Buonaccorsi, Biagio
Autore di pregevoli liriche di stampo umanistico (poesia amorosa e didattica di carattere morale, liriche d’occasione e canti carnascialeschi) caratterizzate da rielaborazioni di topoi petrarcheschi e improntate di un sentito pessimismo, Biagio di Bonaccorso di Filippo di Biagio Buonaccorsi avrà indubbiamente, sancisce Mario Martelli, «diritto ad un suo, quanto si vuole minuscolo, posto nella storia della cultura italiana» (1971, p. 377). Per gli studiosi di storia fiorentina, la sua assidua e diligente operosità in seno alla cancelleria, l’Impresa di Pisa e soprattutto il Diario rappresentano una fonte storica imprescindibile. Furono tuttavia essenzialmente le sue partecipi lettere a M., intrise di vittimismo, gelosia e rancore, martellate con accenti appassionati e talvolta anche goffi di zelo burocratico e di fedele e orgogliosa amicizia, a procurargli sin dal-l’Ottocento la fama di personalità sbiadita e modesta: una fama se non immeritata, perlomeno da sfumare. Ricordato da Oreste Tommasini (1893-1911, 1° vol., p. 172) per la sua «squisitezza di cuore», B. venne bollato da Pasquale Villari come «mediocre ingegno, ma di animo onesto», autore di preziose notizie «composte quantunque con assai poca arte» (1912-19143, 1° vol., p. 327). A emendare tale fama contribuirono una monografia contenente l’inedito Libro de’ Ricordi (Fachard 1976) e soprattutto il saggio fondamentale di Gennaro Sasso (1980) che traccia un rigoroso ritratto del «buon Biagio» all’ombra di «quel grande» di cui non condivideva la dimensione comica né la visione teatrale, e in mezzo a quel gruppo di funzionari e cittadini impegnati con cui M. «conversava e si misurava, con loro si era formato, e insieme a loro attraversò un preciso, cruciale momento della storia italiana moderna» (Bausi 2005, p. 8). Toccherà infine a Enrico Niccolini (in Diario dall’anno 1498 all’anno 1512 e altri scritti, a cura di E. Niccolini, 1999) fissare in modo definitivo, tramite una rigorosa ed esauriente analisi filologica, la giusta portata dell’opera storica di «frater Blasius» (così la firma della lettera a M., 27 ag. 1512, Lettere, p. 230).
Nato nel 1472, B. ha diligentemente registrato nei Ricordi dati essenziali di cronaca familiare, la gestione patrimoniale complicata da quattro matrimoni, puntuali accenni a missioni extra muros e all’accessoria attività di copista. Il libro si apre sull’annotazione di un primo matrimonio nel 1495 con una nipote di Marsilio Ficino, Alessandra di Daniello Ficino e Marietta Bellacci, da cui nacquero Bonaccorso Romolo nel 1496, Agnola nel 1503 – morta il 9 ag. 1506 «gittata in terra dal muricciuolo di Piero Cappelli da un’altra bambina» (in Fachard 1976, p. 175) – e Filippo nel 1505, morto nel 1509. Da una lettera privata inviata a M. in Francia si viene a sapere della grave malattia della moglie, «lasciata per morta da ogni uno, e se Dio non mi porge la sua grazia, non la troverrete viva. […] Pregate Dio vi dia migliore fortuna che non fa a me, che forse lo merito più di voi» (B. a M., 22 ag. 1510, Lettere, pp. 215-16). Alessandra morì il 16 ottobre 1510, e forse in quell’occasione B. compose la lirica intitolata “Blasii nella morte della Donna” (Fachard 1976, p. 297). Per potere sposare un anno dopo Maddalena di Nerone di Bartolomeo Neroni e Francesca Bellacci, cugina della prima moglie, B. dovette richiedere una dispensa papale ottenuta grazie all’aiuto di Francesco e Piero Soderini, nonché «di altri grandi homini, sendo cosa difficilissima ad obtenere et con spesa grandissima». Da tale unione nacquero nel 1512 Alessandro e nel 1517 una figlia, Agnola Maria, scomparsa una settimana dopo. La terza moglie, Piera di Iacopo Ridolfi e Maria Cambi, morì nel 1522. Lo stesso anno B. sposò Ginevra di Matteo di Niccolaio di Marsilio Vecchietti, che gli diede un figlio nel 1523, Filippo Romolo, «affogato dalla balia nel darli la poppa». L’ultima annotazione sotto la data del 24 gennaio 1525 riguarda la vendita di una vigna; in assenza di una qualsiasi traccia oltre questa data, si è inclini a supporre che B. sia morto poco dopo, forse nel 1526.
