Bianco e nero
Il b. e n., che è stato per circa quattro decenni una semplice mancanza dovuta a una tecnologia imperfetta, rientra in quella "deviazione dalla concezione visiva primaria" nella quale Rudolf Arnheim (Film as art, 1959; trad. it. 1983², p. 14) individuava invece la possibilità di spazio artistico del cinema. Nelle teorie del cinema, formaliste e realiste, sviluppatesi a partire dagli anni Trenta, il b. e n. non rappresenta un problema in sé, né sul piano estetico, né su quello della percezione: è piuttosto dato per scontato, divenendo materia di dibattito solo con l'avvento del colore, ovvero con il suo perfezionamento tecnico-industriale. Per quanto riguarda il problema delle copie tinted del cinema muto, ossia delle sequenze virate in colore, si dovrebbe in realtà parlare di monocromie piuttosto che di b. e n.: proprio queste copie, peraltro, si rivelano poco più di una curiosità, spesso offuscante, davanti alla 'intensità' e leggibilità del b. e n. 'naturale', alla sua intrinseca qualità di asciuttezza e di 'aderenza alla realtà', e nello stesso tempo alla sua magia.Per lo stesso Arnheim "l'accettazione di un mondo in bianco e nero" si spiega con "il fenomeno dell'illusione parziale" (Film as art, 1959; trad. it. 1983², p. 54) cui si è soggetti al cinema come a teatro, ossia con il fatto che ci si cala nella rappresentazione mantenendosi però sulla soglia di coscienza, la quale, complici il luogo e la situazione di immobilità del nostro corpo, permette di distinguere la finzione dall'accadimento reale. Non solo: nello spettatore avverrebbe una 'compensazione inconscia', quella stessa per cui nella realtà non vengono registrati nella loro interezza i cambiamenti di prospettiva che riguardano ogni oggetto esteso in profondità proprio perché li si compensa inconsciamente. Nei suoi scritti teorici Sergej M. Ejzenštejn si spinge oltre, rovesciando il problema, facendo cioè non dello spettatore ma del cinema stesso il soggetto della compensazione: per lui il colore materializza una 'tendenza' o un 'bisogno' espressivo già presenti e in qualche modo manifestati dal cinema in bianco e nero. I colori hanno avuto comunque una funzione essenziale nella composizione dell'immagine in b. e n., in quanto la luce 'attecchisce' diversamente su un giallo o su un verde: "anche nel bianco e nero ho sempre cercato di distinguere [...] il mare dal cielo, o un blu da un rosso [...]. Cercavo di ottenere questa separazione non solo con la luce ma con gli effetti cromatici" (Giuseppe Rotunno, in "Positif", 226, avril 1983, intervista, cit. in R. Prédal, Le photo de cinéma, 1985, p. 68).
Le teorie più recenti insistono sulla funzione costruttiva più che ricettiva dell'occhio, e dunque sulla cruciale differenza fra percezione naturale e percezione cinematografica. Il b. e n. rappresenta uno dei segni più evidenti di questa artificialità e, sulla scorta degli scritti di U. Eco, secondo il quale il cinema, lungi dall'essere uno specchio della realtà, è un linguaggio convenzionale, ossia un mezzo di rappresentazione, un codice, si può dire che il b. e n. è a sua volta un codice, un aspetto della convenzione, oppure delle tracce lasciate dalla realtà sulla celluloide, stando alla definizione che André Bazin dà della 'materia prima' del cinema. In ogni caso il b. e n. trasfigura la realtà, la stilizza, la rende evidente per sottrazione. E può esasperarne il grigiore o mitizzarla fino a renderla fantasmatica: come accade per i volti degli attori che, disincarnati, diventano pure linee, concentrati d'espressione.
