BRUNELLESCHI, Betto di Brunello
Magnate fiorentino di parte nera, fece parte del gruppo di oligarchi che ressero il Comune di Firenze dall'anno 1301 al 1311.
I Brunelleschi erano di antica progenie ghibellina, e come ghibellino il B. fece la sua prima apparizione sulla scena politica cittadina sottoscrivendo insieme col fratello Vanni la pace del cardinale Latino in qualità di fideiussore per la sua parte per il sesto di porta del duomo in cui i Brunelleschi abitavano. E come ghibellino il B. fu coinvolto nella crisi del suo partito quando, nel 1282, l'alleanza tra magnati guelfi e popolani grassi ruppe il precario equilibrio stabilito dal cardinale e instaurò il priorato delle Arti: troviamo difatti, il 19 ott. 1282, il B. e il fratello Vanni confinati in un appezzamento di terra nel popolo di S. Lorenzo. Il Comune tuttavia aveva bisogno dei milites per motivi di rappresentanza, e d'altra parte l'ascesa politica del popolo determinò un riavvicinamento dei magnati fra di loro al di là delle fazioni: in conseguenza il B. fu reinserito nella vita pubblica. Fu inviato con un grande guelfo, Corso Donati, ambasciatore al Comune di Genova per la composizione di una vertenza sorta tra mercanti genovesi e fiorentini a Nîmes; fu podestà di Padova nel 1295 e di Bergamo nella prima metà del 1298. La sua scelta da parte di quella città lascia pensare che la sua posizione politica si fosse andata in quegli anni modificando, sia pur insensibilmente, dal ghibellinismo al guelfismo. Nel 1297 la fazione guelfa bergamasca dei Colleoni aveva cacciato quella ghibellina e filoviscontea dei Suardo, e quindi il podestà del '98 non avrebbe potuto non essere un guelfo. Ormai il B. aveva individuato i suoi nuovi alleati nei magnati più radicalmente avversi al movimento popolano e più vicini alla Curia pontificia: i della Tosa, gli Spini, i Pazzi, i Donati. Da allora in poi il suo peso in città andò gradatamente crescendo.
Nel periodo politicamente per lui più difficile, tra priorato delle Arti e Ordinamenti di giustizia, egli aveva fatto il possibile per presentarsi come elemento moderato e accetto alle famiglie magnatizie in genere. Nel 1288 aveva aiutato la madre del defunto Iacopo di Cavalcante Cavalcanti in un negozio; nel settembre 1295, cioè un paio di mesi dopo la sconfitta popolana del luglio che aveva aperto un periodo di apparente ed effimera solidarietà fra i magnati, compariva arbitro nel lodo fra due famiglie grandi del sesto di S. Pancrazio, i Cipriani ghibellini e i guelfi Mazzinghi. A quel tempo, evidentemente, non aveva ancor fatto scelte definitive.
La grande ora del B. venne quando, all'ombra di Carlo di Valois e dopo la sua azione, la città cadde in balia dei neri: egli aderì alla parte vittoriosa e ne divenne uno dei capi. Sul suo voltafaccia insiste con acrimonia Dino Compagni, che sottolinea il disinvolto opportunismo delle sue scelte politiche.
Da allora il B. fu uno degli oligarchi di parte nera, che tennero per parecchi anni la città in pugno: erano con lui Rosso della Tosa, Pazzino de' Pazzi, Geri Spini e in disparte Corso Donati, che i colleghi guardavano con inquietudine. La politica di questo gruppo fu estremamente spregiudicata, sia in Firenze dove limitarono di molto il potere delle Arti - segnatamente delle minori - sia in tutta la Toscana dove costrinsero le meno potenti città aderenti alla lega a piegarsi di fronte agli interessi egemonici fiorentini. In questo quadro al B. furono riservate le incombenze diplomatiche, nelle quali egli si sentiva assai versato: come per esempio nella missione a Poggibonsi, in teoria come paciere, in pratica per intimidire quella terra che troppo spesso dava prova di voler tener testa a Firenze e dove il "colpo di stato" dei magnati neri aveva prodotto il contraccolpo d'una ventata di autonomismo.
