Bibbia
Presa nel suo complesso (= libri dell'Antico e del Nuovo Testamento), senza dubbio la B. costituisce la fonte citata più frequentemente o comunque utilizzata da Dante. Ma nell'esame delle singole opere si notano differenze rilevanti, non sempre spiegabili con la diversità della materia; compare una certa evoluzione nella conoscenza sempre più approfondita. Difatti nelle Rime manca ogni utilizzazione diretta della Sacra Scrittura, se si eccettua qualche discutibile reminiscenza verbale. Essa compare in maniera molto limitata nella Vita Nuova (citazioni dirette in VII 7, XXlV 4, XXVIII 1, XXX 1; allusioni e parafrasi in VII 3, XXIII 25, XXXII 5); dei personaggi biblici si ricorda l'apostolo s. Giacomo (XL 6). Prive di citazioni bibliche sono le Egloghe Nella discussa Quaestio solo nel paragrafo 77 si hanno cinque citazioni bibliche dirette. Altrettanto parco risulta in proposito il De vulgari Eloquentia. Le citazioni e le allusioni sono limitate ai primi capitoli della Genesi; in I VII si ha una vivace descrizione della confusione delle lingue connessa con la costruzione della torre di Babele (cfr. Gen. 11, 1-9); prima si hanno una citazione (I IV 2) e taluni riferimenti alla lingua di Adamo e di Eva (l'ebraico, secondo un'opinione molto diffusa nell'antichità; cfr. I IV 6) e alla parlata del serpente e dell'asina di Balaam (I II 6, VI 5; cfr. Gen. 3, 1 ss.; Num. 22, 25-28). Nelle Epistole compaiono citazioni bibliche in III 8 (Ioann. 15, 19), in V (otto citazioni e alcune parafrasi o allusioni; notevoli quella di Ps. 94, 2 e di Is. 56,1 [nei paragrafi 4, 5] per il testo integrato e adattato). Assai ricca di citazioni (12 dirette) e di riferimenti biblici è l'epistola XIII a Cangrande; inoltre essa espone il principio ermeneutico del quadruplice senso, applicandolo alla Commedia. In tale esposizione l'autore si discosta in parte da quella analoga contenuta nel Convivio (II I 12-15). A causa della sua autenticità molto discussa fra i dantisti (ma v. ora F. Mazzoni, L'Epistola a Cangrande, in " Atti Accad. Naz. Lincei " s. 8, X [1955] 157-198), essa costituisce un argomento controverso per affermare un cosciente cambiamento di opinione. Fra le opere latine occupa un posto particolare la Monarchia, ricca di esegesi biblica. Le citazioni dirette sono una sessantina; spesso, poi, si discute un testo senza citarlo oppure si allude a personaggi e ad episodi biblici. Nel Convivio, oltre alla già accennata discussione teorica, leggiamo non pochi riferimenti biblici e circa quarantacinque citazioni dirette, più o meno ampie.
Nella Commedia si devono distinguere le singole parti. L'Inferno, come era da attendersi, è il più povero di riferimenti biblici. Tuttavia almeno sei brani contengono espressioni letterali della B. (cfr. VIII 45 e Luc. 11, 27; X 25 e Matt. 26, 73; XIV 103-114 e Dan. 2, 31-43; XIX 106-111 e Apoc. 17, 1-3; XXIII 144 e Ioann. 8, 44; XXIV 9 e Ierem. 31, 19), mentre alcuni testi (XIX 95-96, XXIII 111-123, XXVI 34-39, XXVIII 136-138, XXX 97, XXXI 76-78) descrivono argomenti biblici. Oltre Satana, il poeta incontra solo due personaggi biblici - se si eccettua l'anonimo che fece... il gran rifiuto (III 60; Pilato?) -, ossia Caifa (XXIII 111 ss.) e Nembrot (XXXI 76-78). Nel Purgatorio si hanno ventotto citazioni dirette, parte in latino e parte in italiano, e una quarantina di passi con allusioni o temi biblici. Nel Paradiso le citazioni dirette sono meno numerose (sette: cfr. VII 1 e Is. 6, 3; XVIII 91, 93 e Sap. 1, 1; XX 94 e Matt. 11, 12; XXIV 64-65 e Hebr. 11, 1; XXV 98 e Ps. 9, 11; XXVI 69 e Is. 6, 3; XXXII 95 e Luc. 1, 28); invece moltissime sono le allusioni bibliche o le descrizioni di personaggi o episodi della Sacra Scrittura.