Nell'immagine in b. e n. le variazioni tonali sono provocate dall'azione combinata della luce con la scenografia e i costumi. La luce, dando per scontato nel nostro discorso che nulla è totalmente scindibile dal tutto, ha le funzioni determinanti di formare la scala dei grigi e di separare gli oggetti fra loro e dal fondo. Sul piano estetico, invece, dà volume e plasticità agli oggetti, divide lo spazio, scandisce il tempo (il giorno e la notte). La mancanza di colore è compensata da chiaroscuri, flou, aloni, silhouette, ombre, raggi obliqui, riflessi, sfondi luminosi. Sullo schermo, figure e oggetti in controluce, tende e persiane che vengono aperte per svelare l'ambiente o le facce, candele e lampade che scavano nel buio, ombre che si avvicinano, diventano presto dei topoi, modi di espressione e di visione, e, in altre parole, mezzo di narrazione. La luce, quindi, è portatrice di senso, veicolo privilegiato di emozioni: dunque il suo uso dipende dal tipo di rappresentazione. Il cinema comico sembra richiedere una scala di grigi non troppo contrastata, ossia luci diffuse, adatte ai campi medi e ai totali, in modo che siano sempre visibili i movimenti e la mimica dei personaggi dentro l'ambiente, e sia sempre 'chiara' la situazione. I grigi sono dosati anche in funzione psicologica: il chiarore è di per sé tranquillizzante, e l'oscurità, quando c'è, piuttosto che a generare ansia serve a far nascere le gag e gli equivoci. Sono notti tenui in cui si deve vedere tutto, come quella del tentato suicidio in City lights di Charlie Chaplin (1931; Luci della città): mentre il lieto fine, l'incontro-agnizione con la giovane fioraia, è immerso nel rasserenante chiarore del mattino. Nella rappresentazione drammatica, invece, la luce detta le atmosfere e mette in immagini i contrasti, li asseconda, li sottolinea. Nei film che seguono la tradizione del romanzo psicologico dell'Ottocento, il paesaggio e gli ambienti rispecchiano gli stati d'animo dei personaggi; oppure più modernamente li isolano per contrasto, facendo della luce un elemento essenziale della messa in scena anche negli esterni dal vero (dove peraltro la luce naturale è quasi sempre 'aiutata' dalla luce artificiale). Già il cinema muto, alla ricerca di tutte le possibili variazioni, arriva a impadronirsi del sole del deserto (Greed, 1924, Rapacità, di Eric von Stroheim), dei boschi che filtrano i raggi del sole (Sunrise, 1927, Aurora, di Friedrich W. Murnau), del plenilunio che cade sui ciliegi in fiore (The wedding march, 1926, Sinfonia nuziale, ancora di Stroheim), della nebbia (The lodger ‒ A story of the London fog, 1926, Il pensionante ‒ Una storia della nebbia di Londra, di Alfred Hitchcock). Un significativo leitmotiv è il bianco della neve e delle grandi distese di ghiaccio (Way down east, 1920, Agonia sui ghiacci, di David W. Griffith; Die Bergkatze, 1921, Lo scoiattolo, di Ernst Lubitsch; Nanook of the North, 1922, Nanuk l'eschimese, di Robert J. Flaherty; The gold rush, 1925, La febbre dell'oro, di Chaplin; Flesh and the devil, 1927, La carne e il diavolo, di Clarence Brown). Il realismo di queste immagini, anche quando erano ricostruite in studio (il che accadeva almeno per le inquadrature di raccordo), deve molto all'abilità dei direttori della fotografia. All'inizio del cinema la scuola prevalente era del resto proprio quella realistica. I capi-operatori, oltre che dall'esperienza dei documentari (l'americano Flaherty, l'inglese John Grierson), venivano soprattutto dai cinegiornali: come Billy Bitzer che, primo reporter a usare la luce artificiale per una ripresa in esterni, un incontro di boxe (1899), divenne 'maestro delle riprese' di Griffith, e, dal 1908 al 1924, plasmò personaggi, ambienti e paesaggi nei più diversi toni emozionali ed epici voluti dal regista; come Eduard K. Tissé, che dai reportage sulla Prima guerra mondiale e sulla Rivoluzione russa passò, al fianco di S.M. Ejzenštejn, alla plasticità e agli scorci e chiaroscuri violenti di Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) e di Oktjabr′ (1927; Ottobre); come l'uomo della Kinopravda, o cine-verità, Dziga Vertov, primo grande operatore-regista. In questa prospettiva vanno ricordati anche i grandi fotografi italiani, come Aldo Tonti, che aveva iniziato come operatore nelle corrispondenze del cinegiornale Fox-Movietone e che collaborò con Luchino Visconti alla rivoluzione realista di Ossessione (1943), con i suoi interni dai forti chiaroscuri e i suoi paesaggi grigi; e Otello Martelli, che fu l'operatore di Roberto Rossellini in Paisà (1946), ma che, già negli anni Venti, era stato a lungo nello staff delle riprese dei Film Luce. Il contributo di questi pionieri e dei loro successori, e insieme la forte abitudine ai cinegiornali in b. e n., hanno determinato, sia in termini di stile sia di comunicazione, il persistere di un tipo d'immagine diretta, dura, non 'lavorata', in tutto il cinema che si è proposto come cronaca o resoconto del quotidiano: estremo esempio, e quasi film-cerniera, è The wizard of Oz (1939; Il mago di Oz) di Victor Fleming, dove il prologo e l'epilogo, riguardando il 'vissuto' della protagonista Dorothy, sono