Tra gli oligarchi molte erano comunque le palesi od occulte discordie: ma in un primo tempo esse furono frenate dalla crisi sopravvenuta nella parte nera con la morte del suo protettore Bonifacio VIII. Il nuovo pontefice Benedetto XI manifestò subito il proposito di pacificare bianchi e neri - il che significava toglier Firenze dalle mani dei neri - e a ristabilire la concordia tendeva appunto la missione del cardinale Niccolò da Prato nel marzo 1304. Questi però, raggirato dai neri, troppo tardi si avvide della loro malafede quando essi, con l'incendio appiccato da Neri degli Abati e le lotte che seguirono, gettarono la maschera. L'interdetto piombò sulla città, i capi dei neri furono citati a comparire dinanzi al papa: v'andarono, e il B. era tra loro; ma la morte di Benedetto XI nel luglio di quell'anno dette loro nuovo respiro.
Nel novembre 1304 troviamo il B. ufficiale alle milizie con Neri Buondelmonti, Cione Magalotti e Vanni Pulci; nel 1306 egli è "sindicus ad Tagliam et Compagnam". Ma compiti ancor più impegnativi lo attendevano: col nuovo legato pontificio Napoleone Orsini, inviato di Clemente V, si riaffacciavano i pericoli della pressione ecclesiastica tendente a pacificare bianchi e neri. Il minorita Ubertino da Casale, segretario dell'Orsini, riuscì a far convocare in Fucecchio un parlamento per risolvere la questione toscana: a Firenze il Consiglio dei trecento votò in data 22 nov. 1307 l'invio a quest'assise di quattro ambasciatori, tra cui Geri Spini e il B. stesso. L'episodio segna il culmine politico e diplomatico della sua carriera, in quanto egli riuscì a guadagnarsi la fiducia del cardinale e a convincerlo a rimuovere l'interdetto contro Firenze. Successivamente le trattative si insabbiarono e della pace con i bianchi si cessò di parlare.
Ma contemporaneamente si allargavano le crepe all'interno dell'equivoca alleanza tra i "padroni" di Firenze: Rosso della Tosa, nonostante la sua tarda età, aspirava al predominio sui suoi complici; Pazzino de' Pazzi, imparentato con i Tosinghi, lo appoggiava, e lo Spini e il B. stavano con lui. Nuovo comune nemico era Corso Donati, che si sentiva superiore a loro e mal sopportava il fatto che essi, nell'ombra, sapessero meglio di lui mantenere il potere che era stata la sua audacia a conquistare. Il Donati cercava quindi dappertutto nuovi proseliti e li trovava fra i grandi scontenti, ma anche tra le famiglie popolane - ad esempio i Bordoni - e tra gli artieri minuti.
Non è chiaro fino a che punto il B. fu direttamente responsabile della rovina e della morte di Corso, né fino a che punto i consorti di quest'ultimo avessero ragione di ritenerlo colpevole. Certo è che il fronte antidonatesco andava dai Brunelleschi ai Pazzi, ai Tosinghi, ai Cavicciuli, e furono essi a restare al potere effettivo. Non si trattava però di un'alleanza monolitica: al suo interno si snodava la catena di sospetti e di rancori che li avrebbe di lì a poco trascinati nella spirale del sangue e della vendetta. La stessa famiglia che pareva la più forte, i della Tosa, era minata dall'avversione fra Rosso e Baschiera.
I primi segni dell'incipiente sfortuna del B. si scorgono proprio nel campo che gli era più congeniale, quello diplomatico, e risalgono al luglio del 1310. Erano giunti a Firenze Luigi di Savoia e Simone Filippi da Pistoia, ambasciatori di Arrigo VII, per chiedere al Comune di cessare la guerra contro Arezzo e di mandare messi a Losanna presso il re. "Risponditore fu fatto per lo Comune messer Brunelleschi, il quale... rispose con parole superbe e disoneste" che "mai per niuno signore i fiorentini inchinarono le corna" (Compagni, III, cap. 35). Quest'arroganza non era piaciuta ai suoi stessi alleati politici, i quali avevano preferito la risposta più duttile e guardinga di Ugolino Tornaquinci: e in effetti una tale mancanza di buon senso - e di buon gusto - in un uomo che aveva saputo, come narra il Boccaccio, apprezzare i fini detti del Cavalcanti ed era riuscito a trattare in momenti difficili con papi e cardinali ci pare strana, e spinge a pensare con Dino Compagni che la sua origine ghibellina gli bruciasse ancora, tanto da spingerlo a mostrarsi più guelfo di quanto la ragione e la prudenza consentissero. Dovettero inoltre contribuire a ridurre la sua popolarità due altri fattori: primo, la sua spregiudicata condotta di profittatore durante la carestia dell'inverno 1310-11 quando (costando, come informa il Villani, il grano mezzo fiorino d'oro a staio per quanto mischiato a una forte percentuale di saggina) si era rifiutato di vendere finché non si fosse giunti al prezzo ch'egli voleva; secondo, il suo comportamento ambiguo nei confronti della famiglia Donati cui aveva tentato di riavvicinarsi addossando agli altri suoi complici l'intera responsabilità della disgrazia di Corso. Brigava nel frattempo anche con quelli dei Cavalcanti che erano rientrati in città nel settembre 1307, cercando forse di riannodare con loro i rapporti amichevoli esistenti prima della scissione in bianchi e neri e soprattutto prima della decapitazione di Masino Cavalcanti (29 genn. 1303), della quale i suoi consorti indicarono il B. come corresponsabile.