Un elenco delle citazioni, distinte secondo la maggiore o minore fedeltà, si ha in E. Moore (cfr. opera citata in bibl., pp. 321-334). Ma non è facile l'identificazione delle citazioni libere o discutibili. Quindi un calcolo matematico resterà sempre piuttosto ipotetico. Non c'è dubbio che D. usò sempre il testo della Volgata. Talune lezioni caratteristiche (come ubi per ibi, in Act. Ap. 25, 10; cfr. Mn III XIII 5; oppure la punteggiatura in Ioann. 1, 3; cfr. Mn II II 4) compaiono in molti manoscritti biblici; per questo difficilmente si potrà identificare il manoscritto usato dal poeta. Di certo esso conteneva il tipo di testo più diffuso in quel tempo, ossia quello della Biblia parisiensis. Ben poco si può dedurre dal silenzio sui correctoria biblica, sorti in quel periodo; D. non si occupò mai di tali questioni specifiche. In Ep XIII 62 si cita parte di Ecli. 42, 16 con la formula introduttoria Et Ecclesiasticus in quadragesimo secundo. La citazione si aggiunge alle molte desunte dai libri detti ‛ deuterocanonici '; ai suoi tempi ben pochi distinguevano - come si farà poi con il sorgere del protestantesimo - fra libri dall'ispirazione indiscutibile secondo la tradizione (‛ protocanonici ') e libri dall'ispirazione discussa nella Chiesa primitiva e non ammessa dagli Ebrei (‛ deuterocanonici '). Dalla menzione del capitolo si deduce che il manoscritto biblico usato seguiva la divisione pratica introdotta da Stefano Langton alla fine del sec. XII o, al massimo, all'inizio del sec. XIII. È ancora aperta la questione se D., nelle sue opere in volgare - particolarmente nel Convivio -, traducesse direttamente dal latino oppure se ricorresse a versioni preesistenti. La seconda ipotesi non è inverosimile, anche se non sono giunte a noi traduzioni complete della B. anteriori a D.; ma più probabile è la prima ipotesi.
La B. nel pensiero di Dante. - Talune denominazioni denotano da sole l'idea che D. aveva della B.: questa costituisce una ‛ divina auctoritas ' (Mn II I 7), contiene la divina lex (III XIV 4); le sue parole sono divine (‛ divina elogia ', in Ep VI 3; Scrittura divina, in Cv IV XII 8; cfr. XX 3). Essa è santa (Pd XXXII 68), sacratissima (VE I IV 2) e verace (Cv IV XII 8). L'ispirazione della B., implicita in tali espressioni, è affermata spesso. Come carisma, essa è attribuita allo Spirito Santo: La larga ploia / de lo Spirito Santo, ch'è diffusa / in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia (Pd XXIV 91-93). Gli autori dell'Antico e del Nuovo Testamento hanno scritto sotto l'influsso dello Spirito Santo, che li rese almi (Pd XXIV 138; cfr. XX 38, XXIX 41, Mn I XVI 5, III XVI 9). Il fatto conferisce alle affermazioni bibliche un'autorità ignota al pensiero di una mente umana, mercè de la somma luce del cielo che quella allumina (Cv IV XV 9). Ne deriva una infallibilis veritas (Mn I V 8; cfr. II VIII 14); quanto essa prescrive è una divina lex (III XIV 4) o una ‛ supernaturalis veritas ' (III XVI 9).