in b. e n., mentre il lungo volo nella fiaba è a colori. Così nel cinema statunitense, nonostante l'avanzata del colore, rimangono in b. e n. le cronache metropolitane, da The lost week end (1945; Giorni perduti) di Billy Wilder, a The naked city (1948; La città nuda) di Jules Dassin, a The asphalt jungle (1950; Giungla d'asfalto) di John Huston; la serie di docudramas sul FBI prodotta negli anni Quaranta dalla Fox (il cui capo Darryl F. Zanuck veniva proprio dal giornalismo di cronaca); e quasi senza eccezioni, fino agli anni Sessanta, il film bellico, inteso non solo come documento o dramma di guerra (The young lions, 1958, I giovani leoni, di Edward Dmytryk), ma anche come spettacolo (The longest day, 1962, Il giorno più lungo, di Andrew Marton, Ken Annakin, Bernhard Wicki e Geral Oswold). Per questo tipo di cinema il colore continuò a lungo a sembrare un fattore di distrazione o di 'falsificazione', e il b. e n. restò la sola immagine pensabile fin quando il diktat industriale del colore non diede più scelta ‒ tornando tuttavia talvolta possibile grazie a un forte potere produttivo (come nel caso di Schindler's list, 1993, di Steven Spielberg). Un punto d'arrivo dell'immagine realistica è Grapes of wrath (Furore) girato da John Ford con il maestro della fotografia Gregg Toland nel 1940, quando l'uso del b. e n. raggiungeva il massimo splendore figurativo. L'immagine di questo film (che si ispira dichiaratamente ai cinegiornali e alle fotografie sulla tragedia delle zone inaridite del Middle West negli anni precedenti) è sempre nitidissima, perfettamente incisa, tendente alla verosimiglianza assoluta e, per quanto riguarda il protagonista, alla ricerca di una tridimensionalità che fin dalla prima inquadratura è evidenziata dall'oscurità circostante: a illuminare il volto di Tom Joad nella casa che sta per essere abbandonata è un solo cerino. È questo, tra l'altro, uno dei tanti esempi di chiaroscuro di quella che negli studi si chiamava abitualmente 'luce Rembrandt', a riprova di una familiarità con tali problemi culminata negli stessi anni in Inghilterra con Rembrandt (1936; L'arte e gli amori di Rembrandt), che Alexander Korda, sfidando l'apparente buon senso, girò in b. e n., con la fotografia di Georges Périnal. Toland che, come testimoniato da William Wyler, era un artista che lavorava con il regista a trovare il modo più efficace di raccontare una storia per lo schermo, veniva da due prove altissime, Come and get it (1936; Ambizione) di Howard Hawks e dello stesso Wyler, dove si alternano realismo documentario e magia (la luce che emana dalla figura dell'eroina), e Wuthering heights (1939; La voce nella tempesta), ancora di Wyler, tutto selvaggi chiaroscuri romantici; e nel 1941, in Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles, applicando per la prima volta la sua invenzione del panfocus, ovvero la focalizzazione del primo piano con una profondità di campo fino a circa settecento metri, e cambiando radicalmente la posizione dei parchi-lampade, aprì nuove strade alla messa in scena. E insieme all'uso visionario del b. e n., si ha sempre in Citizen Kane un primo esempio di ricostruzione dei cinegiornali dell'epoca, con la loro bidimensionalità, difetti di stampa, rigature e graffi, ripreso molto più tardi in Zelig (1983) di Woody Allen.Accanto alla 'luce Rembrandt' si può parlare, per brevità, anche di una 'luce Renoir'. Essa ingloba le numerosissime immagini del cinema in b. e n. che rivelano lo studio appassionato e l'amore per la luce naturale in tutti i suoi mutamenti; e trova fra gli alberi, i prati e il fiume di Une partie de campagne (1936; La scampagnata) di Jean Renoir, con la fotografia di Claude Renoir, una delle sue espressioni più commoventi. Proprio questa possibilità di concentrarsi sulla luce e sulle forme della natura rende la sottrazione del colore un vantaggio, e rappresenta uno dei segreti artistici del cinema classico. È noto l'esempio di Ford, il quale aspettava anche delle ore per avere lo sfondo delle nuvole contro il sole nel cielo limpido della Monument Valley (vero e proprio leitmotiv figurativo di My darling Clementine, 1946, Sfida infernale); come Renoir che, facendo le riprese del film appena citato da una barca sul fiume Marne, aspettava i giusti riverberi dell'acqua sulle pareti della barca dei gitanti. Va notato che in questi casi la fonte della luce è presente, o comunque intuibile fuori dal quadro, mentre nel cinema non realistico il problema della fonte è ignorato a favore dell'effetto: nei film di Josef von Sternberg, dove la luce è protagonista, la fonte è indifferentemente in campo (il sole e le ombre della graticciata nella casbah che si muovono vertiginosamente sui mantelli bianchi in Morocco, 1930, Marocco) o del tutto misteriosa (il raggio che piove sul volto di Marlene Dietrich sola nel suo scompartimento in Shanghai Express, 1932). A volte la scelta può anche essere quella del grigio assoluto, senza ombre: per Le journal d'un curé de campagne (1951; Il diario di un curato di campagna) Robert Bresson ottenne dalla produzione di girare solo nelle giornate uniformemente grigie, cioè nelle condizioni che gli altri