I primi accenni all’attività in Palazzo Vecchio segnano l’entrata in cancelleria nell’agosto del 1498 e l’elezione due anni dopo a coadiutore di Marcello Virgilio Adriani, primo cancelliere; in margine, la lapidaria postilla: «A dì 6 di novembre 1512, sendosi rinnovato lo stato, fui casso di cancelleria insieme con Niccolò Machiavelli» (in Fachard 1976, pp. 185, 221, 172, 222). Vengono altresì registrate tre legazioni: alla corte di Luigi XII come segretario degli ambasciatori Francesco Soderini e Lucantonio degli Albizzi dal settembre 1501 al giugno 1502; presso il duca di Mantova Giovanni Gonzaga nel 1503 in quanto cancelliere (missione interrotta il primo giorno a Buomporto da una caduta di cavallo); alla corte pontificia quale segretario di Alessandro Nasi dal settembre 1506 al marzo 1507. Negli anni che seguirono il ritorno dei Medici si viene ancora a sapere che nell’ottobre del 1515 accompagnò Filippo di Filippo Strozzi, oratore presso il re di Francia allora in Lombardia. Non viene menzionato però il soggiorno al campo contro Pisa dal giugno al luglio del 1500.
Scrupolosamente annotata come fonte di reddito appare la vendita di libri copiati, alcuni dei quali oggi risultano irreperibili: sotto la data del 14 settembre 1516 «uno comento in penna di mia mano facto da messer Marsilio Ficino sopra le pìstole di San Paulo, […] uno libretto in quarto foglio coperto di camoscio rosso, scriptovi di mia mano più cose del Beroaldo, […] due libri [...] pieni di cose volgare tucte bellissime» e il «Comento del Conte dalla Mirandola sopra la Canzona di Amore facta da Girolamo Benivieni, scripto di mia mano et coperto di pagonazo». In data 8 e 15 settembre 1520, la vendita del «libro De principatu composto dal Machiavello, scritto da me […]. Et più [Giovanni Gaddi →] ha avuto da me el libro composto dal Machiavello scritto in foglio, che sono 15 quinterni, De re militari» (in Fachard 1976, pp. 211, 161-62, 215). Rilevanti per la storia della composizione dei trattati machiavelliani, tali annotazioni non basterebbero tuttavia per affermare che B. sia «rimasto evidentemente amico al Machiavelli nella sventura» (R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, 19787, p. 501), anche se la cosa pare più che verosimile. Basti citare la lettera a Pandolfo Bellacci che accompagna la sua trascrizione del Principe conservata nella Biblioteca Laurenziana di Firenze (Plut. XLIV 32):
ti mando l’operetta composta nuovamente de principati dal nostro Niccolò Machiavelli, nella quale tu troverrai con somma di lucidità et brevità descripto tutte le qualità de’ principati, tutti e’ modi ad conservarli, tutte le offese di epsi con una exacta notitia delle historie antiche et moderne, et molti altri documenti utilissimi in modo che se tu la leggerai con quella medesima attentione che tu suoi le altre cose, sono certissimo ne trarrai non piccola utilità. Ricevilo adunque con quella prompteza che si ricerca, et preparati acerrimo defensore contro a tutti quelli che per malignità o invidia lo volessino, secondo l’uso di questi tempi, mordere et lacerare (in Fachard 1976, p. 158).
Tre attività dominano la carriera del funzionario: la redazione autonoma o sotto dettatura – parallelamente e contemporaneamente ai cosiddetti Scritti di governo machiavelliani – di più di dodicimila lettere tuttora inedite conservate presso l’Archivio di Stato di Firenze; la stesura currenti calamo e successivamente in bella copia di verbali di consulte; l’integralità della corrispondenza diplomatica durante le legazioni. Riluttante a lasciare Firenze – «in Francia mi lascerò prima impiccare che andare» (B. a M., 5 nov. 1502, Lettere, p. 66) –, B. diviene, «come quello che vedeva tutti gli avisi et le lettere che venivano ad detto Offitio, et così che si scrivevano», nota un copista anonimo del Diario (in Fachard 1976, p. 117), testimone privilegiato e osservatore attento di tutto quanto riguarda la storia di una città indebolita dall’esile protezione del re di Francia e dalla lunga e costosa guerra contro Pisa fino alla riconquista nel 1509.