Il poeta non tenta mai di specificare la natura di questa cooperazione fra lo Spirito Santo e la mente dell'agiografo. Solo in Ep XI 2 si parla di un'immagine ‛ impressa ' dallo Spirito Santo (mentem... viri prophetici per Spiritum Sanctum... impressit), ma con riferimento a un caso particolare, ossia alla visione della futura distruzione di Gerusalemme (cfr. Ierem. Lam. 1, 1 ss.). Altrove parla di ‛ dettatura ' da parte dello Spirito Santo: se qualcuno abusa della Scrittura non pecca nei riguardi di Mosè, di David, di Giobbe, di Matteo o di Paolo, sed in Spiritum Sanctum, che parla per mezzo di quelli (Nam quamquam scribae divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est, Mn III IV 11; cfr. Gregorio Magno Moralium sive Expositio in librum B. Job, praef.). L'espressione è da intendersi in senso relativo, perché di certo D. non considerava gli agiografi come strumenti puramente passivi. Simili metafore (cfr. quella della tuba, in Mn I XVI 5) sono frequenti nei Padri e negli antichi teologi, nei quali compare talvolta anche il termine dictator (cfr. A. Penna, L'ispirazione biblica nei Padri della Chiesa, in " Divus Thomas " LXX [1967] 393-408).
Alcuni aspetti della B. vengono presentati come segni dell'accondiscendenza di Dio; in particolare rientrano in tale categoria gli antropomorfismi (Pd IV 43-45).
Non c'è contraddizione fra queste affermazioni sulla dignità unica della B. e il metodo inatteso di unire episodi scritturistici a scene della mitologia pagana (cfr. Pg XII 25 ss.; XVII 25 ss.) oppure autori sacri e profani (Cv IV XII 4-8). Il poeta giunge perfino a indicare nelle avventure matrimoniali di Catone, il quale si separa dalla moglie e poi la riprende dopo che essa si era unita con Ortensio, un simbolo del modo di agire di Dio (quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo, Cv IV XXVIII 15). D. non pone sullo stesso livello la mitologia o la storia pagana e una pretesa mitologia - come si esprimono taluni commentatori, come lo Scartazzini o storia biblica.
Egli non fa altro che uniformarsi (atteggiamento piuttosto insolito al suo tempo) all'opinione di molti Padri greci che vedevano nella sapienza e nella storia pagana i segni di una preparazione al vangelo o addirittura una rivelazione analoga a quella biblica (cfr. R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, trad. it., Assisi 1967, 93-140; P. Mandonnet, D. le théologien, Parigi 1935, 172-174). Anche se con una visuale particolare, il problema della preparazione provvidenziale al vangelo nel mondo pagano è affrontato in Cv IV V.
Non mancano espressioni dantesche, le quali, se avulse dal loro contesto, potrebbero addursi come prove della sufficienza della Scrittura, in quanto unico documento della rivelazione (cfr. Mn III XIV 4 omnis namque divina lex duorum Testamentorum gremio continetur). La frase va integrata con quanto è detto nel medesimo trattato (III III 12-14), ove la Scrittura è proclamata ante Ecclesiam in senso temporale; ma ad essa è unito il magistero ecclesiastico (cum Ecclesia) e perfino l'insegnamento tradizionale dei teologi e dei giuristi (post Ecclesiam). In forma più concisa, ma nello stesso tempo più completa, il pensiero di D. si ha in Pd V 76-78 Avete il novo e 'l vecchio Testamento, / e 'l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento.
La fede nell'origine divina del libro sacro non fece dimenticare la cooperazione degli autori umani. D. ricorda spesso i singoli scrittori del Nuovo Testamento e non rare volte menziona quelli dell'Antico. Li considera veri autori. David è l'umile salmista (Pg X 65) o il cantore per eccellenza (Pd XX 38, XXV 72, XXXII 11); l'evangelista Luca è lo scriba mansuetudinis Christi (Mn I XVI 2); Giovanni è l'aguglia di Cristo (Pd XXVI 53), ecc. Solo raramente D. lascia intravedere un giudizio letterario sui libri della Bibbia. Un apprezzamento riguardante il Salterio latino si ha in Cv I VII 15 questa [difficoltà di tradurre adeguatamente] è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno.