registi e direttori della fotografia di norma rifiutano.Il cinema espressionista. ‒ Il totale controllo dei due elementi essenziali dell'immagine in b. e n., luce e scenografia, avviene in studio, dove "le lampade [...] azzannano lo spazio, scavano nelle profondità del volume, strappano ogni velo, mostrano la sostanza delle cose" (S.M. Ejzenštejn, Izbrannye proizvedenija v šesti tomach, Opere scelte in sei volumi, I, Avtobiografičeskie zapiski, Appunti autobiografici, 1963-1979; trad. it. Il colore, 3° vol., t. 2, 1982, p. 90); e dove dosano, abbelliscono, connotano i personaggi, oppure velano le cose, le nascondono, le rendono ambigue, proiettano ombre per intensificare la paura e il mistero, luminescenze per accrescere la magia delle situazioni, la bellezza e il fascino degli attori, in una continua interazione con la scenografia. Nello stile grafico del film più importante del cinema espressionista tedesco, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Caligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene, le celebri prospettive distorte delle scenografie (di Hermann Warm, Walter Rohrig, Walter Reimann, con la fotografia di Willi Hameister) basano la loro forza sui contrasti del b. e n., e in alcuni momenti perfino le ombre non sono proiettate ma dipinte, diventando elementi scenografici. Proprio i fotografi tedeschi, per illuminare le scenografie espressioniste, inventarono le lampade ad arco subito adottate dagli statunitensi (i cui primitivi studi erano eretti senza tetto in modo da sfruttare il sole californiano); e poco più tardi diventarono i maestri dei notturni, come Fritz Arno Wagner. Con una formazione conseguita nei cinegiornali (tedeschi, francesi e statunitensi), ma prima ancora nell'École de Beaux Arts di Parigi, in Nosferatu-Eine Symphonie des Grauens (1922) Wagner offrì al regista F.W. Murnau il modo di mostrare il dilagare della notte e la lotta di questa con la luce: il film usa tutte le possibilità del b. e n., fino alla sequenza 'in negativo' del viaggio del protagonista Granach verso il castello del conte Orlok, dove il cielo diventa nero, mentre la carrozza, gli alberi e le cose si fanno di un bianco spettrale. Un'atmosfera altrettanto angosciosa Wagner la ricreò in seguito per Fritz Lang in M (1931), dove ogni spostamento e ogni variazione di luce sembrano avvicinare la morte. L'apporto dell'illuminazione in Metropolis (1927) di Lang appare inizialmente subordinato alla grandiosità e ai valori monocromatici da progetto architettonico della scenografia (di Otto Hunte, Karl Vollbrecht, Eric Kettelhut); successivamente diviene essenziale nel passaggio al mondo sotterraneo, con il buio, gli anelli luminosi da cui emerge il robot, la luce intermittente che dà l'allarme come un urlo di sirena così che "il bianco della luce arriva a prendere il posto del suono" (L. Eisner, Fritz Lang, 1978, p. 73). Prima di Lang avevano fatto della scenografia una grandiosa protagonista Giovanni Pastrone con la sua colossale Cabiria (1914), e in seguito Raoul Walsh con The thief of Bagdad (1924; Il ladro di Bagdad), le cui scene sofisticate e imponenti erano opera del decano Anton Grot, maestro della prospettiva e della definizione dello spazio attraverso i bianchi e i grigi, e del suo giovane allievo William Cameron Menzies.
Un apporto esemplare della scenografia alle possibilità del b. e n. fu l'adozione del déco in tutte le sue varianti, dai primi anni Venti alla seconda metà dei Trenta. Questo stile essenziale e geometrico era un'ideale continuazione dello slancio verticale dei grattacieli newyorkesi (ma dello stile funzionalista c'è più di una traccia nelle geometrie dei musical sovietici e nazisti dello stesso periodo). Tutto simmetrie, linee rette, porte e finestre altissime, pannelli verticali, spazi neutri, superfici candide e argentate, esso sembrò nato per il b. e n., ideale per dar rilievo ai corpi e al loro movimento e per isolare i primi piani. Già all'inizio degli anni Venti alcuni scenografi si ispirarono all'Art Nouveau, ai disegni in nero e bianco di Aubrey Beardsley, alle pitture di derivazione cubista di Fernand Léger. Per le avanguardie, in generale, il b. e n. si prestò perfettamente a costruire e decostruire, moltiplicare e dividere: ci sono visioni sdoppiate, multiple, prismatiche, caleidoscopiche in Čelovek s kinoapparatom (1929; L'uomo con la macchina da presa) di Dz. Vertov, mentre in Étoile de mer del 1928 Man Ray inserì immagini riprese con una lente reticolata per arrivare all'effetto del Puntinismo. Ma chi si ascrisse tutti i meriti fu lo scenografo Cedric Gibbons che lanciò lo stile déco in un film della Metro Goldwyn Mayer, Our dancing daughters (1928; Le nostre sorelle di danza) di Harry Beaumont. Da lì in poi, tra piacere dello stile e moda, il déco trionfò nel musical (nei film di Fred Astaire e Ginger Rogers alla RKO, con le scenografie di Van Nest Polglase, incontrastato regno dei bianchi; in quelli della Warner con i numeri coreografici di Busby Berkeley, tutti giochi simmetrici di bianco su nero e viceversa, tendenti all'appiattimento grafico, alla bidimensionalità), ma trovò posto anche in tutti gli altri generi.