Vertenti su argomenti e destinatari comuni a quelli dei suoi colleghi, i documenti vergati da B. mostrano da un punto di vista linguistico una compiuta conformità allo stile cancelleresco e, benché non assurgano all’acutezza, all’incisività e alla coloritura della prosa machiavelliana, non sono sprovvisti di sentenze analoghe: «spesso le cose cominciono da uno principio et nel tractarle mutono fine»; lezioni affini di comportamento politico: «el pensare sempre alle cose sue et tenerle di presso giova in tutti ’ tempi, et maxime ne’ suspecti, et chi serva tale ordine spesso fugge grandissimi periculi et lieva li altri da molti disegni» (in Fachard 1976, pp. 35-36); o ancora parole chiave del lessico machiavelliano: prudenza («ogni vostra deliberatione sia ponderata con quella gravità et prudentia richieggono e’ presenti tempi»), diligenza («è necessario che tu usi tanta diligentia che suplisca dove bisognassi più forze») e industria («dove manca le forze, che la industria et lo andare advertito suplisca»). Un posto di rilievo spetta alla fortuna, ora affrontata («le cose erono tanto avanti che non era possibile di non tentare la fortuna»), ora evitata («ricordandovi el non tentare la fortuna né mectervi ad periculo sanza bisognio») – lettera del 19 febbraio 1509 a M. al campo contro Pisa –, ora ancora considerata con diffidenza («andare più cauto et non si fidare tanto della fortuna adciò che in sullo exemplo dello esserli riuscito questa volta non si mectessi per lo advenire in luogo che portassi pericolo di perdersi»). Non di rado emergono pure accenti d’ira nell’intimare amore della patria («tu se’ fiorentino et a te s’aspecta principalmente fare tutto quello che habbi ad essere ad benefitio della città, et sanza respecto, sendovi dentro anchora l’interesse tuo, il che non interviene in uno forestiere») o nel denunciare mancanza di parola e malafede («noi preghiamo, quando altra volta [i Lucchesi] fanno simili querele, confortarli ad non essere peggiori amici a noi che noi siamo a loro, et non prestare manco fede alle opere nostre che alle parole loro», in Fachard 1976, pp. 63-66, 56).
Dell’attività di verbalizzatore danno conto principalmente i registri 69 e 68 della serie archivistica Consulte e pratiche. Il primo, in cui sono raccolti 85 protocolli autografi di B., 16 di altri segretari e 10 di M., solleva la duplice questione della fedeltà di questi testi scritti di getto rispetto all’intervento orale dei consultori e dell’autonomia redazionale dell’amanuense. Il raffronto diretto con il secondo, bella copia del precedente, permette di valutare i rimaneggiamenti portati da B. al proprio testo: maggiore espressività lessicale, attenuazione di giudizi personali o ancora omissione di pareri compromettenti sui Medici. Più significative risultano le correzioni riportate sulle pratiche vergate dal Segretario: il M. «“riscritto” da Buonaccorsi, insomma, è un Machiavelli senza ali e senza sapore, appiattito senza pietà (e, almeno apparentemente, senza motivo) sullo standard del più grigio e anonimo stile di cancelleria» (Bausi 2006, p. 113).
Delle quattro legazioni cui partecipò B. in quanto scriba, indubbiamente più rilevanti, tanto per lo scopo della missione quanto per l’insolito tenore delle lettere, risultano quelle a Pisa e in Francia, mentre le responsive inviate dalla corte pontificia rispecchiano pienamente il contenuto e la forma dei colloqui sollecitati dai Dieci:
perché questa parte è tutta posta in ceremonie, ti ricordiamo tractarla con termini honorevoli et com parole affectuose verso la sua Sanctità, delle quali noi non ti diamo regola né ordine perché lo reputiamo superfluo (in Fachard 1976, p. 264).
