SCHIAVO, Biagio
– Nacque a Ospedaletto, nei pressi di Este, l’11 gennaio 1675, da Domenico e da Margherita Righetti.
Studiò all’Università di Padova, dove si laureò nel 1695 in utroque iure; intraprese presto la carriera di insegnante, dapprima nella natia Ospedaletto, presso il collegio di Santa Maria del Tresto, poi, dal 1700, nel seminario di Padova. Ordinato sacerdote nel 1706, fece ritorno a Este, dove istituì un collegio nel quale ricoprì per diversi anni i ruoli di maestro e rettore.
Rimase a lungo ai margini della repubblica letteraria e non manifestò velleità poetiche fino all’incontro – determinante per lui – con Domenico Lazzarini, databile verso la fine degli anni Venti. Lazzarini, docente di eloquenza all’Università di Padova, impegnato in una strenua apologia della letteratura classica, gli trasmise la devozione profonda ed esclusiva per Petrarca, sollecitandolo a comporre sonetti e canzoni che pubblicò a partire dal 1730 in varie antologie e raccolte di occasione, e lo coinvolse, al pari di altri allievi, in accese querelles accademiche.
Entrato a far parte dell’Accademia dei Ricovrati nel 1728, nel 1732 pubblicò il suo primo lavoro critico, una Prefazione alla Retorica d’Aristotele tradotta da Annibale Caro (Venezia 1732, pp. 17-77), in cui criticò le censure al Canzoniere mosse da Lodovico Antonio Muratori nella Perfetta poesia italiana (Modena 1706) e nelle Osservazioni alle Rime di Francesco Petrarca (Modena 1711), facendo rivivere una polemica che aveva avuto corso vent’anni prima, con la Difesa delle tre canzoni degli occhi di Giovanni Bartolomeo Casaregi, Tommaso Canevari e Antonio Tommasi (Lucca 1709), apertamente richiamata dall’autore.
Affidandosi all’indiscutibile principio di autorità, Schiavo polemizzò in modo sferzante con l’audacia dei moderni critici che rilevano difetti in Petrarca e ridicolizzò la nozione di buon gusto, nonché i giudizi estetici di Muratori, considerati il prodotto di una valutazione capricciosa. Il mandante di Schiavo era senza dubbio Lazzarini, contrariato dalle critiche fatte a Caro da Muratori nella sua Vita di Ludovico Castelvetro (Berna [Milano] 1727), al punto da annunciare in una lettera al vignolese del 18 ottobre 1729, pubblicata da Gian Francesco Soli nella Vita del proposto L. A. Muratori (Venezia 1756, p. 79), il progetto di difendere Aristotele, Petrarca e Caro. Per questa ragione Soli ipotizzò che sotto il nome di Schiavo si celasse in prima persona Lazzarini stesso, ma a torto, a parere del nipote, Antonio Lazzarini, il quale riportò la notizia secondo cui il maceratese non aveva approvato il carattere «motteggevole» dello scritto di Schiavo e meditava di rampognare diversamente Muratori, all’interno di un’opera dal titolo Conversazioni di Arquà, mai portata a termine (Vita dell’abate D. Lazzarini, Macerata 1785, p. 86). Di là dalle dichiarazioni di circostanza è chiaro che fu Lazzarini a sollecitare Schiavo, che proseguì la polemica con le Lettere di M. F. Petrarca all’autor della prefazione, premessa alla Rettorica d’Aristotele (Venezia 1733), che si rifacevano a un altro modello critico antimuratoriano, la Lettera difensiva di Antonio Tibaldeo da Ferrara (s.l. 1709) di Girolamo Baruffaldi, in cui si finge che Petrarca, dai Campi Elisi, critichi aspramente un sonetto di Muratori, Quest’alma, cui per tempo ai santi amori, scritto per una monacazione.
Le operette di Schiavo destarono reazioni nella cerchia muratoriana: l’avvocato Jacopo Martinenghi decise di ribattere con la Risposta al libretto intitolato: Lettere di M. F. Petrarca (Venezia 1733), in cui si diceva convinto che Schiavo non avesse scritto una parola dei libretti pubblicati a suo nome, mentre Giovan Gioseffo Felice Orsi compose una Risposta all’incivile critica fatta da alcuni sopra le Osservazioni al Petrarca di L. A. Muratori rimasta manoscritta fino ai giorni nostri (Viola, 2001, pp. 401-417). La diatriba si prolungò oltre la morte dei primi contendenti, tanto che Vincenzo Cavallucci nel 1761 stese una Risposta alla lettera scritta a nome del Petrarca all’autor della Prefazione alla Rettorica d’Aristotile tradotta da A. Caro (Perugia 1761).
Nel frattempo Schiavo continuò a comporre sonetti e canzoni: la raccolta più consistente di sue liriche si trova in un volume celebrativo (Per la gloriosissima incoronazione del serenissimo principe di Venezia L. Pisani, Venezia 1735). Inoltre tradusse due cori dell’Elettra di Sofocle che mancavano nella versione italiana di Lazzarini, pubblicata postuma nelle Poesie del signor abate D. Lazzarini (Venezia 1736, pp. 303-307, 331-333).
Ma è ancora sul versante della polemica letteraria che Schiavo profuse gli sforzi maggiori: nel 1735 comparve a Torino una Scelta di sonetti con varie critiche osservazioni del padre carmelitano Teobaldo Ceva. In questa antologia, che prediligeva, sulla scorta delle posizioni di Muratori, la poesia eroica, sacra e morale a quella di argomento amoroso, venivano pubblicati pochi sonetti di Petrarca e molti più di arcadi contemporanei. Ceva inoltre ridicolizzava apertamente la pretesa di Schiavo secondo cui i trattati di Aristotele e le poesie petrarchesche potessero essere l’unica fonte per l’educazione dei giovani.