Sugli sfondi déco risplendevano, e saturavano l'immagine, le chiome al platino, i satin bianchi, i mantelli argentati di Jean Harlow e Carole Lombard, perfetti sia nel gioco delle simmetrie tonali (bianco su bianco) sia accanto ai neri frac e agli smoking dei loro accompagnatori ‒ e centro, o punto focale, dello schermo. E su sfondi di ogni tipo risaltavano innumerevoli divise militari bianche, dell'esercito austriaco, della legione straniera, della marina americana, e accappatoi e mantelli bianchi di sceicchi e principi indiani. L'argento in movimento è un altro culmine del b. e n.: fra i milioni di lustrini, paillettes, lamé, volpi argentate, il costume più mercuriale e radiante fu creato alla RKO per Katharine Hepburn in Christopher Strong (1933; La falena d'argento) di Dorothy Arzner.Altrettanto definitivo nella composizione dell'immagine è l'abito nero, a partire dal costume per eccellenza, quello del vagabondo Charlie Chaplin: la marsina e la bombetta sono un segno grafico che serve a dar rilievo al protagonista in un mondo di grigi, e a farne individuare i movimenti e le fughe anche in campo lungo. Neri sono i primi Fantômas realizzati da Louis Feuillade (1913-14), i signori mondani, i gangster di successo, i corsari, Zorro, i poliziotti americani e le loro macchine. In Cops (1922), per tener dietro a Buster Keaton, centinaia di poliziotti invadono lo schermo muovendosi come punti neri impazziti, creando cioè una serie di immagini sempre più tendenti all'astratto; stessa situazione in un altro film di Keaton, Seven chances (1925; Sette probabilità), dove il protagonista è inseguito da centinaia di spose in bianco. Astrazione e insieme possibilità di narrazione e di gag attraverso il b. e n., di cui sono esempi, in The merry widow di E. Lubitsch (1934; La vedova allegra), il celebre cambio di guardaroba di Sonia, tutto tragico nero vedovile che si muta di colpo in un tutto bianco raggiante da partenza per Parigi, cane compreso; e, in funzione drammatica, la miriade di ombrelli neri che si agitano sotto la pioggia durante la rapina alla banca in You only live once (1937; Sono innocente!) di Lang e nascondono l'attentato in Foreign correspondent (1940; Il prigioniero di Amsterdam) di A. Hitchcock.
Dettato dagli autori, lo stile visivo è legato e comunque si evolve con il genere, punto di forza soprattutto dello studio system hollywoodiano. Negli anni Trenta la luce è contrastata e la notte è tenebrosa nei gangster film della Warner e della Columbia come negli horror eredi dell'espressionismo della Universal: è feroce e livido il pallore di Edward G. Robinson, Paul Muni, James Cagney quando emergono silenziosi dall'ombra. La notte è scintillante e mondana nei mélo MGM; e, nella nebbia rischiarata dai lampioni a gas di Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1932; Il dottor Jekyll) di Rouben Mamoulian, si carica d'angoscia quella notte Paramount che nel cinema di J. von Sternberg è fatta di luci e chiaroscuri misteriosi e avvolgenti, mentre nelle commedie di Lubitsch, dove tutto è soffuso, tende a una trasparente impalpabilità. Ma anche se la commedia segue le regole di illuminazione e di bidimensionalità del comico, il b. e n. diventa più solido e attento ai volumi nell'altro studio, la Columbia, che produce grandi commedie (It happened one night, 1934, Accadde una notte, di Frank Capra; Twentieth century, 1934, Ventesimo secolo, di H. Hawks).Annunciata dalla tragica e distratta notte finale di La règle du jeu (1939; La regola del gioco) di J. Renoir, la guerra spazza via anche le ultime notti incantate dagli schermi statunitensi (come quella di The Philadelphia story, 1940, Scandalo a Filadelfia, di George Cukor) e ogni innocenza dagli abiti bianchi femminili (The postman always rings twice, 1946, Il postino suona sempre due volte, di Tay Garnett; Out of the past, 1947, Le catene della colpa ‒ La banda degli implacabili, di Jacques Tourneur). Con il noir si incupiscono per primi proprio i teatri di posa della Warner, già padroni del buio (The Maltese falcon, 1941, Il mistero del falco, di J. Huston), e subito dopo quelli della Paramount, regno fin allora dei chiarori e delle sfumature (This gun for hire, 1942, Il fuorilegge, di Frank Tuttle). Le atmosfere tragiche del noir erano già presenti nel cinema muto statunitense (a partire da Underworld, 1927, Le notti di Chicago, di von Sternberg) e nei noir realisti francesi, soprattutto nel cinema di Renoir (da La nuit du carrefour, 1932, a La bête humaine, 1938, L'angelo del male), e in Le dernier tournant (1939) di Pierre Chenal; e come il film bellico, il noir resta legato fino all'inizio degli anni Sessanta (Underworld USA, 1961, La vendetta del gangster, di Samuel Fuller) alle suggestioni e infinite possibilità di variazione del b. e n. e dei giochi di ombra e di luce: vicoli e scale che spariscono nel buio, silhouette inquietanti, fari di automobili nella notte, finestrini di vagoni che sfrecciano, neon pulsanti che si riflettono all'interno delle stanze e sulle facce, ventilatori che ruotano, stecche di veneziane che dividono orizzontalmente corpi e cose, lampade da tavolo che circoscrivono lo spazio e sottolineano le espressioni degli attori, abat-jour rovesciati a terra, riflettori che scorrono sui muri dei grattacieli o illuminano le cantanti dei nightclub. Nere sono le cose essenziali di queste storie, le pistole (o bianche e nere, con il calcio di madreperla, se estratte dalle borsette) e neri diventano i rasi delle dive (Gilda, 1946, di Charles Vidor).