In realtà il Salterio della Volgata proviene dalla duplice traduzione; la critica sul testo greco non è opera di D., che poteva desumerla dai testi di s. Gerolamo o da altri scrittori, specialmente dalle prefazioni ai vari libri della B., ritenute - talvolta a torto - opera del traduttore della Volgata (fra quelle autentiche, cfr. le prefazioni geronimiane al libro di Giobbe e ai Salmi, in Patrol. Lat. 28, 1139,1185).
Lo studio della Bibbia. - Nella requisitoria contro le ciance dei predicatori (Pd XXIX 88-126) si pone in rilievo il contrasto fra l'umile studio della B. (quanto piace chi umilmente con essa s'accosta) e la sua trascuratezza (quando è posposta, oppure sostituita da invenzioni personali o da insulse prediche a base di motti e di iscede). Il motivo dell'abbandono dello studio della B. è segnalato nella preferenza per una disciplina più idonea per il conseguimento di posizioni autorevoli o di benessere materiale: Per questo l'Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a' lor vivagni (Pd XI 133-135). Male ancora maggiore è considerato l'abuso della Sacra Scrittura o la sua distorsione (quando è torta) per sostenere affermazioni estranee o infondate. È l'atteggiamento degli eretici, che furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti (Pd XIII 128-129).
Giudizi molto più severi, contro la pigrizia intellettuale o contro l'indegna sostituzione di studi profani o inutili a quello essenziale della B., e lamenti ancora più accorati per le distorsioni della parola di Dio si leggono in teologi e papi di quel tempo (cfr. H. de Lubac, Esegesi Medievale, trad. it., Roma 1962, 203 ss.). Del resto l'ultima accusa compare già nella stessa B. (cfr. II Petr. 3, 16); essa - insieme a quella della trascuratezza o indifferenza scandalosa - è un tema costante dei grandi studiosi della Scrittura.
Solo con una certa enfasi si può parlare di D. come di un esegeta della B., qualifica mai ostentata né rivendicata. Ma è innegabile, come appare anche dal breve sommario riportato sopra, la notevole conoscenza di essa. D. non delinea mai i requisiti per un proficuo studio della B., tanto meno ne elenca le scienze sussidiarie; ma più volte ricorda la molteplicità dei sensi scritturistici, raggiungibili solo con un'indagine diligente (se bene agguati, Pd XXIX 42). Nel commento alle canzoni del Convivio D. presenta di solito un'interpretazione letterale e una allegorica, che sarebbe l'unica vera (Cv II XII 1; cfr; Gerolamo Epist. 52, 2; Gregorio Magno Moralium Epist. 3). Egli giustifica il metodo con un'ampia introduzione inserita dopo la prima canzone (Cv II I 2-15). Il medesimo tema è trattato in Ep XIII 20-22, ossia nella discussa introduzione alla Commedia indirizzata a Cangrande.
In Cv II I 2 afferma che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi, denominati rispettivamente letterale, allegorico, morale, anagogico. Il primo non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie; il secondo si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna (§ 3); il terzo mira all'utilitade spirituale dei lettori (§ 5); il quarto si ha quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose (§ 6). L'ultima definizione dimostra quanto sia poco coerente la teoria dei quattro sensi. Il riferimento alle verità della vita futura può essere evidente nella lettera (senso letterale) del testo oppure sotto il manto di racconti da intendersi allegoricamente (senso allegorico). Le medesime osservazioni valgono per il senso morale. Si tratta di una suddistinzione riguardante la materia (argomento etico o escatologico), non il modo di esprimere il concetto. La vera antitesi esiste solo fra senso letterale e senso allegorico. Coerentemente il poeta nei suoi commenti si limita alla duplice spiegazione, e anche nella trattazione teorica insiste solo sul rapporto fra i sensi letterale e allegorico: quello litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e santa lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico... con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l' altre che a la sua (Cv II I 18 e 11).