La legazione alla corte francese ambiva a riconquistare la fiducia del re nei riguardi di Firenze e negoziare il prezzo della sua protezione. Gli oratori Francesco Soderini e Lucantonio degli Albizzi, cui erano ben note le tergiversazioni e la malafede del monarca, erano attrezzati per neutralizzarle. Allora vescovo di Volterra, Soderini aveva partecipato a una missione in Francia tra il 1495 e il 1497, durante la quale si era intrattenuto con Luigi XII quando era ancora duca di Orléans, per cui gli si rivolgeva con franchezza e semplicità rese con insolita vivacità e naturalezza da Buonaccorsi. Infelice eroe suo malgrado sotto le mura di Pisa l’anno precedente, Lucantonio degli Albizzi verrà poi celebrato nell’Impresa e nei Discorsi III xv 6-8. Accolti con disprezzo e relegati nell’ombra di diplomatici più sfarzosi, gli inviati fiorentini venivano ripetutamente avversati nel loro negoziato da un’ostilità «piena di veleno» (10 dic. 1501, ASF, Sigg. Resp. orig. 21, c. 205r), accompagnata da «scuotere di capo e voltare di colloctola e parte gesti di mani demonstrativi di animo poco amico» (28 dic. 1501, c. 221v; le parole in corsivo sono cifrate). Veniva quindi verificandosi il timore espresso da B. pochi giorni dopo la sua partenza da Firenze, che «la eloquenzia e il procedere sanza fare uno minimo errore et il sapere bene entrare in sulle pratiche ci abbi a giovare poco» (B. a M., 20 sett. 1501, Lettere, p. 41). In balia dell’ozio e degli svaghi di un sovrano che «non vuole alcuna molestia» (5 ott. 1501, ASF, Sigg. Resp. orig. 22, c. 19r), infastiditi da schernevole disprezzo e impazienza – «ci parlò sempre col viso in terra, e benché mostrassi ghignare, le parole e li gesti erano pieni di sdegno» (3 febbr. 1502, ASF, Sigg. Resp. orig. 20, c. 96r; le parole in corsivo sono cifrate) – gli oratori fiorentini subivano una permalosa irascibilità ostentata da pomposa e arrogante perentorietà: «Io non voglio avere a fare nulla con voi, e se quella città mi si donassi io non la accetterei» (15 marzo 1502, Sigg. Resp. orig. 20, c. 140v; le parole in corsivo sono cifrate); «“Ma ditemi un poco, non si potrebbono acconciare le cose vostre ad uno tratto, che sono tra voi sì rotte e sì divise, col rimettere questi Medici?”». Ribattendo per le rime – «Dicemo credavamo che scherzassi» (21 sett. 1501, Sigg. Resp. orig. 21, c. 228rv; le parole in corsivo sono cifrate) –, gli ambasciatori addussero argomenti urtanti a sostegno dell’unità della città nonostante «li cattivi trattamenti fattili dal re Carlo, come lui sapeva», nonché la «paura, pericolo e spesa» in cui li tenne il suo successore. Delitto di lesa maestà a detta del cardinale di Rouen Georges d’Amboise – «“Be’, voi avete a fare con uno re di Francia e non potete disputare come con uno pari vostro”» (9 dic. 1501, Sigg. Resp. orig. 21, c. 206v) –, più incline alla discussione e più propenso al compromesso: «è un altro re e fa ogni cosa, e sanza lui non si fa nulla» (29-30 dic. 1501, Sigg. Resp. orig. 21, c. 232r), scrive B., aggiungendo più tardi: «benché lui non sia corruttibile, si vede pure per esperienzia che si ricorda di chi si ricorda di lui» (16 apr. 1502, ASF, Sigg. Resp. orig. 24, c. 41v). Convinti dell’impossibilità di «mutare questi cervelli né fare miracoli» (1° dic. 1501, Sigg. Resp. orig. 21, c. 295r; le parole in corsivo sono cifrate), gli ambasciatori si rassegneranno, memori della lezione di comportamento politico adeguato alla qualità dei tempi prodigata dal cardinale all’inizio della missione:
sarebbe meglio aprirsi il petto, perché non si viveva oggi come si soleva; perché altra volta era prudenzia andare rattenuto e sopra di sé, ma oggi sarebbe pazia perché bisognava a uno tratto farsi intendere e afferrare li primi partiti, perché ogni dì peggiorerebbono (9 dic. 1501, Sigg. Resp. orig. 21, c. 206v).