Negli anni Quaranta si delinea a Hollywood la tendenza produttiva a realizzare a colori almeno i tre generi più spettacolari, ossia il musical, lo storico e l'avventuroso (oltre ai cartoni animati); ma indipendentemente dal genere restano a lungo fedeli al b. e n., anche nel decennio successivo, quasi tutti i maestri della prima generazione del sonoro e della generazione seguente, o vi tornano dopo aver effettuato le prime esperienze con il colore. Un antiformalista come Hawks nel 1948 gira a colori un musical, A song is born (Venere e il professore), ma in b. e n. un western, Red river (Il fiume rosso), che, in quanto 'avventura', reclamava produttivamente il colore; e Hitchcock, dopo aver usato e sperimentato il colore in ben sette film dal 1954 al 1959 (con l'interruzione di stampo realistico di The wrong man, 1956, Il ladro), torna per Psycho (1960) al b. e n., come a sottintenderne la più forte carica di shock emotivo. Nello stesso decennio J. Ford continua, come B. Wilder, Huston e altri, ad alternare i due linguaggi, e intanto i giovani autori impongono il loro stile. Di una violenza inedita sono le luci bianche e nere di Kiss me deadly (1955; Un bacio e una pistola) di Robert Aldrich e di Killer's kiss (1955; Il bacio dell'assassino), noir di esordio di Stanley Kubrick che ne firma anche la fotografia; e dopo il kolossal a colori Spartacus (1961), Kubrick usa di nuovo il b. e n. nella grande tradizione del film drammatico (Lolita, 1962), e per una satira (Dr. Strangelove, or how I learned to stop worrying and love the bomb, 1964, Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba), in vari momenti della quale lo schermo è quasi totalmente invaso dal nero con spicchi di luce al 'calor bianco'. Il caso limite è rappresentato dal cinema di O. Welles che, con le eccezioni costituite da Histoire immortelle (1968; Storia immortale) e da F for Fake o Vérités et mensonges (1975; F per Falso), è interamente in bianco e nero. Innanzitutto Welles ha dato alla luce il valore di 'elemento purificatore' (i raggi di sole durante il funerale in Othello, 1952, Otello) e reso in forma visibile i pensieri più neri (le parole di Lady Macbeth "come, thick night", in Macbeth, 1948); e ha portato alla massima espressività i contrasti di luce e ombra nel situare i personaggi (le strisce verticali di luce che imprigionano Joseph K. a colloquio con Titorelli in The trial, 1962, Il processo), nella divisione dello spazio (gli interni di Xanadu in Citizen Kane; la sequenza del ballo in The magnificent Ambersons, 1942, L'orgoglio degli Amberson; il finale di Othello), ma anche nel far alternare luce e ombra in maniera meccanica (lo strangolamento di Grandi in Touch of evil, 1958, L'infernale Quinlan; la notte finale nello stesso film). Nel cinema di Welles si trovano una summa e una magnificazione delle possibilità del b. e n. descritte nei paragrafi precedenti: l'argento e gli effetti di rilievo tridimensionale (il grande orologio del campanile in The stranger, 1946, Lo straniero), la fosforescenza (l'acquario in The lady from Shanghai, 1948, La signora di Shangai), il bianco della neve, degli abiti, della pietra (Citizen Kane, The magnificent Ambersons), il frazionamento e la moltiplicazione dell'immagine (la famosa sequenza degli specchi in The lady from Shanghai), la verticalità (le moltissime scale; e l'ascensione vertiginosa della macchina da presa lungo i plafonds del palcoscenico in Citizen Kane, le lance nella battaglia di Macbeth, la porta altissima varcata da Joseph K. in The trial); la costruzione delle geometrie e dei volumi (il mare di casse nel finale di Citizen Kane). Welles rifiutò il colore anche per il suo ultimo film shakespeariano (Chimes at midnight, 1966, Falstaff), e spiegò così questa scelta: "era soprattutto un film d'attori, e il colore per gli attori è un nemico. A colori, le facce tendono a sembrare pietanze: vitello, manzo, mortadella" (O. Kodar, J. Rosenbaum, P. Bogdanovich, This is Orson Welles, 1992; trad it. 1993, p. 259).Il dopoguerra nelle altre cinematografie. ‒ Diverso è il di-scorso sul permanere del b. e n. nelle altre cinematografie, sia per ragioni industriali, perché al costo più elevato della pellicola e della stampa si aggiungono quelli della preparazione dei set e dell'illuminazione, bisognosa di assai maggior potenza data la non grande sensibilità della pellicola; sia per ragioni di convinzione (e convenzione) artistica, dato che la tradizione del b. e n. tra guerra e dopoguerra si è ulteriormente rafforzata, per es. in Inghilterra con i film di propaganda bellica, in Italia con il Neorealismo, in Messico con i melodrammi realisti di Emilio Fernández e con i film di Luis Buñuel (ambedue i registi si servirono della fotografia incisiva e nitidissima di Gabriel Figueroa, allievo di G. Toland), in URSS con alcuni film eredi di una splendida tradizione fotografica (Letjat žuravli, 1957, Quando volano le cicogne, di Michail K. Kalazotov; Dama s sobačkoj, 1960, La signora col cagnolino, di Josif E. Chejfic).