È interessante anche l'osservazione precedente: Veramente li teologi questo senso [l'allegorico] prendono altrimenti che li poeti (II I 4). D. non spiega la differenza, limitandosi a dire che egli seguirà i poeti. Dall'esempio addotto (il mito di Orfeo come è riferito da Ovidio) si può arguire che la differenza consiste nel fatto che il senso letterale contiene una favola, una bella menzogna; invece di norma per i teologi il senso letterale biblico ha un suo significato e una sua verità, storica o di altro genere. In letteratura valeva la definizione di Quintiliano (Inst. orat. VIII VI 44), secondo cui un componimento allegorico " aliud verbis, et aliud sensu ostendit "; in esegesi si parlava di un senso costituito dalla semplice " rerum gestarum narratio " (senso letterale) e di un senso dato dalla " earundem rerum gestarum spiritalis significatio " (senso allegorico). La distinzione è formulata con queste parole da uno scrittore degl'inizi del sec. XIII (cfr. H. de Lubac, op. cit., p. 273).
La riduzione dei quattro sensi a due è eseguita espressamente in Ep XIII 20. Ivi si distingue il sensus... qui habetur per litteram da quello qui habetur per significata per litteram (= allegoricus sive moralis sive anagogicus). Addotto l'esempio del Ps. 113, 1 (senso letterale: liberazione dall'Egitto; senso allegorico: redenzione operata dal Cristo; senso morale: passaggio dal peccato alla grazia; senso anagogico: passaggio dalla vita presente alla beatitudine eterna, Ep XIII 21), l'autore parla anche degli altri due sensi, ma conclude: quanquam issi sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi (XIII 22). E evidente che qui il rapporto fra senso letterale e senso allegorico è fissato secondo il concetto dei teologi, non dei poeti. Si veda la contrapposizione di s. Tommaso (Quaest. quodl. VII 15), che distingue un senso letterale, che insegna ad agire virtuosamente (" sensus moralis sive tropologicus... ad rette agendum "), e uno figurato (" sensus allegoricus vel typicus ", oppure " sensus anagogicus ") che fa conoscere le verità da credere (" ad recte credendum "). Si veda anche il suo insegnamento nella Sum. theol. I 1 10.
Riguardo all'ermeneutica biblica, D. non dice nulla di nuovo. Non sembra che egli conoscesse il famoso distico " Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia ", che compare la prima volta verso il 1260 nel Rotulus pugillaris di Agostino di Dacia. Almeno fin dal tempo di s. Gerolamo si parlava di un quadruplice senso (di tre sensi parlava già Origene), mentre in pratica si spiegava un testo biblico in senso letterale e in senso allegorico, per il quale si usava una terminologia molto varia. La teoria, non senza difficoltà e contraddizioni, si applicava quasi unicamente alla Bibbia. Se si prescinde dall'esempio da manuale di Ps. 113 in Ep XIII 21, D. non presenta mai un'interpretazione di un brano biblico con la distinzione dei quattro sensi. Egli o parla di episodi della B. come di avvenimenti storici, oppure segnala in un personaggio o in un episodio della storia sacra un insegnamento spirituale o una verità della fede cristiana (senso allegorico). Si pensi al simbolismo di Lia e Rachele (Pg XXVII 100-108), di Gerusalemme (Pd XXV 56, Ep II 5), dei pani moltiplicati miracolosamente (cfr. Cv I XII 12), ecc. In Monarchia, invece, talvolta con acume e talaltra con una certa capziosità, rigetta l'interpretazione tipica o allegorica di alcuni testi biblici, sfruttati dagli avversari della sua teoria sulle due potestà (cfr. Mn III IV 1-3).
La questione ha maggiore importanza per l'esegesi dantesca che per quella scritturistica. Difatti se si prendono come norma i principi spiegati in Ep XIII oppure alcune espressioni di Cv II I 8-12 (quelle sulla necessità che il senso allegorico si basi su quello letterale), ne deriva l'infondatezza dell'opinione di quanti segnalano in Beatrice della Vita Nuova un puro simbolo; la quale, invece, si può difendere se si pone come principio l'idea che il senso allegorico è quello velato dal manto di favole oppure di una bella menzogna. Dimenticando la terminologia antica talvolta ingombrante, si avrebbe un testo puramente allegorico, il cui significato letterale - secondo la concezione moderna - è proprio quello che risulta dalla rimozione del velo metaforico. La chiarificazione, assai rara negli antichi esegeti biblici (cfr. A. Penna, Principi e carattere dell'esegesi di S. Gerolamo, Roma 1950, 46-101), è fatta dallo stesso D. quando, a proposito della canzone Le dolci rime, afferma: Non sarà dunque mestiere ne la esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare (Cv IV I 11), una volta chiarito che l'immagine della donna si riferisce in realtà alla filosofia.