In parte cifrate, come si è visto, le circa novanta responsive di mano di B. rispecchiano con vena spontanea e avvincente il tono di colloqui addetti all’esortazione dei Dieci a parlare «ex corde e non per cerimonia» (20 genn. 1502, ASF, Sigg. Miss. Ia Canc., c. 149v). Recano in mezzo a serrate analisi politiche un ricco e colorito florilegio di riflessioni sulla natura dei francesi e anche, singolarmente, argomenti leggeri cui lo spirito faceto di B. potrebbe non essere del tutto estraneo. Si pensi alla riluttanza del monarca a lasciare la corte per curare l’infertilità della moglie – «benché non si spichi volentieri di paese perché ’ medici li persuadono la regina esser disposta ad ingravidare» (21 apr. 1502, Sigg. Resp. orig. 24, c. 69r) –, anticipazione della ritrosia di Nicia a lasciare Firenze per motivi analoghi: «io mi spicco mal volentieri da bomba, […] e, a dirti el vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescono» (Mandragola I ii). Pare difficilmente concepibile che il sussiegoso vescovo di Volterra o il non meno grave Albizzi considerassero necessario menzionare tale particolare e altri più indecorosi ancora riguardanti Anna di Bretagna:
fatto Pasqua, dopo quelli 3 dì il re dormirà con la regina per fare pruova che di nuovo ingravidi, perché questa volta dicono ha gittato una mola la quale si fece sentire a buona ora, come scrivemo altra volta, e li medici danno speranza assai che sarà suta una purgazione per abilitarsi meglo al concetto» (13 marzo 1502, Sigg. Resp. orig. 20, c. 137r).
Superfluo ricordare che senza la pozione fatta di mandragola, secondo il falso medico Callimaco, «la reina di Francia sarebbe sterile» (Mandragola II vi). Si è quindi propensi a congetturare non solo che l’episodio sia farina del sacco di B., ma che venga rivolto a un destinatario individuato a Palazzo Vecchio. Davvero notevole allora risulta la penetrante analisi dei rimedi da porre agli errori commessi da Luigi XII in una lettera inviata dai Dieci il 25 maggio 1502: «A noi pare che la Maestà sua abbi due principali remedi a mantenere le cose sue in Italia: […] non lasciar crescere veruno più che si convenga alla fortuna sua, […] far favore a chi può manco nuocere, e sustentare le parti più deboli per averle più gagliarde e più fedeli a suo proposito», avere a Napoli «tanti inimici e con tante divisioni che non è facile ad iudicare di chi quel Regno sia», lasciare «tutta Romagna suddita al duca Valentinese, […] ingrossare di gente in Italia» ecc. (25 maggio 1502, Sigg. Miss. Ia Canc., cc. 65r-68r). Data l’assai stretta convergenza con gli errori della politica italiana di Luigi XII denunciati nel Principe iii da un lato, e gli stretti legami esistenti tra M., Soderini, Albizzi e B. dall’altro, pare lecito azzardare che la corrispondenza con gli ambasciatori sia stata affidata al Segretario, e che quella missiva l’abbia dettata proprio lui per poi ricordarsene al momento della composizione del Principe. Un peraltro non insolito scambio delle responsabilità in seno ai Dieci potrebbe inoltre venire avvalorato dalla richiesta di licenza vergata da Soderini – «io diversamente ne ho scritto a’ vostri anticessori e a messer Marcello» (8 maggio 1502, Sigg. Resp. orig. 24, c. 154r) –, tanto più che durante gli otto mesi che durò la missione M. redasse soltanto diciannove Scritti di governo, e nessuno durante il mese di maggio quando fu scritta detta lettera. Dovessero le notizie indelicate riguardanti la regina di Francia ritenersi una strizzatina d’occhio all’amico rimasto a Palazzo Vecchio, non solo l’ingerenza di B. nella redazione di documenti ufficiali verrebbe comprovata, ma le lettere verosimilmente dettate da M. a nome dei Dieci riguardanti questa e addirittura altre missioni svoltesi durante quel periodo dovrebbero se non aggiungersi all’esistente corpus di testi di legazioni, perlomeno ritenersi molto affini.