Nel cinema europeo il passaggio al colore avviene in modo molto graduale; e anche qui gli autori sembrano legati alla classicità del b. e n. indipendentemente dalle possibilità produttive (ma va ricordato che neanche a Hollywood venivano affidate produzioni a colori agli esordienti, e tanto meno artisti indipendenti come John Cassavetes potevano affrontarle).
In Italia L. Visconti, dopo aver raggiunto una straordinaria suggestione del b. e n. in Ossessione e nelle sequenze del mare di La terra trema (1948), passa per primo al colore (Senso, 1954). Ma intanto il cinema di R. Rossellini, fra gli altri, lontano da qualsiasi estetismo, non sembra pensabile, proprio in virtù di questo, se non in b. e n. (almeno fino al colore-documentario di India, 1959); mentre Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini si serve suggestivamente del b. e n. nell'apparizione in altalena dello sceicco ammantato di bianco e nella resa della solarità delle scene sul mare; e il debutto di Michelangelo Antonioni (Cronaca di un amore, 1950), con i suoi molti notturni e la bellezza della protagonista colta nella sua essenza dal b. e n., appare una personale variazione delle atmosfere e delle tonalità del noir.
Accanto al b. e n. da routine industriale (per es., la fantascienza giapponese, i comici e i thriller di ogni latitudine), sia il cinema europeo sia quello orientale raggiungono grandi esiti stilistici. Nel cinema di Ingmar Bergman i chiarori, le solarizzazioni, i contrasti, i neri, le luci di ogni possibile intensità vivono come personaggi, insieme, fuori e dentro di essi; le cose succedono, i ricordi emergono in certe ore e non in altre, i destini si consumano scanditi dal tempo della luce. L'incubo del vecchio Isak Borg in Smultronstället (1957; Il posto delle fragole) è di un chiarore accecante, mentre una luce naturale fatta di sole e ombra protegge il posto delle fragole; l'incanto della luce sospesa della notte di San Giovanni accompagna la naturalità dell'incontro sessuale dei servi in Sommarnattens leende (1955; Sorrisi di una notte d'estate), rendendo ridicole e oscure le smanie dei padroni; la partita a scacchi fra il Cavaliere e la Morte, l'argento e il nero in Det sjunde inseglet (1957; Il settimo sigillo), avviene in una luce lungamente in bilico fra giorno e notte. L'uso del b. e n. nel cinema di Bergman arriva in seguito a un'estremizzazione nella quale la luce sembra emanare dagli stessi volti dei personaggi più tormentati (il pastore di Nattvardsgästerna, 1963, Luci d'inverno; l'alcolizzata e moribonda Ester di Tystnaden, 1963, Il silenzio, entrambi con la fotografia di Sven Nykvist). Visioni accese delle luci più fosche e immerse nei chiaroscuri più lacerati emergono nel cinema giapponese, per es., nei terribili finali di Chikamatsu monogatari (1954; Gli amanti crocifissi) di Mizoguchi Kenji, e di Kumonosu-jō (1957; Il trono di sangue) di Kurosawa Akira; mentre la fotografia in b. e n. della 'trilogia di Apu' di Satyajit Ray (Pather Panchali, 1955, Il lamento sul sentiero; Aparajito, 1957, L'invitto; Apu Sansar, 1959, Il mondo di Apu) si lega alla lezione del Neorealismo.