La dottrina sull'origine della B., sulla sua importanza per la vita della Chiesa e sulla sua interpretazione è completata da una serie di nozioni più o meno erudite. Esse rispecchiano la cultura del tempo di carattere enciclopedico, anche se molto elementare in proposito. D., che non conosceva nessuna lingua semitica e neppure il greco, accoglie volentieri talune informazioni sull'ebraico. Per lui, come per tanti antichi, è la lingua di Adamo e di Eva, perpetuatasi - dopo la confusione connessa con la torre di Babele - solo fra i discendenti di Heber, ossia fra gli Ebrei (VE I IV 5). Di tale lingua, oltre i termini quali osanna, amen, alleluia, sabaôt, penetrati nella liturgia cristiana, D. conobbe qualche vocabolo (cfr. malacoth, in Pd VII 3) e l'indole fonetica, che cercò di riprodurre in versi probabilmente privi di un significato preciso (cfr. If VII 1, XXXI 67). Conosceva anche i due termini ebraici per indicare Dio: El e Jahvé. Erroneamente egli suppone un'evoluzione nel tempo, per cui al secondo nome si sarebbe sostituito il primo (Pd XXVI 134-136), proprio al contrario di quanto affermano i moderni e come si dedurrebbe da VE I IV 4, ove El è la prima parola pronunziata da Adamo. L'osservazione posta in bocca al medesimo Adamo (Pd XXVI 134) si riferisce al fatto che nei primi capitoli della Genesi prevale la forma ‛ Jahvé ' (I s'appellava in terra). Per indicare la data della morte di Beatrice egli ricorre al calendario dell'Arabia e della Siria (Vn XXIX 1); per quest'ultimo assegna l'inizio dell'anno nel mese Tisirin (= ebraico Tishrîn), identificato con il nostro ottobre. Egli non si riferisce al calendario ebraico, ma a quello in uso nella liturgia di alcuni riti orientali, fra cui il maronita o siriaco.
Le numerose questioni che il poeta propone a Virgilio e ad altri personaggi dell'oltretomba ricordano la tendenza del tempo, amante delle disquisizioni dialettiche. Nel loro complesso esse si possono qualificare bibliche per l'argomento proposto e per il modo con cui si risolvono. Ricordiamo solo quelle - per altro divergenti - sul numero e sulla gerarchia dei cori angelici (cfr. Cv II V 6, Pd XXVIII 97-139). D. conosce le opinioni dello pseudo-Dionigi e di Gregorio Magno. Giunge perfino a identificare tali spiriti con le sustanze separate, preposte al movimento dei singoli cieli, oppure con le idee di Platone, intese come forme e nature universali (Cv II IV 2 e 5).
Anche per questa cultura biblica di carattere enciclopedico, come per certe spiegazioni artificiose basate sul simbolismo dei numeri (cfr. Vn XXIX 3 e i numeri misteriosi della Commedia) e per certe applicazioni audaci di espressioni bibliche a personaggi e a fatti contemporanei (si vedano specialmente i riferimenti enfatici a Enrico VII in Ep VII), D. si manifesta figlio del suo tempo. La medesima cosa si può affermare riguardo alla conoscenza, all'utilizzazione e alla venerazione della Bibbia. Ma bisogna tener conto della diversità della condizione personale e del tema trattato. Il confronto, infatti, viene eseguito fra un laico e dei teologi per vocazione o professione, fra un letterato e i magistri sacrae pagine, come erano detti allora i maestri o dottori di teologia, che passavano la loro vita nello spiegare la B. nelle grandi università o nelle scuole monastiche.
Il termine B. ricorre in senso proprio in Cv IV V 16 e VE I X 2; in Fiore CXXX 9 bibbia sta genericamente per ‛ libro sacro '.
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