Poco gli servì comunque il doppio gioco: sul finire del febbraio 1311 rimase vittima del pugnale di alcuni giovani donateschi che, penetrati nella sua casa presso Mercato Vecchio, lo sorpresero immerso nel gioco degli scacchi; pare che a vibrare i colpi decisivi fosse Pagino di Sinibaldo de' Donati. Spirò dopo una lunga agonia l'8 marzo del 1311, come risulta dall'obituario di S. Reparata, lasciando due figli maschi: Ottaviano, allora podestà di Perugia, e Francesco, nel quale è forse da identificare quel figlio del B. rimasto anonimo nelle fonti che avrebbe contrastato gli aggressori del padre e ne avrebbe ucciso uno.
La fine del B. fu salutata, se dobbiamo credere al Compagni, dalla gioia di molti. Dall'esame della sua attività politica, densa di zone d'ombra e di violenze, emerge senza dubbio un profilo ben diverso da quello del "sottile e intendente cavaliere" tramandatoci dal Boccaccio.
Che i Donati ritenessero quanto meno pesanti le sue responsabilità nella morte di Corso risulta con chiarezza dal fatto che essi, riuscito l'attentato, si erano recati al monastero di San Salvi e avavano dissotterrato le ossa del "barone" per inumarle poi di nuovo con solenni esequie: la vendetta era compiuta, l'anima dell'eroe familiare poteva riposare in pace. Il fatto di sangue fu comunque talmente grave nella coscienza degli stessi contemparanei, pur abituati a considerar questo genere di fatti nell'ordine naturale dei rapporti umani - che nell'amnistia del settembre i figli e parenti del B. furono esplicitamente esentati dall'obbligo di rappacificarsi con gli uccisori di lui. Infatti nel 1312, di gennaio, furono alcuni Brunelleschi ad aiutare Paffiera de' Cavalcanti a uccidere Pazzino de' Pazzi, indiziato come uno dei mandanti dell'attentato al Brunelleschi. Il Pazzi era infatti uno dei più potenti oligarchi e antico alleato del B., dietro la cui morte, quindi, c'era ben altro che la vendetta dei donateschi.
Le esequie solenni del B. dettero luogo a una misera diatriba tra i domenicani di S. Maria Novella e il clero secolare di S. Reparata, che se ne disputarono il ricco abito cerimoniale. I postumi di quest'episodio si trascinarono a lungo e solo nel 1321 sigiunse a una composizione.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Capitoli, XXIX, c.132v; Ibid., Diplomatico,Spedale di S. Matteo, 1288 genn. 8; Ibid., Diplomatico,Strozziane-Uguccioni, 1280 genn. 18; Ibid., Notarile,Matteo di Biliotto, c. 75v; Codice diplomatico dantesco, a cura di R. Piattoli, Firenze 1950, ad Ind.; Firenze, Bibl. Naz. Centr., Carte Passerini, 215 n. 26, 186 n. 54; S. Della Tosa, Annali, in Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della lingua toscana, a cura di D. M. Manni, Firenze 1733, p. 160; G. Villani, Cronica, a cura di F. Gherardi Dragomanni, II, Firenze 1845, passim; La cronica di Dino Compagni..., in Rer. Ital. Script., 2 ediz., IX, 2, a cura di I. Del Lungo, ad Indicem;G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Firenze 1960, II, pp. 171 ss.; S. Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze 1647, pp. 191, 226, 237, 244, 248; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua cronica, II, Firenze 1879, pp. 415 ss.; R. Davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, p. 570; Id., Storia di Firenze, Firenze 1956-1965, ad Indicem;R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al risorgimento d'Italia, II, Firenze 1913, passim;N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 1962, p. 100.