DESIMONI, Bianca
Nacque a Milano il 21 ott. 1800 da Carlo, ufficiale napoleonico morto prematuramente, e da Anna Opizzi.
Trascorse con la madre, in ristrettezze economiche, gli anni della prima giovinezza, animati da un'intensa religiosità e da letture appassionate, capaci talora di segnarle profondamente l'animo: in età matura avrebbe ricordato, ad esempio, la commozione da cui fu presa un giorno leggendo alcune pagine di G. Filangieri sui diritti conculcati dei ceti più miseri.
Sposatasi in giovane età con il genovese Lazzaro Rebizzo, uomo ricco, eccentrico e generoso, lo seguì in ripetuti viaggi in Francia ed in Germania. Dal 1833 abitò con lui a Venezia, città molto amata dalla D. e dove strinse amicizia duratura con D. Manin e con la sorella di lui, Ernesta Viezzoli. Nel 1835 i coniugi Rebizzo si stabilirono a Genova, quando Lazzaro già s'era messo in cattiva luce, per le sue idee politiche, presso le autorità del Lombardo-Veneto ed anche presso quelle piemontesi. A Genova, in piazza della Maddalena, fissarono la loro dimora definitiva, salvo qualche breve soggiorno a Parigi.
Nel capoluogo ligure i Rebizzo si legarono al giovane Raffaele Rubattino e con lui iniziarono un ménage à trois cementato dai comuni interessi politici e finanziari dei due uomini, ma soprattutto dal lungo amore tra la D. e Raffaele. La casa di piazza della Maddalena, dove anche Rubattino andò ad abitare, divenne presto sede di un prestigioso salotto letterario, trasmigrato nel 1847 a palazzo Doria in strada Nuova, dove i Rebizzo e Raffaele si trasferirono per esser più vicini agli amici Giorgio e Teresa Doria, e, nel 1858, a palazzo Pallavicini in via Carlo Felice, o nella splendida villa di San Vito alla Foce acquistata dal Rubattino.
Nel salotto, di cui la D. con la sua grazia ed il suo spirito fu animatrice indiscussa, si avvicendarono personalità artistiche di rilievo come Paganini, Mercadante, Aleardi, N. Barabino e tanti altri di minor levatura. Ma la casa della "signora Bianca" fu soprattutto, prima e dopo il 1848, un punto di incontro per patrioti di varie tendenze: genovesi come L. Pareto, V. Ricci e G. Boccardo; o esuli politici come il geografo F. C. Marmocchi ed il conte I. Sanvitale. Nel 1846-47 vi entrarono G. Mameli e N. Bixio, poi vi fu accolto T. Mamiani che tornava in Italia dopo il lungo esilio parigino. Sempre nel 1846 il salotto fu particolarmente attivo in occasione dell'ottavo congresso degli scienziati italiani, svoltosi appunto a Genova; e l'anno dopo gli habitués furono alla testa delle celebrazioni patriottiche per il centenario della rivolta antiaustriaca di Genova.Nel 1848, durante i mesi del ministero Balbo e della guerra, con molto tatto e discrezione la D. fu portavoce di molti amici genovesi presso V. Ricci, allora ministro dell'Interno. Personalmente ella si mostrò favorevole ad una politica di unità nazionale e di fusione sotto lo scettro di Carlo Alberto, persuasa da un lato che questa fosse la via per uscire dalla "grettezza dei governi municipali" e per dare all'Italia dignità di grande potenza. "L'Italia unita - scriveva al Ricci (cfr. Donaver pp. 38) - "sarà la più grande e la più potente fra le nazioni del mondo, per conseguire questo gran fatto non si deve lasciar nulla di intentato, mai si presenterà al nostro paese un'epoca come questa"; e convinta d'altro lato che solo così si sarebbe ottenuto di far "sparire per sempre il partito repubblicano". Anche l'appoggio dato a V. Gioberti, al quale la D. organizzò una trionfale accoglienza a Genova nel maggio 1848, tendeva al medesimo scopo: "bene che si riceva con solennità il rappresentante dell'idea d'ordine e unione, ora che i rappresentanti le idee repubblicane hanno il dissotto" (ibid., p. 40).
