Brunelleschi, Betto
Dedicatario del sonetto XCIX delle Rime, secondo l'identificazione data da tre codici del secolo XVI (Vaticano 3214, Bolognese Universitario 1289, Raccolta Bartoliniana). Questa identificazione è comunemente accettata, benché il Contini proponga per Messer Brunetto un Brunetto contemporaneo al B. in questione. Il Pernicone, nella sua edizione delle Rime (Firenze 1969), rifiuta per vari motivi l'eccezione avanzata dal Contini e si attiene all'identificazione tradizionale (v. BRUNELLESCHI, BRUNETTO).
Di antica progenie ghibellina - i B. figurano tra i fideiussori ghibellini nella pace del cardinale Latino - messer Betto si dette ben presto ai guelfi e, come magnate, fu tenuto in gran conto specie nelle ambascerie. Due magnati appunto, messer Corso Donati e messer Betto, erano stati inviati come ambasciatori del comune a Genova per comporre una vertenza sorta tra mercanti fiorentini e genovesi a Nîmes; successivamente il B. era stato podestà di Bergamo nella prima metà del 1298 e il suo peso in città era andato gradualmente crescendo.
La sua ora venne quando, all'ombra di Carlo di Valois e irrimediatamente dopo la sua partenza, la città cadde in balia dei Neri: egli aderì a questa parte e ne divenne uno dei capi.
Da quel momento la città restò in mano di quell'oligarchia di magnati neri al cui vertice erano Corso Donati, Rosso della Tosa, Pazzino de' Pazzi, Geri Spini e lo stesso B.: la loro politica fu estremamente spregiudicata, sia in Firenze dove limitarono di molto il potere delle Arti - delle minori segnatamente - sia in tutta la Toscana, dove forzarono le minori città aderenti alla Lega a seguire gl'interessi egemonici di Firenze e di Parte guelfa. Memori delle buone attitudini diplomatiche di Betto, i suoi complici se ne servirono spesso nelle missioni speciali: a Poggibonsi nel luglio 1304 per esempio, in teoria come paciere, ma in pratica per intimidire quel centro che troppo spesso aveva dato prova di volere tener testa a Firenze e dove il " colpo di stato " dei magnati neri aveva prodotto per reazione una nuova ventata di autonomismo.
Con la morte di Bonifacio VIII e la volontà di Benedetto XI di rappacificare Bianchi e Neri - il che significava ormai togliere il potere ai Neri -, l'oligarchia fiorentina affrontò la sua prima grossa crisi. L'arrivo a Firenze del legato papale cardinale Nicolò, nel marzo 1304, coglieva la stessa Parte nera in preda alle discordie. Il cardinale comunque, raggirato dai Neri, troppo tardi si avvide della loro malafede quando, con l'incendio appiccato da Neri degli Abati e le lotte che ne seguirono, essi gettarono la maschera. L'interdetto piombò sulla città, i capi dei Neri furono citati presso la curia; v'andarono, e messer Betto era tra essi: ma la morte di Benedetto XI verso la fine del luglio 1304 dette loro nuovo respiro.
Col nuovo papa Clemente V e col nuovo legato Napoleone Orsini i pericoli comunque permanevano. Il segretario di quest'ultimo, il celebre minorita Ubertino da Casale, riuscì a convocare a Fucecchio un parlamento che avrebbe dovuto risolvere la situazione in Toscana: a Firenze il Consiglio dei Trecento, il 22 novembre 1307, votò l'invio presso questa assise di quattro ambasciatori, due dei quali erano messer Geri Spini e il B.: quest'episodio è da considerarsi forse il massimo successo politico e diplomatico del B. il quale, guadagnatosi la fiducia del cardinale, riuscì a convincerlo a rimuovere temporaneamente quell'interdetto che, gravando su Firenze, ne ostacolava i traffici. Poi le trattative giunsero a un punto morto, e della pace coi Bianchi non si parlò.