Il successo della raccolta, ristampata a Venezia nel 1737, spinse Schiavo a rispondere con un poderoso dialogo in due tomi, il Filalete (I-II, Venezia 1738), nel quale contrapponeva all’accusa di scarsa utilità della lirica petrarchesca, avanzata da Ceva, una rilettura in chiave platonica del Canzoniere, debitrice dell’interpretazione di Francesco Patrizi e di altri neoplatonici cinquecenteschi; inoltre criticava la selezione delle poesie contemporanee, accusate talvolta di secentismo, ribadendo l’esclusività del modello di Petrarca.
Il Filalete fu lodato fra i moderni da Benedetto Croce, il quale apprezzò il superamento di una posizione sensualistica in favore di un intellettualismo neoplatonico giudicato originale per l’epoca.
Nel Settecento l’opera destò una polemica molto accesa, anche in virtù del fatto che venne precocemente riconosciuta l’ingerenza, negli scritti di Schiavo, di Girolamo Tagliazucchi, adirato con Ceva perché costui, nel pubblicare la Scelta, aveva guastato il progetto di creare un’antologia analoga, tesa a completare il dittico della Raccolta di prose e poesie a uso delle Regie Scuole, di cui erano già usciti i primi due tomi dedicati alla prosa (Torino 1734). Nello stesso anno del Filalete furono stampati, in difesa della Scelta, due tomi di Note compendiose raccolte dal bolognese Girolamo Del Buono (Venezia 1738) e poco dopo il Converso del p. Ceva in difesa d’alcuni sonetti del detto padre (Milano 1739), probabilmente dello stesso Ceva, ai quali seguirono le Lettere di Ser Telacocca al molto reverendo padre T. Ceva (Belvedere 1740) scritte da un allievo di Tagliazucchi, Ignazio Somis, in favore di Schiavo. Successivamente il dibattito si spostò nel campo della morale e l’autore del Filalete venne accusato anche di blasfemia, prima nel Dio redentore difeso contro di alcune proposizioni di Filalete (Torino 1740) di Gianfrancesco Ardizzone, quindi nel Dottor B. Schiavo discepolo del Lazzarini convinto di gravissimi errori nel suo Filalete (Milano 1740) di Giovanni Baldanza, e infine nello Schiavo sotto la Sferza (Milano 1741), opera, secondo Francesco Saverio Quadrio, di Giuseppe Maria Quirini. Questi scritti procurarono a Schiavo un’accusa formale all’Inquisizione di Torino; rispose con una Prefazione alle Rime di Madonna Laura di Stefano Colonna (Aquileia 1741), dedicata a Muratori – grazie all’intercessione di Tagliazucchi – nel tentativo di smorzare una controversia in cui numerosi letterati, da Girolamo Tartarotti allo stesso Quadrio, si erano offerti senza successo di fare da pacieri. Nel 1742 Ignazio Gaione, allievo di Ceva, ravvivò per l’ultima volta la polemica con il dialogo Il Dolenanzio (Milano 1742), firmato con lo pseudonimo di Aganio Agizino.
Quella con Ceva non fu l’unica diatriba cui Schiavo prese parte: entrò infatti in polemica con Giovanni Antonio Verdani, che scrisse contro di lui alcuni sonetti denigratori (Nozze Giusti-Cittadella, Padova 1863); con Iacopo Facciolati, di cui aveva satireggiato un sonetto (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Codici Italiani, IX.455/7), e che per ripicca lo fece incarcerare, secondo la notizia data da Giuseppe Baretti (Lettere ad un suo amico di Milano, Venezia 1747, p. 50) e confermata indirettamente nell’epistolario di Egidio Forcellini (Lettere al fratello Marco, Padova 1876, pp. 84 s.); con il sacerdote Domenico Ropelli (Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Correr, 972/20); infine con il conterraneo Paolo Vagenti, autore di Dialogo intorno alla Gerusalemme liberata (Venezia 1737), che Schiavo aveva attaccato con l’anagramma di Agibio Chivaso in un manoscritto Capitolo scherzevole con un dialogo di Buffalmacco e di Mastro Simone.
Trascorse i suoi ultimi anni a Venezia, dove entrò in contatto con gli Accademici Granelleschi, ed ebbe ancora una controversia con Baretti, di cui aveva criticato un sonetto di occasione, rispondendo sarcasticamente per le rime. Baretti fece allora pubblicare tre Lettere ad un suo amico di Milano, dipingendo l’avversario come un ultraclassicista sciocco e pedante.
Morì a Venezia il 24 maggio 1750.
Fonti e Bibl.: F.S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, II, 2, Milano 1742, pp. 68 s.; N.G. Scarabello, Sopra B. S.: lettera d’un estense al direttore, in Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie venete, 1824, vol. 8, pp. 185-192; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, II, Padova 1836, pp. 265-269; L. Piccioni, Beghe accademiche, in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D’Ancona..., Firenze 1901, pp. 499-513; B. Croce, Un devoto del Petrarca nel Settecento: B. S. e i suoi concetti di estetica e di critica, in La Critica, XLII (1944), pp. 80-90; E. Sala di Felice, Petrarca in Arcadia, Palermo 1959, pp. 65-81; C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto, Verona 2001; Id., Canoni d’Arcadia, Pisa 2009, pp. 155-170.