In quegli anni la D., con Teresa Doria, creò comitati di soccorso ai volontari e ai coscritti e raccolse fondi a favore degli esuli. E in seguito non cessò di interessarsi alla politica: con coraggio quando occorreva, come nel 1857, allorché con un gesto audace salvò Mazzini braccato dalla polizia; più spesso con quel ritegno che la induceva a scusarsi "di mischiare me femmina in cose di tant'indagine". Tuttavia non fu mai la politica in senso stretto la passione della sua vita, bensì l'attività di educatrice.
Poco dopo il suo arrivo a Genova aveva cominciato ad adoperarsi per introdurre in quella città gli "asili della povera infanzia" ed aveva iniziato col filantropo Giacomo Cevasco un apostolato da "visitatrice dei poveri", per persuadere i genitori a mandare i figli agli asili: nei quali essa scorgeva un mezzo non solo per educare i bambini, ma anche per accostare le classi agiate a quelle più miserabili, per innescare una sorta di reciproco perfezionamento tra benefattore e beneficato, per evitare tensioni sociali: "Il povero, consolato con affetto, si acquieta alla legge delle ineguaglianze sociali volute da provvidenziale consiglio".
In seguito, nel nuovo clima politico ed ideale che andava maturando in Italia e del quale la D. era così partecipe, ella passò dal generico interesse per la beneficenza all'attenta considerazione per i problemi relativi all'educazione femminile. Persuasa che "nelle donne, generalmente considerate, è racchiuso un tesoro di virtù alle quali la niuna o la cattiva educazione impedisce il dar frutto", concepì l'idea di "adunare quel maggior numero di fanciulle che per me si potesse: adunarle in un convitto, consacrato alla educazione femminile intesa tutta nell'acquisto di quel morale e intellettuale perfezionamento che, sublimando la missione della donna, riuscisse a renderla paga di sé, atta ad educare se stessa per educare altri in modo consentaneo alle mutate condizioni del civile consorzio".
Verso la realizzazione del convitto la D. si mosse sul piano teorico e su quello pratico. Scrisse il programma per la fondazione d'un collegio destinato alle giovinette di buona famiglia, compose un Regolamento generale degli studi nel Collegio italiano delle fanciulle in Genova: prevedeva di accogliere bambine tra i sei ed i dodici anni per un insegnamento articolato in quattro anni di corso, nei quali eran materie fondamentali la religione, l'italiano, la calligrafia, l'aritmetica applicata all'economia domestica, i rudimenti di geografia, storia, geometria, scienze naturali; materie complementari erano le lingue straniere, il disegno, la musica, la ginnastica, il ballo. Non ci si proponeva nulla di rivoluzionario, non si metteva in discussione il ruolo subalterno e casalingo della donna. "Il regno della donna" -sosteneva la D. - "è a famiglia e la casa; ove se ne diparta mal può in giovinezza serbare la grazia, serbare negli anni maturi la dignità"; ma in questo non faceva che uniformarsi alla cultura italiana dell'epoca, ivi compresa in linea di massima quella progressista, anche se espressa dalle donne stesse: com'era il caso della 'giobertiana' C. Franceschi Ferrucci, che della D. fu ispiratrice e collaboratrice.
All'inizio del 1850, vincendo numerosi ostacoli, la D. riuscì a dar corpo alle proprie aspirazioni con l'apertura a Genova del collegio delle fanciulle, noto come Istituto delle peschiere per le belle fontane che ornavano la sua sede, il palazzo Pallavicini sovrastante l'Acquasola.
"Dopo molti giorni di ondeggiamento" - scriveva il 16 giugno 1850 - "finalmente il palazzo delle Peschiere si può dir nostro. Se vi ricordate quel monumento immaginerete di qual tesoro d'aria, di colori e di luce godranno le nostre alunne". I risultati, dopo alcune traversie iniziali, parvero confortanti e la D. ne scriveva agli amici con entusiasmo: "Il collegio e un miracolo d'ordine e di allegria... spero che daremo alla patria donne istruite, semplici nel vestire e nei modi e soprattutto gelose custodi dei lor doveri". Da Parigi D. Manin, al quale s'era rivolta perché le procurasse buone insegnanti di francese, la lodava e la incoraggiava: "Niun dubbio che la vera e durevole rigenerazione italiana debba prepararsi con la educazione, e segnatamente con la educazione della donna. E però la risoluzione vostra è nobile e sapiente; e se messa in atto acconciamente costì ed altrove, non può non riuscire di grande giovamento alla patria nostra diletta". Da Torino F. Aporti scriveva alla sua "egregia Bianchina" parole lusinghiere; la regina Maria Adelaide e l'ex regina dei Francesi Maria Amalia, vedova di Luigi Filippo, visitavano la scuola; l'arcivescovo di Genova, monsignor A. Charvaz, le accordava la propria protezione.