Ispirata direttamente alla propria esperienza quando accompagnò Lucantonio degli Albizzi e Giovanni Battista Ridolfi a Pisa, l’Impresa acquista un carattere di moderata obiettività quando sia letta sulla falsariga delle lettere scritte da Buonaccorsi. Il conciso quadro storico, le ambizioni territoriali di Luigi XII in Lombardia, gli accordi finanziari stipulati con Firenze e la spartizione delle rispettive responsabilità rispecchiano le discussioni delle consulte quando «tutti s’accordavano che si facesse della necessità virtù», tranne il futuro commissario in campo Giovanni Battista Ridolfi, «uomo savio e di grande autorità nella Città» (Impresa fatta da’ Signori Fiorentini..., in Diario, cit., p. 383). Non vengono pienamente riferite, invece, l’ira dei commissari – «Desiderremo, quando ci habbiate ad tenere in su speranze false, più tosto stare in inferno che havere ad maneggiare queste gente» (in Fachard 1976, p. 82) – e la condanna con piglio machiavelliano del frettoloso e incauto interventismo dei responsabili politici:
assai si sarebbe possuto rimediare se questa impresa da principio fussi suta disegniata et proveduta secondo la ragione et non la voluntà, et secondo il potere et non volere: così interviene a chi s’inganna, […] non potendo però credere che la prudentia et la virtù di tanta città non habbia con franco animo ad voltare il viso alla fortuna, aiutandosi per tutti ’ versi che si può (p. 86).
Va rilevata, circa la non agevole questione del-l’autonomia redazionale di B., una singolare coincidenza formale nel registrare in prima persona, a pressoché due anni d’intervallo, le dichiarazioni di Lucantonio degli Albizzi, rimasto solo sotto le mura di Pisa dopo l’improvvisa partenza di Giovanni Battista Ridolfi nel 1500 e ritrovatosi solo a Blois nel 1502 dopo le non meno subite dimissioni di Francesco Soderini. Scrive B. in una lettera del 19 giugno 1500:
Io Giovambaptista credo a omni modo sarò forzato ad tornarmene, perché la doglia della spalla non cessa et sarei perduto ad starci sanza profitto o comodo della città. […] Et io Luca, benché in me per anchora non si dimonstri la indispositione del corpo, ho tale indispositione nello animo che in me presto è per dimonstrarsi accidente, di che saranno malcontente vostre Signorie, et però di gratia somma richieggo la medesima gratia (p. 83).
E scrive il 12 aprile 1502: «A me Vescovo per scrittura fu promesso, e a me Luca a parole certe da stimarle più che la scrittura» (ASF, Sigg. Resp. orig. 25, c. 57r).
E con tono simile viene pure messa agli atti l’abnegazione di Albizzi sia sotto le mura di Pisa – «sono stato inbarcato, truovomi qui, et prima mi mancherà la vita che l’animo» (in Fachard 1976, p. 86) – sia alla corte francese: «ho deliberato che possa in me più il malo esemplo del disubidire che il sommo desiderio del ripatriare, anteponendo la carità publica al commodo privato» (13 maggio 1502, Sigg., Resp. orig., c. 233r).
Al Diario, fedele cronaca circostanziata «delle cose seguìte in quelli tempi spettante non solo alla città, ma ad qualunque altro luogo, così in Italia come fuora, delle quali veniva notitia alli orecchi mia» (lettera dedicatoria all’amico Marco Bellacci, in Fachard 1976, p. 117) dalla morte di Girolamo Savonarola al ritorno dei Medici, si ispirò occasionalmente Francesco Guicciardini, e Iacopo Nardi ne riportò brani interi nelle Istorie della città di Firenze. Enrico Niccolini repertoriò ventuno copie manoscritte dell’opera prima dell’edizione a stampa uscita dai torchi dei Giunta nel 1568, tra cui un’inedita stesura autografa intermedia (Biblioteca Corsiniana, Cors. 320), in cui appaiono dettagli futili o compromettenti omessi poi nella redazione definitiva: per es., circa la morte di Carlo VIII «ad Ambosa di apoplessia stando a vedere giucare alla palla», «lo insatiabile appetito del Papa di dominare Italia», o ancora circa la reazione di Luigi XII alla scomparsa della moglie «morta a Borges, cosa che per molti respecti li fu gratissima» (Diario, cit., pp. 78 e 151). Pure nel Diario trapelano giudizi personali, nonostante la rivendicazione di rigorosa esattezza storica: «dove mancherà l’arte e la diligentia suplirà la verità dalla quale non mi sono in alcuna parte discostato» (Storia fiorentina, in Diario, cit., 1999, p. 73). Si pensi alla spietata diagnosi di Firenze, città «in grandissimi travagli, sanza danari, sanza gente d’arme e non molto unita perché molti cittadini impauriti, chi per un conto e chi per un altro, s’erano fuggiti in diversi luoghi» e «facevano ogni dì nuovi romori con assai pratiche e sanza alcuna conclusione»; alla natura dei veneziani, «sempre soliti guadagnare de’ disordini d’altri»; alla tracotanza di Cesare Borgia: «faceva intendere di nuovo o volere rimettere e Medici o ridurre lo stato in pochi o nettarlo di qualche cattiva erba, che così usava dire»; al «malo animo» di Alessandro VI «contro alla Città, come faceva in tutte le altre cose simili quando voleva offendere uno», o ancora alla politica egemonica di Giulio II: faceva «tutto quello che poteva per inimicarli tutti li principi cristiani e procederli poi contro per ogni via possibile». Molto sobriamente in compenso, e con fredda e trattenuta oggettività, B. descrive il mutamento di governo: «Tornati li Medici in Firenze e non iudicando insieme con li amici loro stare sicuri col modo del governo detto, persuasi di restrignerlo più, deliberorno di far parlamento per virtù del quale el governo si riducessi tutto in man loro e delli amici» (Diario, cit., pp. 252, 224, 252, 247, 334, 364).
