Biennale visionaria
Concepita con la volontà di classificare il meraviglioso disordine dell’immaginario umano, questa 55ª edizione della Biennale di Venezia porta il titolo altisonante di Palazzo Enciclopedico. Per realizzare una utopica catalogazione di ogni possibile idea dell’arte e senza incontrare i soliti nomi noti dell’arte contemporanea.
Una mostra visionaria: si ricorderà così la 55ª Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia, aperta dal 1° giugno al 24 novembre, che ha raccolto 150 artisti provenienti da 38 nazioni per la cura di Massimiliano Gioni, 40 anni. La prima apparizione, la prova inconfutabile che tutto si è mosso seguendo il filo felicemente ingarbugliato di un’interpretazione personale della realtà è già nel titolo: Il Palazzo Enciclopedico è infatti il progetto dell’italo- americano Marino Auriti, artista autodidatta che di mestiere aveva fatto il carrozziere e il commerciante di cornici, nato nel 1891 e scomparso nel 1980. L’idea, depositata nel 1955 presso l’ufficio brevetti degli Stati Uniti, era quella di riunire all’interno di uno stesso edificio tutte le conquiste dell’umanità, tutto il sapere del mondo: dalla ruota al satellite, dagli oggetti artigianali alle opere dell’avanguardia artistica. Auriti aveva anche costruito il modello del palazzo, che doveva essere il più alto della sua epoca. E si era messo a cercare i fondi per poterlo realizzare, senza naturalmente riuscire a racimolare i 2,5 miliardi di dollari stimati per sostenere l’impresa.
Ci ha pensato Gioni a realizzare per lui almeno una parte della sua gigantesca utopia di catalogazione di tutto ciò che l’uomo ha immaginato. E durante la Biennale la sua maquette, in legno, ottone e plastica con finestre di celluloide, colonnine disegnate a mano e piccole balaustre ricavate da pettini, ha accolto i visitatori all’ingresso dell’Arsenale, una delle 2 sedi in cui è stata ospitata l’esposizione.
Al centro del Padiglione centrale dei Giardini, dov’era allestita l’altra parte della mostra, a troneggiare era Il libro dei sogni di Carl Gustav Jung (1875-1961).
Mai visto prima d’ora in Italia, è il frutto di una compilazione durata 16 anni delle visioni, delle fantasie e anche delle interpretazioni dello psicoanalista. Su un grande quaderno sono disegnate immagini coloratissime che mettono in scena un universo spesso terrificante, l’emersione di paure e di simboli ancestrali, un’esplorazione di luoghi sconosciuti e segreti dove a condurre il gioco è un inconscio lasciato libero, anzi volontariamente indotto a creare le sue rappresentazioni.
Auriti e Jung sono le 2 porte attraverso cui si accede a una Biennale singolare, che fin dalle prime sale rivela la volontà di classificare il meraviglioso disordine dell’immaginario. Per far questo raccoglie le opere di alcuni artisti più o meno grandi. Ma non solo. Rintraccia un sordo, James Castle (1899-1977), e un autistico, il giapponese Shinichi Sawada (1926-2003), che comunicano soltanto attraverso le loro piccole e fantastiche sculture di carta o di creta. Scova ciechi che dipingono, come succede nel video del polacco Artur Z˙ mijewski (n. 1966), e depresse che si curano con i colori a olio e i pastelli, come Anna Zemánková (1908-1986). Rivela il lavoro di figure che eseguono bizzarre composizioni su tela dopo essersi messe in contatto con le voci e gli spiriti di Leonardo da Vinci o di sorelle morte come Augustin Lesage (1876-1954) o Hilma af Klint (1862-1944), entrambi attivi all’inizio del Novecento. E poi c’è chi cataloga i colori del cielo, come il tedesco KP Brehmer (1938-1997), e chi, come la romena Geta Bratescu (n. 1926), crea astratte cartografie della psiche disegnando con la macchina da cucire. C’è la collezione di disegni di Hugo A. Bernatzik (1897-1953), che negli anni Trenta del Novecento ha dato carta e matita a gruppi tribali della Melanesia perché riproducessero con questi nuovi strumenti le immagini che avevano realizzato fino a quel momento sulla sabbia (quanto Picasso, Klee, Derain, c’è tra queste pagine). E poi ecco Oliver Croy (n. 1970) e Oliver Elser (n. 1972) che hanno esposto un catalogo architettonico: piccole casette costruite in materiali vari, realizzate da un impiegato delle assicurazioni austriaco di nome Peter Fritz (negli anni Cinquanta e Sessanta), scovate da Croy da un rigattiere. Queste centinaia di casette in miniatura allestite su un grande tavolo tutte insieme sono l’incredibile, ossessiva scenografia di una città che è esistita solo nella mente di qualcuno.