Contemporaneamente si apriva sempre più il solco dell'inimicizia tra i capi di Parte nera: " Fra i Guelfi neri di Firenze, per invidia e per avarizia, un'altra volta nacque grave scandolo " (Compagni, III 19): Corso Donati si sentiva superiore ai suoi complici, e mal sopportava il fatto che essi, nell'ombra, si servissero meglio di lui di quel potere che era stato soprattutto il suo spregiudicato agire a conquistare; inoltre odiava Rosso della Tosa e più tardi anche Pazzino de' Pazzi, che coi della Tosa era imparentato.
La parte che ebbe il B. nella rovina e nella morte di messer Corso non è chiara; certo si era schierato col Pazzi e col della Tosa, ma forse era anch'egli, a sua volta, vittima della catena di sospetti e di rancori che avvolgeva ormai tutti gli oligarchi e che doveva trascinare di lì a poco molti di loro nella spirale del sangue e della vendetta. Già la sua risposta agli ambasciatori dell'imperatore Enrico VII, nel luglio 1310, che " mai per niuno signore i fiorentini inchinarono le corna " (III 35) non era piaciuta ai suoi stessi colleghi di Parte, che gli avevano preferito quella più duttile e guardinga di Ugolino Tornaquinci: e in effetti una tale pesante mancanza di buon senso - e di buon gusto - in un uomo che aveva saputo apprezzare i bei detti del Cavalcanti e aveva saputo trattare con papi e cardinali appare strana e ci spinge a pensare, col Compagni, che in fondo la sua origine ghibellina gli pesasse ancora tanto da spingerlo a mostrarsi più guelfo di quanto la stessa ragione non consentisse. Inoltre dovettero contribuire a ridurre molto la sua popolarità due altri fattori: la sua spregiudicata condotta di profittatore durante la carestia dell'inverno tra 1310 e 1311, quando (costando il grano - dice il Villani - mezzo fiorino d'oro a staio per quanto mischiato a una forte percentuale di saggina) si era rifiutato di vendere finché non si fosse arrivati al prezzo che egli voleva; e inoltre il fatto che aveva tenuto un comportamento assai ambiguo dopo i fatti occorsi alla famiglia Donati, tentando di addossare agli altri suoi complici la disgrazia di Corso.
Comunque, in ciò il suo doppio gioco dovette fallire perché egli rimase vittima del pugnale di alcuni giovani Donati che, penetrati nella sua casa presso Mercato Vecchio, lo sorpresero mentre era immerso nel gioco degli scacchi. Morì dopo lunga agonia, l'8 marzo del 1311, come risulta dall'Obituario di Santa Felicita.
Che i Donati lo ritenessero responsabile della morte del loro eroe familiare risulta dal fatto che, riuscito l'attentato, essi si recarono al monastero di S. Salvi e dissotterrarono il cadavere di messer Corso per inumarlo poi di nuovo con esequie solenni: la vendetta era compiuta, l'anima del ‛ barone ' poteva riposare in pace. Il fatto di sangue fu così grave che nella famosa amnistia del 2 settembre 1311 i figli e i parenti del B. furono esplicitamente esonerati dall'obbligo di rappacificarsi con la famiglia dei suoi uccisori.
Le esequie solenni di Betto dettero luogo a una misera diatriba tra i domenicani di Santa Maria Novella e il clero secolare di Santa Reparata, che se ne disputarono il ricco abito cerimoniale. I postumi di quest'episodio si trascinarono a lungo, e solo nel 1321 si addivenne a una composizione.
Così finì messer Betto, " della cui morte - esclama il Compagni - molti se ne rallegrorono, perché fu pessimo cittadino " (III 39); un parere che suggella un profilo ben diverso da quello del " sottile e intendente cavaliere " affidatoci dal Boccaccio.
Bibl. - Arch. di Stato di Firenze, Diplomatico, Strozziane-Uguccioni, 1280 genn. 18; Piattoli, Codice 106; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Carte Passerini, 215, n. 26, 186 n. 54; D. Compagni, Cronica, a c. di I. Del Lungo (Dino Compagni e la sua Cronica, II, Firenze 1879, 415); G. Villani, Cronica, II, ibid. 1845, 144, 154; S. Ammirato, Istorie Fiorentine, ibid 1647, 191, 226, 237, 244, 248; Davidsohn, Forschungen IV 570; ID., Storia, ad indicem; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 19622, 100.