Benché non manchino, nell’epistolario machiavelliano, accenni a lettere inviate a B. – «Le vostre lettere a Biagio et alli altri sono a tutti gratissime, e li motti e facezie usate in esse muovono ogni uno a smascellare delle risa, e danno gran piacere» (Bartolomeo Ruffini a M., 23 ott. 1502, Lettere, pp. 57-58), – nessuna di esse ci è pervenuta. Forse gelosamente custodite oppure perdute perché compromettenti, ne recano «qualche odore» (Principe vi 2) tre missive in gran parte cifrate e segnate dall’avvertenza «questa non dice nulla», scritte di mano di M. a nome di Francesco Vettori dalla corte di Massimiliano I durante l’inverno 1507-08 (edite per la prima volta integralmente in LCSG, 6° t., pp. 129-30, 137-38, 155-56). Caratterizzate da una retorica dell’intimità martellata da espressioni plebee e triviali, le quarantadue lettere di B. a M. a noi note vanno dal 19 luglio 1499 («Io vi conforto a tornare più presto potete, ché lo stare costì non fa per voi», p. 14) al 27 agosto 1512, due giorni prima del sacco di Prato: «Adio. Fate quello buono potete, ché il tempo non si perda in pratiche» (p. 230). Palesano con autocommiserazione il proprio stato d’animo, «perdonatemi, ché l’affezione mi fa parlare» (1° nov. 1502, Lettere, p. 63), e recano regolarmente notizie della famiglia di Niccolò. Abbondano notizie riguardanti tensioni in cancelleria, la non agevole collaborazione con Adriani («io sono e da Marcello e da omni uno sbattuto» (27 luglio 1499, Lettere, p. 17) e «quel matto di ser Antonio dalla Valle» (21 febbr. 1509, Lettere, p. 185), e perfino dubbi a proposito della nomina di Piero Soderini a gonfaloniere a vita: «io vi avevo scritto mirabilia, parendomi pure il principio buono, non errerò più, perché mi governerò dì per dì, et anche mi parrà lungo tempo, e più tosto farò ora per ora» (5 nov. 1502, Lettere, p. 66). Non mancano tuttavia, sulla falsariga dello schizzo di Agostino Vespucci – Blasius itidem, praeter id quod te ob talia odit, blatterat, maledictis insectatur, imprecatur ac diris agit, nihil dicit, nihil curat, flocci omnia faciens («Biagio parimenti, oltre al fatto che per queste ragioni ti detesta, sparla, oltreggia, impreca, maledice, e niente dice, di niente si cura, di niente gli importa», A. Vespucci a M., 14 ott. 1502, Lettere, p. 47) – testimonianze di simpatia da parte dei colleghi: «Pure, nella prima cancelleria noi ridiamo spesso e facciamo spesso anche qualche ordinuzzo in casa Biagio» (Andrea del Romolo a M., 23 ag. 1500, Lettere, p. 157). Assumono particolare rilievo invece i ragguagli riguardanti direttamente M.: l’ostilità di alcuni – «bastivi che ci è di maligni cervelli, et a chi dispiace scriviate bene del Volterra et a chi un’altra cosa» (4 dic. 1503, Lettere, p. 94; righe cifrate) e le calunnie di altri: «che per esser nato voi di padre etc., non potete a modo alcuno esercitare lo officio che voi tenete etc.» (28 dic. 1509, Lettere, p. 208). Quanto alle raccomandazioni e alle critiche che B. rivolgeva all’amico – «lo stare 8 dì per volta a venire qua giù vostre lettere non passa con vostro onore, né con molta satisfazione di chi vi mandò; e siate-ne state ripreso da’ Signori e dalli altri, perché, sendo coteste cose della importanzia sono, qui si desidera assai intendere spesso in che grado si truovino» (28 ott. 1502, Lettere, p. 60), «quando scrivete, diciate ogni minimo accidente che segua così costì come in Pisa, perché questi particulari satisfanno et empiono la brigata assai, e sono quelli che vi porteranno in cielo. […] Scrivete ancora qualche volta a’ Nove, perché ogni uno vuole essere dondolato e stimato» (21 febbr. 1509, Lettere, p. 185) – esse vengono giustamente valutate da Gennaro Sasso (1980, p. 210) quale
