Bibbia
Nell’opera di M. si ritrovano diversi riferimenti a personaggi ed episodi della Scrittura, che per M. costituisce un testo esemplare, da leggersi «sensatamente» (Discorsi III xxx 17), ovvero con intellitessuta genza analitica e politica, come ogni altra narrazione storica. La B. può indicare agli uomini modelli da fare propri, indipendentemente da qualsivoglia significato devozionale, e si definisce così come un libro politico e, dunque, anche con Mosè o David si può interloquire per « domandarli della ragione delle loro azioni» (lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, Lettere, p. 296). In questa prospettiva, anche Mosè (→) era forzato «a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a’ disegni suoi» (Discorsi III xxx 17), ovvero ad abbattere gli avversari che lo contrastavano guidati dal timore politico e religioso, ben più che psicologico, di vedere sgretolati i fondamenti del loro potere. Tutto politico è anche, nei capp. vi e xxvi del Principe, il richiamo alla vicenda di Israele e alla necessità che quel popolo fosse schiavo in Egitto, affinché la virtù di Mosè potesse esplicarsi: Dio non fa tutto, è necessario che l’uomo intervenga con la sua virtù, come appunto fece Mosè, liberando gli ebrei.
Alla B. si fa ricorso per esemplificare la necessità delle armi proprie, poiché «le armi di altri o le ti caggiono di dosso o le ti pesano o le ti stringono» (Principe xiii). Al riguardo, M. cita «una figura del Testamento Vecchio fatta a questo proposito» (primo libro di Samuele, 17, 30-40): David (→), in procinto di battersi con Golia, rifiutò le armi offertegli da Saul perché «voleva trovare el nimico con la sua fromba e con il suo coltello». Il richiamo al testo biblico non è preciso e lascia incerti nella ricerca delle motivazioni di una tale scelta. Nel testo sacro David, in quello scontro, non appare mai armato di un coltello o di altra arma da taglio («benché Davide non avesse spada», si legge nel primo libro di Samuele, 17, 50). Pare improbabile un errore dovuto a non conoscenza del brano: forse M. ha voluto rafforzare l’immagine combattiva e autonoma di David. Non si dimentichi il particolare ruolo che David ha nella costruzione del mito di Firenze, dai Medici alla Repubblica, ruolo che si esprime anche con la realizzazione delle celebri statue scolpite da Donatello, Verrocchio – la cui opera è forse quella che meglio potrebbe avvicinarsi visivamente a un modello di David con il coltello – e Michelangelo.
Richiamato anche in Discorsi I xxvi 2 (cfr. Scichilone 2012, p. 121), David è il «personaggio dell’Antico Testamento che con Mosè, e forse più di Mosè, più ricorre nei momenti alti della sua trattatistica politica» (Cutinelli-Rendina 1998, p. 281), divenendo oggetto di un’approfondita lettura politica.
L’Esortazione alla penitenza si apre con la ripresa del Salmo 130 (129) De profundis. Vi si cita in latino la prima Lettera di Paolo ai Corinzi (13, 1), accompagnandola con una traduzione volgare, e vi è successivamente una fedele citazione implicita in volgare dallo stesso luogo (13, 4-7). La citazione latina da san Paolo è riportata in una versione il cui testo diverge lievemente da quanto tramandato in Biblia cum concordantiis veteris et novi Testamenti (Lucantonio Giunta, Venezia 1511), dal Novum Testamentum [...] ab Erasmo Roterodamo recognitum (Frobenio, Basilea 1516) e infine dalla vulgata clementina del 1592, che, in questo passo, non è diversa dal testo giuntino del 1511. Ma troviamo richiami a Matteo, 22, 11-14 e 18, 21-22, al secondo libro di Samuele, 12, a Luca 22, 54-62 e ancora Matteo, 26, 75 e Luca, 22, 62 (N. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, 3° vol., pp. 249 e segg.). L’Esortazione culmina con la citazione del Salmo 51 (50) Miserere mei di David e si conclude, come il Principe, con alcuni versi di Francesco Petrarca, in questo caso dal primo sonetto del Canzoniere, vv. 13-14 con il senso di sottolineare come non ci sia «penitenza senza distacco dal mondo» (Cutinelli-Rendina 1998, p. 283).
Anche nel capitolo “Dell’Ambizione” «a Luigi Guicciardini» si trovano riferimenti alla B.: vi figurano Adamo ed Eva, Caino e Abele. La narrazione machiavelliana assume tonalità eterodosse, quando Caino e Abele sono detti aver vissuto «lieti nel lor pover ostello», in contraddizione con lo stato di Adamo ed Eva e dei loro figli dopo il peccato originale; M. echeggia forse idee di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, circa la possibile salvezza dei non cristiani, riprese anche da Luigi Pulci (Corrado Vivanti, in N. Machiavelli, Opere, 3° vol., p. 759 nota 6, richiama Gennaro Sasso e Delio Cantimori; la constatazione sembra non essere colta da Colish 1999, p. 603).
In M. le immagini bibliche si infittiscono, quando, in Principe xxvi 12, l’auspicato cammino dell’Italia verso la libertà, sotto la guida di casa Medici, è assimilato alla marcia degli Ebrei verso la Terra promessa. M. sa che la B. («il suggetto che prese»), assieme alla vita sua e alla dottrina, fu l’elemento che spinse i cittadini fiorentini a prestar fede a Girolamo Savonarola (cfr. Discorsi I xi 25). La Scrittura è insomma un testo potente e legittimante, anche nei confronti della complessità della società.
Anche l’attività letteraria di M. trova nella B. elementi da utilizzare. Nella Mandragola fra Timoteo, per convincere Lucrezia, la esorta a considerare come la pratica della pozione sia fatta solo per «contentare el marito vostro» (Mandragola III xi) e aggiunge: «dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimaste sole nel mondo, usorno con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorno» (Mandragola III xi; si veda Genesi, 9, 30-38). Ci pare ancora valida, nelle sue linee generali, la notazione di Luigi Russo che «in questa pagina è proprio precorsa la casistica che nel ’600 e nel ’700 doveva assumere carattere ufficiale. Machiavelli ne scrive il primo trattatello in questo discorso del suo frate» (Russo 1966, p. 116).
Il complesso uso da parte di M. della B., e in specifico dell’Antico Testamento, ha al fondo la convinzione che essa dimostri, storicamente, il valore politico delle antiche religioni, che inducevano ad agire secondo la virtù. Quando M. affronta il Nuovo Testamento pare invece che l’esemplarità della visione politica si allontani o che egli ne faccia un uso ermeneutico assai audace (è il caso del Magnificat, reinterpretato politicamente in Discorsi I xxvi).
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