L’ambizione di questa Biennale era proprio quella di andare a frugare laddove nascono i pensieri.
L’elogio che si deve fare a Gioni è di averci, per una volta, condotto in un universo inaspettato, dove non si incontrano i nomi dei soliti noti dell’arte contemporanea. Persino quando attinge al bacino surrealista il curatore predilige figure ‘minori’ come Dorothea Tanning (1910-2012), e, se si tratta di invitare un mostro sacro del minimalismo come Carl Andre (n. 1935), di tutto il suo repertorio sceglie una specie di privatissimo diario, «una campionatura del mio stato d’animo dal 1960 in poi», come l’ha definito lo stesso artista americano. Il pericolo di un’operazione del genere potrebbe essere il sacrificio dell’opera sull’altare dell’idea che la accompagna. Ma in questa immensa Wunderkammer ci sono anche momenti di autentico incanto: le illustrazioni dei diari di Franz Kafka del colombiano José Antonio Suárez Londoño (n. 1955), le fotografie di capigliature femminili scattate dal nigeriano J.D. ′Okhai Ojeikere (n. 1930), i disegni di isole accartocciate del cinese Lin Xue (n. 1968) e i video del suo connazionale Kan Xuan (n. 1972), l’installazione degli svizzeri Fischli & Weiss, i disegni meticolosamente realistici eppure carichi di mistero del belga Patrick Van Caeckenbergh (n. 1960), il borgesiano bestiario della greca Christiana Soulou (n. 1961) sono solo alcune tappe in cui, durante questo viaggio nell’enciclopedia per immagini del mondo, sarà valsa la pena di sostare.
150 artisti, 38 paesi
Alla mostra internazionale Il Palazzo Enciclopedico, il cui percorso espositivo è formato da 150 artisti di 38 paesi, si affiancano le 88 partecipazioni nazionali che hanno luogo nei padiglioni situati nei Giardini, nell’Arsenale o nel centro storico di Venezia. Oltre alla Santa Sede, sono altri 10 i paesi che sono presenti alla Biennale per la prima volta: Angola, Bahamas, Regno del Bahrain, Repubblica della Costa d’Avorio, Repubblica del Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay e Tuvalu. Sono in programma inoltre altri 47 eventi collaterali promossi da enti e istituti nazionali e internazionali.
Il padiglione italiano
Intitolato Vice versa e curato da Bartolomeo Pietromarchi, il padiglione italiano prende lo spunto da una idea di Giorgio Agamben, secondo il quale per interpretare la cultura italiana occorre individuare una «serie di concetti polarmente coniugati» capaci di descriverne le caratteristiche di fondo (tragedia/commedia, architettura/vaghezza, velocità/leggerezza); e propone quindi un percorso espositivo composto da 7 stanze, ciascuna delle quali presenta 2 artisti in reciproco dialogo, con l’ambizione di individuare e delineare i caratteri fondanti dell’identità culturale e artistica italiana contemporanea. Gli artisti invitati sono: Francesco Arena, Massimo Bartolini, Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Piero Golia, Francesca Grilli, Marcello Maloberti, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Marco Tirelli, Luca Vitone, Sislej Xhafa.
La prima volta del Vaticano
Per la prima volta la Santa Sede partecipa alla Biennale con un proprio padiglione, ispirato al tema della ‘genesi’ (e in particolare ai primi 11 capitoli del libro biblico), intitolato In principio, ideato e promosso da Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, e curato da Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani. Tre i temi affrontati, e affidati ad altrettanti artisti o gruppi di artisti: «Creazione» (Studio Azzurro), «De-Creazione» (Josef Koudelka) e «Ri-Creazione» (Lawrence Carroll). La partecipazione della Santa Sede alla Biennale è una conferma dell’importanza che l’arte ha avuto e continua ad avere per la storia della Chiesa e della spiritualità in generale, sia come strumento di insegnamento, apostolato ed evangelizzazione, sia come forma di preghiera e di lode, sia infine come ricerca di Dio – anche da parte di artisti non credenti –, come percorso interiore di avvicinamento, come itinerario spirituale: nelle paro- le di papa Benedetto XVI, oggi occorre «riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio».