GUIDETTI SERRA, Bianca
Nacque a Torino il 19 agosto 1919, primogenita di Carlo, avvocato e di Clotilde Toretta.
Le origini della famiglia erano modeste. Il nonno materno era un falegname torinese; quello paterno un piccolo proprietario terriero dell’Alessandrino emigrato in Argentina; la madre faceva la sarta. A far ascendere la famiglia al livello della media borghesia fu il padre che al ritorno da Buenos Aires si laureò in Giurisprudenza e si mise ad esercitare la professione di avvocato. Nei pochi accenni che Guidetti Serra dedicò alla figura paterna nella sua autobiografia è messo in evidenza l’influsso culturale che ebbe su di lei e su Carla, la sorella più piccola che scelse di compiere studi artistici, diplomandosi all’Accademia di belle arti dove fu allieva del pittore Felice Casorati. A lei invece trasmise il capitale culturale rappresentato dalla professione di avvocato. Rimasta orfana del padre nel 1938 all’età di diciannove anni, in quello stesso anno conseguì la maturità classica e si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, compiendo una scelta inconsueta per il tempo. Nel 1936 le iscritte a Giurisprudenza erano il 3,1% del complesso degli iscritti, mentre il censimento generale della popolazione del 1931 registrava lo 0,6% di donne che svolgevano la professione di avvocato e di procuratori su un totale di 27.951 esercenti. La liberalizzazione dell’accesso delle donne all’avvocatura decretata nel 1919 era stata seguita durante il fascismo da una nuova chiusura. Le poche donne che imboccavano gli studi giuridici e le pochissime che si avventuravano nell’esercizio della professione legale avevano alle spalle reti familiari composte da padri, fratelli o mariti che garantivano poi la possibilità di lavorare all’interno di studi legali. Per Bianca il sostegno paterno non poté andare oltre il condizionamento del suo immaginario. La perdita del capofamiglia, che era un avvocato conosciuto ma non ricco, cambiò la vita delle tre donne. Le loro entrate si ridussero drasticamente, tanto che la madre si rimise a fare la sarta e Bianca trovò impiego come assistente sociale presso le industrie del Torinese per conto dell’Unione industriale. Il contatto con la realtà di fabbrica e i problemi sociali che a essa erano collegati suscitò in lei un interesse nei confronti dell’universo operaio che non venne mai meno e che esercitò un forte influsso sulle sue scelte politiche e sulla futura professione.
Nonostante le difficoltà conseguì la laurea nel 1943, con una tesi dedicata al senso morale dei minori, preparata intervistando quaranta detenuti dell'istituto di correzione Ferrante Aporti e, per costruire un confronto, altrettanti studenti del famoso liceo classico D'Azeglio.
Guidetti Serra appartenne a quella generazione di avvocati militanti europei che gravitavano nell’area della sinistra e che formarono la loro coscienza politica durante la seconda guerra mondiale. La lotta contro il nazifascismo fu decisiva nei confronti del loro orientamento politico e condizionò le modalità di esercizio della professione forense dopo la guerra.
Aderì al Partito comunista (allora PCd'I) prima di entrare nella Resistenza e non viceversa, come invece accadde ad altri avvocati militanti italiani e non. L’incontro con un aderente al PCd'I e la scelta di aderire all'organizzazione, infatti, avvenne davanti ai cancelli della FIAT nel marzo 1943, nel corso dei grandi scioperi operai che diedero una spallata decisiva alla crisi finale del regime. Alla caduta del fascismo lavorò alla formazione dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà, nei quali la lotta per la riconquista collettiva della libertà si univa alla rivendicazione dei diritti delle donne, esperienza destinata anch'essa a influenzarla lungamente.
Dotata di una personalità spiccatamente indipendente, già in questi anni fu capace di grandi gesti di autonomia.
Nel 1938 aveva conosciuto Alberto Salmoni, divenuto suo marito nel maggio 1945, che la introdusse nel milieu intellettuale ebraico, dove intrecciò amicizie di lunga data come quella con Primo Levi. Al pari di molti altri ebrei torinesi, Salmoni era vicino al gruppo di Giustizia e Libertà, nelle cui fila compì la sua esperienza resistenziale. Non poteva condividire, dunque, la scelta di Bianca di aderire al PCd'I, ma lei non si fece influenzare e restò una militante comunista fino a quando maturò le ragioni per allontanarsi dal partito.
La Resistenza e i Gruppi di difesa costituirono una scelta di campo politica, dalla parte delle donne e in difesa dei loro diritti. Un femminismo concreto, quello di Guidetti Serra, non ideologico, basato su battaglie puntuali, su esperienze di vita vissuta, a cui restò sempre fedele. Donne, operaie, compagne: soggetti deboli perché provviste di meno diritti ma forti nella solidarietà e nelle lotte, a cui tributò gli onori raccogliendone le memorie della lotta partigiana. Compagne, due volumi di interviste (Torino 1977) che raccontano in modo diretto o indiretto le storia di quarantanove donne in gran parte operaie, militanti e antifasciste che parteciparono alla lotta di liberazione anche al prezzo della loro vita, sono un documento eloquente del segno lasciato sull’avvocata da un’esperienza resistenziale vissuta al femminile. È significativo che ad essa ritornasse negli anni Settanta per cercare nel ricordo di quella Resistenza l’aiuto per comprendere il presente e per superarne le difficoltà, ma anche per il bisogno di riannodare la memoria delle donne della generazione precedente al nuovo femminismo.
Alla fine della guerra proseguì il suo impegno nell’Unione donne italiane (UDI), in cui confluirono i Gruppi di difesa degli anni della Resistenza. Lavorò anche presso la Camera del lavoro di Torino, dove fu responsabile della commissione femminile, si occupò del sindacato dei tessili ed era impiegata presso l’Ufficio legale.
Il ruolo di funzionaria del sindacato le andava stretto e dopo aver superato nel 1947 l’esame da procuratore legale (che all’epoca era il primo scoglio da affrontare per diventare, dopo sei anni di esercizio professionale, avvocato), iniziò a far pratica presso lo studio di un legale comunista. Nel 1951 si mise in proprio, ricevendo i clienti in casa seduta alla scrivania che era stata di suo padre. Decise che si sarebbe dedicata al diritto penale. Si trattava di un'altra scelta ardimentosa fatta in un’epoca nella quale le avvocate continuavano a essere delle mosche bianche (nel 1951 erano l’1,2% su 29.924 esercenti), costrette ad affrontare i pregiudizi dei colleghi e dei giudici, che negli anni Cinquanta costituivano una casta chiusa e totalmente maschile (l’ingresso delle donne nella magistratura fu autorizzato nel 1963). Le poche donne che esercitavano l’avvocatura si occupavano prevalentemente di diritto di famiglia, ritenuto più confacente per il ‘sesso debole’. Anche Bianca Guidetti Serra si cimentò in questa specializzazione spendendosi in difesa delle donne e dei minori, ma il suo campo privilegiato fu il diritto penale. Come avvocato penalista predilesse le cause che le consentivano di difendere i diritti dei soggetti che per la loro collocazione sociale ne erano privi o ne venivano facilmente espropriati: i diritti degli operai in fabbrica, i diritti delle donne e dei minori, i diritti dei carcerati a una reclusione umana, i diritti di coloro che protestavano contro le ingiustizie del sistema, infine, il diritto fondamentale in un ordinamento democratico ad avere una difesa e un giusto processo.
Dagli anni Sessanta, quando stava affermandosi come avvocata, il suo nome fu legato a casi giudiziari che rappresentarono dei punti di svolta nella storia italiana del Novecento. I processi che ne scaturirono cambiarono, indipendentemente dall’esito, l’opinione pubblica. Si impegnò a fondo prima o dopo la loro celebrazione perché diventassero degli affaires attorno ai quali costruire delle arene di discussione collettiva capaci di denunciare le ingiustizie e sollecitare l’emanazione di provvedimenti legislativi in grado di porvi rimedio.
Dei bambini si era occupata dai tempi in cui faceva parte della Commissione provinciale di assistenza del Partito comunista torinese che la mise a contatto con l’infanzia abbandonata. Nel 1962 fondò assieme a Francesco Santanera l’ANFAA (Associazione nazionale famiglie adottive e affilianti), in difesa dei diritti del bambino e per l’equiparazione tra famiglie adottive e famiglie naturali. All’epoca, infatti, l’adozione non recideva il legame con i genitori biologici che, nonostante li avessero abbandonati, potevano sempre rivendicare un diritto sui figli adottati mettendo a rischio la loro stabilità. L’ANFAA elaborò un progetto di legge che si affiancò ad altre iniziative parlamentari; si creò un fronte comune che nel 1967 riuscì ad ottenere la legge che dichiarava lo stato di adottabilità con la conseguente rottura con i genitori biologici nei casi di conclamato abbandono e consentiva l’adozione, con eguali diritti, anche in presenza di figli naturali della coppia. La lotta a sostegno dei minori abbandonati mise l’ANFAA a contatto con gli istituti di assistenza che li custodivano, un universo che nascondeva inauditi maltrattamenti e soprusi. Guidetti Serra patrocinò la nascita di una nuova associazione, l’Unione contro l’emarginazione sociale (UCES), volta a infrangere il muro di silenzio che copriva gli abusi. Grazie all’UCES potè costituirsi nei processi come parte civile in rappresentanza dei familiari dei bambini maltrattati. L’Istituto Maria Assunta in Cielo di Prato, retta dai padri celestini, fu l’emblema di un sistema nel quale la corruzione e lo sfruttamento degli assistiti si univano a forme di sadismo tali da arrivare all’omicidio. Un ‘paese’, non un caso isolato, che l’avvocata raccontò in un libro in cui è raccolta la documentazione più significativa dei processi a cui partecipò (Il paese dei celestini. Istituti di assistenza sotto processo, a cura di B. Guidetti Serra - F. Santanera, Torino 1973).
Come altre avvocate militanti europee, anche Guidetti Serra fu coinvolta in uno dei temi più scottanti che contrassegnarono negli anni Sessanta e Settanta il percorso di emancipazione delle donne, ossia il diritto di porre fine a una gravidanza indesiderata. In Francia il processo istruito nel 1972 contro Marie-Claire Chevalier vide schierate famosissime avvocate femministe come Gisèle Halimi e ancor più famose intellettuali come Simone de Beauvoir e si trasformò in un atto d’accusa contro la criminalizzazione dell’aborto. In Italia il procedimento giudiziario istruito nei confronti di Gigliola Pierobon fu celebrato a Padova nel 1973 in un contesto ostile e chiuso al riconoscimento dei diritti della donna sul suo corpo. A differenza di quanto accadde in Francia, esso non divenne un vero affaire malgrado la presenza di gruppi femministi dentro e fuori dal tribunale; fu comunque l’inizio della campagna a favore della legalizzazione dell’aborto conclusasi con l’emanazione della legge del 1978. Guidetti Serra accettò di difendere, assieme all’avvocato Vincenzo Todesco, Gigliola Pierobon imputata, quando era già sposata e con figli, di essersi procurata da minorenne un aborto clandestino. I due avvocati tentarono una linea di difesa innovativa, ispirata a quanto stava accadendo in Francia. Essi chiesero nella sostanza ai giudici di accettare l’esistenza di una nuova maturità che si era fatta strada in seno alla società. Nonostante gli sforzi della difesa Pierobon, a differenza della Chevalier, fu condannata. Ma si trattò di una condanna simbolica, successivamente annullata dal perdono giudiziale.
Nel processo alla banda Cavallero iniziato nel 1967, Guidetti Serra difese Adriano Rovoletto, uno dei quattro banditi che avevano seminato il terrore nella Milano degli anni Sessanta. I capi d’accusa che gravavano sugli imputati erano tali per cui l’esito era scontato. Ma fu proprio l’ergastolo con cui si concluse il processo a prefigurare una nuova forma di impegno militante per l’avvocata torinese che aveva sfidato l’opinione pubblica benpensante difendendo un bandito e che aveva cercato di comprendere le motivazioni ideologiche di chi si richiamava al mito della Resistenza traducendolo in atti di banditismo contro una società in cui non si riconosceva. Rimasta in contatto con gli ex membri della banda che erano in carcere, decise assieme a loro di coinvolgere altri ergastolani dopo il fallimento del referendum del 1981 sull’abrogazione della pena carceraria a vita, la voce dei quali non si era fatta sentire durante la campagna referendaria. Per due anni raccolse storie e testimonianze dei condannati; il materiale le fu rubato e alla perdita supplirono due lunghe interviste fatte a Sante Nortarnicola e Pietro Cavallero pubblicate, assieme a stralci del carteggio tra l’avvocata e gli ex membri della banda, in un saggio del 1994 (La banda Cavallero all’ergastolo, in Storie di giustizia, ingiustizia, galera, a cura di B. Guidetti Serra, Milano 1994, pp. 41-81).
Allargatasi nel frattempo la famiglia con l'arrivo del figlio Fabrizio, nel 1960, Bianca Guidetti Serra si occupò negli anni successivi molto di operai e alcuni dei processi che la videro in prima fila rappresentarono dei punti di svolta nella storia di Torino e dell’intero Paese. Il primo fu il processo per i fatti di piazza Statuto. Il 2 luglio 1962 gli operai della FIAT infransero il silenzio in cui il clima repressivo degli anni Cinquanta li aveva costretti, per protestare contro l’accordo contrattuale separato firmato dalla UIL e dal ‘sindacato giallo’ SIDA (Sindacato italiano dell’automobile). Nei disordini che ne scaturirono vi era tutta la rabbia degli operai, molti dei quali meridionali, contro le condizioni lavorative e ambientali che li opprimevano. L’arena rappresentata dal tribunale e l’azione indefessa svolta dai difensori consentirono che le loro ragioni divenissero di pubblico dominio.
Nel processo per le schedature FIAT svolse un ruolo di primo piano sia nella costruzione di un’opinione pubblica informata sui gravissimi fatti, sia nella decisione dei sindacati che rappresentavano i lavoratori della fabbrica torinese di costituirsi come parte civile in difesa dei loro diritti di libertà (politica sindacale, religiosa e della sfera privata) che erano stati violati in modo inaudito. Lo scandalo scoppiò nel 1970, quando un dipendente licenziato intentò causa alla FIAT e rivelò al pretore che il vero compito che aveva svolto dal 1953 era consistito nel raccogliere informazioni sui dipendenti dell’azienda e su coloro che ambivano a diventarlo, con l’aiuto di poliziotti, carabinieri, preti e spie interne. Assieme alla sentenza emessa nel 1971, il pretore emise un’ordinanza di sequestro dei documenti custoditi nell’archivio dell’azienda. La scoperta fu sconvolgente: migliaia di schede, piene di dati sensibili erano state compilate dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, nonostante lo Statuto dei lavoratori, appena emanato, vietasse la raccolta di informazioni di natura politica, sindacale e religiosa. L’azione penale, avviata dopo il rinvenimento del materiale incriminato, incontrò subito degli ostacoli: i vertici della magistratura decisero infatti che le condizioni ambientali non permettevano al processo di essere celebrato a Torino e ne decisero il trasferimento a Napoli. Una cortina di silenzio calò sul procedimento giudiziario e Guidetti Serra si adoperò per ottenere il maggior numero di informazioni. Quando seppe che la prima udienza era stata fissata a Napoli per il 19 gennaio 1976, convinse i sindacati a costituirsi come parte civile. Per un anno e mezzo fece la spola tra Napoli e Torino, sperimentando sulla propria pelle cosa significasse per un avvocato il trasferimento di un processo ad altra sede per legittima suspicione, metodo usato in altri famosi casi giudiziari come la strage di piazza Fontana o il disastro del Vajont. Il processo per le schedature FIAT si chiuse con trentasette condanne, cancellate in appello perché sopraggiunta la prescrizione. Ma era uno di quei processi che meritavano di essere celebrati al di là del risultato perché rappresentavano dei «momenti di verità» (Le schedature FIAT. Cronache di un processo e altre cronache, Torino 1984, p. 3), attraverso cui l’opinione pubblica aveva scoperto il sistema di controllo sociale che la FIAT aveva applicato alle sue fabbriche ed esteso alla stessa città di Torino. È significativo che Einaudi, l’editore di Guidetti Serra, si fosse opposto alla sua decisione di intitolare Le schedature Fiat il volume in cui raccontava la vicenda corredandola dei documenti più significativi relativi all’affaire. Il libro fu poi pubblicato con il titolo incriminato da un altro editore.
La fabbrica spia e la fabbrica della morte furono due aspetti di una medesima realtà che l’avvocata ebbe modo di indagare a fondo in tutta la sua tragicità, svolgendo anche nel campo della tutela della salute sul lavoro il ruolo di pioniera. Il nuovo clima di consapevolezza dei diritti diffusosi negli anni Settanta aiutò a infrangere il muro di silenzio che aveva occultato fino ad allora le morti dei lavoratori, dei loro familiari e degli abitanti dei luoghi dove venivano riversati i rifiuti industriali. Le prime denunce arrivarono nel 1972, quando fu evidente che anche i corsi d’acqua dell’area di Ciriè, vicino a Torino, erano stati contaminati dagli scarichi dell’IPCA (Industria Piemontese dei Colori di Anilina). Anche in questo caso persuase il sindacato a costituirsi come parte civile accanto alle parti lese. Il processo all’IPCA, iniziato nel 1977, rappresentò un evento epocale perché si concluse con la condanna di quattro dirigenti e di un medico di fabbrica, ai quali fu riconosciuta per la prima volta la responsabilità di aver provocato le malattie che avevano colpito i lavoratori. Sempre in veste di rappresentante di parte civile per conto del sindacato, partecipò anche alle prime fasi del processo contro la fabbrica Eternit di Casale Monferrato, tristemente famosa per aver causato centinaia di morti tra i lavoratori, i loro familiari e la cittadinanza con la sua produzione di amianto, i cui effetti cancerogeni erano noti da tempo ai vertici dell’azienda ma che – come accadde in casi simili – erano stati tenuti nascosti. Fu anche promotrice, come prima firmataria in Parlamento, della legge di messa al bando dell’amianto tuttora in vigore.
La partecipazione ai processi contro i crimini connessi all’ambiente e alla salute fecero di Bianca Guidetti Serra un’avvocata à part entière. Ma il terreno più difficile e rischioso, che mise più duramente alla prova la sua di vocazione militante, fu quello dei processi istruiti negli anni Settanta e Ottanta contro gli aderenti alle organizzazioni armate di estrema sinistra. Appartenne a quel ristretto gruppo di avvocati riuniti nei collettivi politici giuridici che si fecero carico della difesa di tutti coloro che furono denunciati per aver partecipato alle lotte che dal 1967 al 1971-72 interessarono la società in nome di un mutamento radicale del sistema di potere dominante. Spendendosi in un’attività frenetica svolta nei tribunali di tutta l’Italia, l’avvocata fu testimone dei fermenti e delle istanze di cambiamento di quegli anni. Difese esponenti del movimento studentesco, operai in lotta nelle fabbriche, detenuti che si ribellavano contro la disumanità del regime carcerario, braccianti e contadini calabresi che avevano occupato terre incolte, obiettori di coscienza che rifiutavano la leva obbligatoria, militanti di Lotta continua, Potere operaio e altri gruppi della sinistra extraparlamentare, accusati di cospirazione politica e associazione a delinquere. Molte delle istanze portate avanti da quei giovani erano parte della cultura e sensibilità dell’avvocata torinese, che intravide in loro gli eredi della stagione politica a cui essa aveva partecipato. Ma questa solidarietà con le istanze di protesta e di cambiamento che animarono i ‘Sessantottini’ venne meno quando il conflitto sociale si radicalizzò e alcuni gruppi spostarono il livello dello scontro sul piano della lotta armata
Ricostruendo la memoria di quegli anni dichiarò di aver colto in ritardo i segni del mutamento in atto che pure erano sotto i sui occhi. Difensore di un imputato di omicidio nel processo contro il gruppo genovese XXII ottobre, celebrato nel 1972, non capì di trovarsi di fronte a un primo tentativo di organizzazione militare. Quando vennero istruiti i primi processi contro i gruppi armati di estrema sinistra, l’avvocata torinese continuò a essere cercata come difensore grazie alla fama che si era conquistata durante il Sessantotto negli ambienti della sinistra extraparlamentare. In una delle pagine più coinvolgenti della sua autobiografia si soffermò sul dilemma dell’avvocato, chiamato a difendere in un processo politico imputati di fatti in «profondo e radicale dissenso» (Bianca la rossa, Torino 2009, p. 198) con l’etica e le convinzioni politiche che gli appartengono. E raccontò di averlo risolto decidendo di non sottrarsi al suo compito di difensore schierandosi, in quel drammatico contesto, a tutela del diritto alla difesa, che la Costituzione (art. 24) riconosce a ogni tipo di imputato. Fu una scelta difficile e per nulla scontata. Molti avvocati che avevano difeso i militanti del Sessantotto si defilarono e il gruppo di coloro che a livello nazionale accettarono di rappresentare in giudizio imputati di reati connessi al terrorismo si ridusse drasticamente. Guidetti Serra partecipò a numerosi processi attenendosi a una linea di condotta rigorosa che si era data e che si basava su alcuni punti fermi: scegliere caso per caso; fare una difesa tecnica e non politica; non lasciarsi imporre dall’assistito la linea di difesa, che in questi casi era generalmente quella dell’organizzazione di appartenenza, pena lo scioglimento del mandato. La sua fermezza la mise al di sopra di ogni sospetto e la preservò dalla sorte che toccò ad altri avvocati, denunciati dai pentiti e divenuti a loro volta imputati perché ritenuti colpevoli di connivenza con i brigatisti quando non addirittura di partecipazione a banda armata.
Anche in questa fase drammatica della storia d’Italia e della sua professione non venne meno alla sua vocazione di storica. Si deva a lei la prima e insuperata ricostruzione del processo ai capi storici delle Brigate Rosse (Il ruolo dell’avvocato attraverso la cronaca di un processo, I-II, in Quaderni piacentini, XVII (1978), nn. 67-68, pp. 49-74; ivi, n. 79, pp. 49-68), iniziato nel 1976 e interrotto più volte a causa degli omicidi commessi dagli esponenti delle Brigate rosse rimaste a piede libero, tra cui quello di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino che in tale funzione, per consentire lo svolgimento del processo di fronte al rifiuto della difesa da parte degli imputati, aveva accettato la nomina a capo della formale difesa d’ufficio. Del nuovo collegio di difesa che si costituì senza esitazioni dopo il suo assassinio faceva parte anche Guidetti Serra. In quel processo furono rovesciate tutte le regole procedurali. I capi storici delle Brigate rosse, ispiratisi alle teorie del Fronte di liberazione nazionale algerino, intesero usare il processo come uno strumento di guerra. Ricusarono i loro avvocati e pretesero di difendersi da soli per ribaltare il loro ruolo di accusati in quello di accusatori dello Stato. La questione dell’autodifesa, non prevista dall’ordinamento giuridico, aveva risvolti costituzionali complessi. Fu risolta nella pratica dando la parola agli imputati e concedendo loro anche la possibilità di fare domande ai testimoni. I difensori d’ufficio restarono in aula a vigilare sul regolare svolgimento del processo restando impassibili davanti alle provocazioni degli imputati. Al termine del dibattimento non pronunciarono alcuna arringa, ma stilarono una memoria che ripercorreva le posizioni da loro assunte durante il suo svolgimento. Il testo fu letto ad alta voce dal presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi, Gian Vittorio Gabri, che aveva preso il posto di Croce. Alla fine egli lesse i nomi dei firmatari e ad uno ad uno i venti difensori d’ufficio si alzarono in piedi a simboleggiare con quel gesto solenne il fatto di restare, ancorché ricusati, i rappresentanti dei diritti degli imputati.
Gli avvocati militanti hanno intessuto una pluralità di rapporti con la politica, a seconda dei paesi e dei periodi storici in cui operavano. Dove vi era un forte Partito comunista, molti furono organici ad esso, seguendone le direttive quando si trattava di svolgere il ruolo di difensore in processi di tipo politico. Fino a che restò iscritta, Bianca Guidetti Serra ebbe con il PCI una relazione improntata a un criticismo crescente mano a mano che l’apparato si centralizzava e verticalizzava a discapito della democrazia interna. L’invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS fu la goccia che fece traboccare un vaso già colmo. Non rinnovò più la tessera e divenne una ‘militante senza partito’. La rottura con il PCI fu dolorosissima perché significò tagliare i ponti con una parte importante della sua storia politica e personale, ma non comportò da parte sua un abbandono definitivo della politica istituzionalizzata, a cui tornò alla soglia della vecchiaia. Nel 1985 entrò nel consiglio comunale di Torino eletta come indipendente nelle liste di Democrazia proletaria; due anni dopo si dimise perché fu eletta nella stessa lista come deputato. Restò alla Camera dei deputati dal 1987 al 1990: insofferente del clima di Montecitorio e dello spreco di tempo e di energie che la carica comportava commisurato agli scarsi risultati concreti che si ottenevano. Tornò nel 1990 in consiglio comunale a Torino come indipendente del Partito democratico della sinistra e vi restò fino al 1999, prima all’opposizione (fino al 1993), poi a sostegno della giunta guidata da Valentino Castellani. La relazione inquieta che ebbe con i partiti politici è per molti versi la conferma che il modo di fare politica a lei più confacente fu l’esercizio della professione forense, nel qual profuse impegno e passione dentro e fuori i tribunali.
Bianca Guidetti Serra è un perfetto esempio di ‘intellettuale specifico’, definizione coniata nel 1971 da Michel Foucault per indicare quell’intellettuale che esplica il suo impegno nel sociale ed esprime la sua politicizzazione mettendo al servizio delle lotte per il cambiamento della società la competenza professionale di cui è depositario in quanto medico, avvocato, insegnante, architetto ecc.
L’attività processuale che la impegnò per più di cinquant’anni definisce in modo esemplare il profilo dell’avvocato militante e della sua evoluzione mano a mano che mutavano le urgenze, le ingiustizie, le discriminazioni all’interno della società italiana e si aprivano nuovi fronti di lotta.
Fu in una parola un avvocato militante che privilegiò di svolgere le funzioni di rappresentazione e di difesa all’interno di processi politici. Questa definizione non è presente nei codici e tuttavia, come affermò Guidetti Serra, essa «indica con chiarezza tutte quelle cause in cui sono in gioco motivazioni ideologiche, civili e sociali» (B. Guidetti Serra con S. Mobiglia, Bianca la rossa, Torino 2009, p.198). Come altri avvocati europei e statunitensi che nella seconda metà del Novecento scelsero questa via, lottò in prima persona perché si realizzasse quel mutamento sociale, culturale e legislativo che avrebbe consentito l’ampliamento della sfera dei diritti e la loro estensione a categorie sempre più numerose di cittadini. Grazie alla sua professione essa ricoprì il duplice ruolo di attore e di testimone delle trasformazioni avvenute nell’Italia repubblicana.
Il valore aggiunto che la contraddistinse rispetto al modello più diffuso di avvocato militante sta nel fatto di essere stata un’intellettuale che ha intrecciato l’attività forense a quella culturale.
Fondatrice e animatrice di istituzioni culturali quali il Centro studi Piero Gobetti di Torino (a cui ha lasciato in deposito il suo archivio), compì attraverso la scrittura un’opera straordinaria di conservazione della memoria dei soggetti che difese come avvocato e delle battaglie che combatté nei tribunali e nella società perché a tutti fosse riconosciuto, per usare un’espressione di Stefano Rodotà, «il diritto di avere diritti» (Rodotà, 2015). Vi è però una differenza fondamentale tra l’avvocata torinese e i giuristi che, come Rodotà, furono ugualmente impegnati su questo fronte. Costoro usarono come arma il saggio, non solamente quello di stampo accademico rivolto agli specialisti, ma anche in versione semplificata e più comunicativa perché destinata al grande pubblico. Guidetti Serra privilegiò invece come forma di testimonianza e di lotta la storia degli individui incontrati nel corso della sua vita professionale e delle sue esperienze politiche e che attraverso la narrazione riscattò dall’oblio. La sua vocazione di avvocata militante trovò così l’espressione più compiuta nel racconto di casi giudiziari, di imputati, di battaglie condotte per denunciare ingiustizie e soprusi, pubblicando fonti giudiziarie prima che venissero sepolte negli archivi, interviste, carteggi e altri materiali di grande interesse per gli storici.
Bianca Guidetti Serra continuò ad esercitare l’avvocatura fino al 2001.
Morì il 24 giugno 2014 all’età di novantacinque anni.
G. Manzini, B. G. S. L’avvocato, in La mia professione, a cura di C. Stajano, Roma-Bari 1986, pp. 101-125; A. Cammelli - A. di Francia, Studenti, università, professioni:1861-1993, in Storia d’Italia, Annali 10, I professionisti, a cura di M. Malatesta, Torino 1996, pp. 7-77; F. Tacchi, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, Torino 2009, ad indic.; M. Malatesta, Défenses militantes. Avocats et violence politique dans l’Italie des années 1970 et 1980, in Le Mouvement social, 2012, n. 240, pp. 85-103; L. Perini, Il corpo del reato. Parigi 1972-Padova 1973: storia di due processi per aborto, Bologna 2014; S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma- Bari 2015; M. Malatesta, Avvocati militanti. Francia e Italia nel XX secolo, in Contemporanea, 2016, n. 4, pp. 565-597.
Foto: Centro studi Piero Gobetti. Archivio BGS, Bianca Guidetti Serra nel suo studio, anni '80, f. 618