L'esperienza delle Peschiere si interruppe in capo ad una decina d'anni: "per colpa di avversi tempi", scriveva nel 1868 l'amico G. B. Giuliani. Aveva comunque rappresentato un "nobile e raro esempio", suscitando energie e sviluppando dibattiti, creando un terreno fecondo per altre iniziative: come la pubblicazione, a partire dall'agosto 1855, del periodico La Donna, uno dei migliori nel suo genere apparsi durante il Risorgimento.
Nell'ultima parte della sua esistenza la D., libera ormai dalle cure del collegio, si dedicò alla composizione di pensieri e dialoghi per l'istruzione delle fanciulle: scritti nei quali, come spesso accade anche nelle lettere, è espressa con forza la fiducia nella fondamentale bontà della natura umana, che per gli errori degli individui e per l'imperfezione delle istituzioni si offusca e viene meno, ma può sempre essere riportata in luce con il perdono, la carità, l'amore attivo per il prossimo. E si manifesta una religiosità tollerante, affettuosa, positiva ("Di Dio, o mie figliuole, vorrei ispirarvi l'amore, non il terrore"), poco curante di sottigliezze teologiche o filosofiche, lucidamente e realisticamente ottimista, premurosa del prossimo più debole e sfortunato; però sempre contraria alle ideologie radicali, a quella "crudele filosofia che priva gli sventurati del più efficace conforto, la fede".
Nel 1867 cominciò ad avere seri problemi di salute; ma nella primavera del 1868 se ne andò a Firenze, dove le feste del matrimonio tra Umberto e Margherita le offrirono una lieta occasione di incontrare tante vecchie conoscenze. Nell'ottobre del 1869, mentre si trovava nella villa di San Vito a festeggiarvi il sessantanovesimo compleanno, fu colta da malore e morì la sera del 29. A. Aleardi ne pianse la scomparsa, lo scultore G. B. Cevasco la ritrasse in un busto che il Municipio di Genova fece collocare in una sala dell'asilo infantile di S. Luigi.
Fonti e Bibl.: Genova, Istituto Mazziniano, Carte Rebizzo; ibid., Documenti riguardanti il Collegio ital. delle fanciulle in Genova; B. Rebizzo, Ricordi e pensieri, a cura di A. Crocco, Genova 1876; F. Donaver, Lettere di B. Rebizzo a V. Ricci, in Giorn. stor. e lett. della Liguria, I (1900), pp. 30-42; R. V. Foà, Un lembo di vita di Goffredo Mameli, in G. Mameli e i suoi tempi, Venezia s.d., pp. 354-359, 363-369; G. Giovannini Magonio, Italiane benemerite del Risorg. nazionale, Milano 1907, pp. 79-96; A. Neri, Catal. del Museo del Risorg., Milano 1915, I, pp. 66, 193; II, p. 195; U. Villa, Dalla signora B., in La Liguria illustrata, III (1915), pp. 97-107; F. Ruffini, La giovinezza di Cavour, I, Torino 1937, p. 230; A. Codignola, Rubattino, Bologna 1938, pp. 4, 6, 10, 35-39, 43, 45, 132, 478, 542; L. Balestreri, Scorci di vita genovese nel Risorgimento. Il salotto di B. Rebizzo, in Atti dell'Accad. ligure di scienze e lettere, XIII (1956), pp. 160-174; E. Garin, La questione femminile, in Belfagor, XVII (1962), p. 23; B. Montale, Genova nel Risorg., Savona 1979, pp. 49, 57, 63, 80; F. Della Peruta, Il giornalismo it. dal 1847 all'Unità, in A. Galante Garrone-F. Della Peruta, La stampa it. del Risorg., Bari 1979, pp. 541 s.