi dalle «miserie del regno» per raggiungere una «grandezza nuova» (Lettere e documenti del barone Bettino Ricasoli, a cura di M. Tabarrini - A. Gotti, 1887-1896, VI, p. 158). La lettera fece scandalo nell’opinione pubblica e fu poi definita «un monumento di inopportunità» (Acquarone, 1981, p. 66). A provocare il fallimento del ministero Ricasoli non fu però la lettera al papa, ma «una crisi extraparlamentare provocata dal Sovrano» (Camerani, 1963, p. 182). Oltre a una reciproca incomprensione, il dissenso fra monarca e presidente del Consiglio era dovuto al progetto nazionale del re per il Veneto, che prevedeva un moto danubiano-balcanico, ritenuto fantasioso da Ricasoli, nonché il concetto di monarchia del barone, secondo il quale il re doveva limitarsi a servire la nazione e non uno schieramento politico. In una certa misura, il fallimento del ministero fu provocato anche dal tipo di governo personalistico e poco flessibile di Ricasoli, che aveva scarsa dimestichezza con il funzionamento del sistema parlamentare e non riuscì a organizzare un proprio partito di governo nella Camera dei deputati.
Dopo le sue dimissioni, Ricasoli si ritirò a Brolio, anche se rimase deputato. Assunse di nuovo la presidenza del Consiglio solo all’indomani della guerra del 1866, quando formò un secondo ministero molto moderato a larga base nazionale (20 giugno 1866 - 9 aprile 1867). Nel campo della politica estera si occupò prima di tutto delle trattative dopo la fine della guerra, il cui esito gli sembrò poco dignitoso perché il Regno aveva dovuto subire due sconfitte militari (Custoza e Lissa) e aveva potuto annettere il Veneto solo attraverso la Francia. Perciò fu suo scopo principale quello di contenere l’influenza dell’Impero francese sull’Italia e assicurare l’indipendenza del Regno nel sistema delle relazioni internazionali. Quando poi a metà settembre scoppiò a Palermo una rivolta antigovernativa e antipiemontese, Ricasoli mandò in Sicilia il generale Raffaele Cadorna con truppe regolari che rioccuparono Palermo dopo sanguinosi combattimenti e riuscirono a controllare la città in stato d’assedio. Non fu però la rivolta in Sicilia che mise in crisi il ministero, ma di nuovo un’iniziativa nel campo della politica ecclesiastica. Il progetto di ‘liquidazione dell’asse ecclesiastico’, presentato dai ministri Francesco Borgatti e Antonio Scialoja, fu severamente criticato dagli Uffici della Camera dei deputati. Ricasoli dovette presentare le sue dimissioni, che il re però non accettò, sicché il barone optò per lo scioglimento della Camera e nuove elezioni. Nel nuovo Parlamento Ricasoli non poté appoggiarsi a una maggioranza e presentò le dimissioni di tutto il suo governo.
Pur rimanendo deputato, Ricasoli volutamente non svolse più un ruolo di prim’ordine nella politica nazionale. Quando nel 1871 la Camera si radunò per la prima volta a Roma, rifiutò persino l’onore della presidenza dell’assemblea, pur continuando a farne parte fino all’inizio della XIV legislatura. Negli ultimi anni della sua vita, amareggiati dalla morte della figlia e da una lunga malattia, si ritirò nel castello di Brolio, dove morì il 23 ottobre 1880.
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