giudizio alquanto astioso, stizzito, che, sotto l’apparenza di ripetere un’opinione di tutti, esprimeva in realtà il desiderio di insegnare le regole del mestiere a quel segretario geniale che, se non tutti, molti, e non dei meno prudenti, lodavano e apprezzavano.
Bibliografia: Diario de’ successi più importanti Seguiti in italia, et particolarmente in Fiorenza dall’anno 1498 infino all’anno 1512, Firenze 1568; Summario di cose seguite da dì 6 giugno 1498 fino al dì 10 di settembre 1508, in N. Machiavelli, Legazioni, Commissarie, Scritti di Governo, a cura di F. Chiappelli, 4 voll., Roma-Bari 1971-1985; Liriche edite e inedite di Biagio Buonaccorsi, a cura di D. Fachard, «Studi di filologia italiana», 1973, 31, pp. 157-206; Libro de’ Ricordi, in D. Fachard, Biagio Buonaccorsi. Sa vie, son temps, son oeuvre, Bologna 1976, pp. 169-223; Diario dall’anno 1498 all’anno 1512 e altri scritti, a cura di E. Niccolini, Roma 1999 (in partic. Storia Fiorentina dei suoi tempi cioè dall’anno 1498 sino all’anno 1512 di Biagio Buonaccorsi, pp. 71-217; Fatti di Pisa, pp. 368-77; Impresa fatta da’ Signori Fiorentini, con le genti franzese, per espugnare Pisa, capitano monsignore di Belmonte, pp. 379-95; trad. della Tavola di Cebete Tebano, pp. 397-415).
Per gli studi critici si vedano: F.L. Polidori, Avvertimento, premessa a B. Buonaccorsi, Delle cose fatte da Luca di Antonio degli Albizzi e dell’assalto dato a Pisa con le genti francesi nel 1500, «Archivio storico italiano», 1833, 1, 4, 2, pp. 387-400; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nelle relazioni col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1893-1911; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, illustrati con nuovi documenti, 3 voll., Milano 1912-19143; M. Martelli, Preistoria (medicea) di Machiavelli, «Studi di filologia italiana», 1971, 29, pp. 377-405; G. De Caro, Buonaccorsi Biagio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 15° vol., Roma 1972, ad vocem; B. Richardson, A manuscript of Biagio Buonaccorsi, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1974, 36, 3, pp. 589-601; D. Fachard, Biagio Buonaccorsi. Sa vie, son temps, son oeuvre, Bologna 1976; E. Niccolini, Per un’edizione del Diario e di altri scritti di Biagio Buonaccorsi, «Archivio storico italiano», 1983, 141, pp. 195-251; G. Sasso, Biagio Buonaccorsi e Niccolò Machiavelli, «La cultura», 1980, 18, 2-3, pp. 195-222, poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 173-209; F. Blary-Lour, La mission diplomatique de Biagio Buonaccorsi à Pise en 1500, une occasion de découverte et de réflexion, «Italies», 1998, 2, pp. 45-66; F. Bausi, Machiavelli nelle Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, in Machiavelli senza i Medici (1498-1512). Scrittura del potere. Potere della scrittura, Atti del Convegno, Losanna 2004, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2006, pp. 97-116.