L'uso del b. e n. non viene scoraggiato dalla diffusione dello spettacolare cinemascope, e ne trae anzi una riaffermazione di forza sia negli Stati Uniti (per es., in A hatful of rain, 1957, Un cappello pieno di pioggia, di Fred Zinnemann, e in Compulsion, 1959, Frenesia del delitto, di Richard Fleischer), sia in Francia nella fantasmagoria di bianco, oro-argento e nero di L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad) di Alain Resnais, sia in due fra i massimi risultati fotografici italiani, entrambi del 1960, Rocco e i suoi fratelli di Visconti (fotografia di G. Rotunno), in cui la contrastata incisività d'immagine, i bianchi sporchi e i neri fangosi rendono quasi palpabili la città e i personaggi; e La dolce vita di Fellini (1960, fotografia di O. Martelli), capolavoro visionario nel quale ogni luogo notturno palpita di tonalità, bagliori e atmosfere diverse, e il giorno (per la scoperta del suicidio di Steiner) è segnato da un chiarore abbacinante. Altrettanto variegata è la gamma dei toni del successivo film di Fellini, 8 ¹/₂ (1963), dove la fotografia di Gianni Di Venanzo riesce a differenziare i momenti della realtà presente dall'evanescenza di pensieri e ricordi, e dove i molti bianchi assumono intensa luminosità e significati diversi. È in questo suo periodo d'oro che il cinema italiano, alla scoperta della bellezza del Paese, non solo evita con il b. e n. ogni pericolo di oleografia, ma cattura la magia, o il carattere, di città e paesaggi illuminando forme, spazi e volumi: vanno ricordati per questo, oltre i citati, almeno tre film diretti da Antonioni, L'avventura, 1960, La notte, 1961, L'eclisse, 1962; ma anche La notte brava, 1959, di Mauro Bolognini.
Nello stesso periodo i registi della Nouvelle vague (e delle altre nuove correnti in Inghilterra, in Europa orientale; successivamente in Germania e altrove) seguono il criterio di alternanza del b. e n. e del colore già adottato dai maestri statunitensi e italiani. A parte le opere d'esordio, per le quali prevalgono ancora le ragioni di economicità accennate, vi sono occasioni in cui il b. e n. è evidentemente considerato irrinunciabile: Jean-Luc Godard, dopo un esordio nel quale l'uso delle monocromie è già sapientissimo (À bout de souffle, 1960, Fino all'ultimo respiro), e dopo diversi film a colori, quando affronta Alphaville (1965; Agente Lemmy Caution ‒ Missione Alphaville), ispirato all'iconografia del noir e del fantastico, torna al b. e n. creando un mondo avveniristico fatto di suggestioni e atmosfere classiche, spazi geometrici soffocanti, nebbia, luci sparate, contrasti violenti, ieraticità della femme fatale. François Truffaut aveva già dato a sua volta immagini indimenticabili, alcune di pure linee nel b. e n. dilatato dal panoramico (la fatale orizzontalità della corsa sul ponte rotto nel finale di Jules et Jim, 1962), quando per affrontare quella cronaca dal passato e diario illuminista che è L'enfant sauvage (1970; Il ragazzo selvaggio) torna ancora alla soluzione più naturale, il b. e n. del reportage. Anche nel Free Cinema inglese è di rigore il b. e n., e viene sfruttato con grande sapienza, fra gli altri, da Karel Reisz nei toni sporchi, opachi, brumosi di Saturday night, Sunday morning (1960; Sabato sera, domenica mattina), e da Richard Lester nei giochi astratti del primo film con i Beatles (A hard day's night, 1964, Tutti per uno).
Intorno agli anni Settanta, il colore non è più una scelta ma un obbligo, e anche per un autore acclamato come Truffaut arriva il momento in cui realizzare un film in b. e n. diventa molto difficile, per ragioni commerciali e quindi tecniche (fra l'altro, data la scarsità di domanda, diventano sempre meno i laboratori in grado di stampare in b. e n., e il rapporto di spesa in confronto al colore si rovescia). Vivement dimanche (1983; Finalmente domenica!) è una commedia-thriller, omaggio al genere creato nel 1934 con The thin man (L'uomo ombra) di Woodbridge S. Van Dyke, e a tutto il cinema in b. e n.; eppure, prima di avviare le riprese, Truffaut deve scrivere al produttore del film ricordandogli i recenti successi internazionali in b. e n.: "chaque fois le film constitue un évènement: The last picture show […], Manhattan, Raging bull, Veronika Voss, Elephant man" (Correspondance, 1988, p. 625). Il breve elenco del maestro francese indica e riassume tre categorie di film legate all'uso attuale del b. e n.: i film visionari, in vario modo debitori dell'Espressionismo (di David Lynch, oltre The elephant man, 1980, va ricordato il cupo Eraserhead, 1978; insieme a Rumble fish, 1983, Rusty il selvaggio, di Francis F. Coppola; Shadows and fog, 1991, Ombre e nebbia, di Woody Allen; Dead man, 1995, diretto da Jim Jarmusch); i film sul cinema (insieme a quelli di Peter Bogdanovich, Rainer W. Fassbinder, Wim Wenders va ricordato Ed Wood, 1994, di Tim Burton); e i film che, citando il cinema classico e reinventandolo, si danno come cronaca: oltre a Raging bull (1980; Toro scatenato) di Martin Scorsese, vanno menzionate almeno le sequenze in b. e n. di Mishima: a life in four chapters (1985; Mishima) di Paul Schrader, dal rilievo quasi olografico, perlaceo e vellutato quanto drammatico, di rara bellezza.
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