bilinguismo e diglossia
Con bilinguismo si intende genericamente la presenza di più di una lingua presso un singolo o una comunità. Il bilinguismo in senso lato costituisce la condizione più diffusa a livello sia individuale sia di società: la vera eccezione sarebbe piuttosto il monolinguismo. Più in particolare, bilinguismo si riferisce sia al concetto più generale e ampio della competenza e dell’uso di due lingue, sia a quello più specifico di repertorio linguistico (meglio definito come bilinguismo sociale) formato da due lingue, che si oppone a diglossia. La diglossia è dunque una specifica forma di bilinguismo in cui le due lingue disponibili sono in un rapporto gerarchico e complementare.
Le definizioni di bilinguismo che si sono succedute nel tempo tendono a polarizzarsi da una parte verso un’accezione stretta, che implica uguale competenza in due lingue apprese simultaneamente, dall’altra verso un’accezione ampia che considera bilingue chiunque abbia un grado anche minimo di competenza in più di una lingua. Le definizioni più adeguate sembrano quelle che prendono in considerazione l’uso delle lingue: Weinreich (2008), ad es., definisce bilingue la persona che usa alternativamente due lingue; e così Grosjean (2008), che parla di everyday bilinguals, cioè di persone che usano due lingue nel corso delle loro attività quotidiane. Diversi gradi di fluenza e di alfabetizzazione, una complementarità di usi e funzioni almeno parziale (spesso un bilingue non ‘fa’ con entrambe le lingue le stesse cose) e modalità discorsive diverse rendono necessario parlare della competenza bilingue in termini di competenza integrata, non riducibile a una somma di competenze monolingui (Grosjean 2008).
Tradizionalmente si distingue fra bilinguismo bilanciato (pari competenza in entrambe le lingue) e bilinguismo non bilanciato, che può arrivare a comprendere anche una competenza solo passiva (o ricettiva) di una delle due. Un’altra distinzione è fra bilinguismo simultaneo, quasi simultaneo (entrambi i tipi rientrano nel bilinguismo precoce o infantile) e bilinguismo successivo. L’acquisizione simultanea di due lingue da parte di bambini piccoli è un tema di grande interesse in quanto tocca la questione della separazione o meno dei sistemi linguistici, in particolare della grammatica, nella mente del bambino bilingue.
Il tipo di bilinguismo, e la condizione stessa di bilingue, non sono necessariamente stabili. Nel corso della vita un individuo può arricchire il proprio repertorio linguistico (bilinguismo additivo), ma è anche possibile che la competenza in una o più lingue si danneggi in seguito a una riduzione nell’uso, nelle funzioni o nel prestigio della lingua stessa, a vantaggio di altre lingue (bilinguismo sottrattivo). Infine, il parlante bilingue può essere ‘isolato’ (Francescato 1981), cioè vivere in un ambiente prevalentemente monolingue (è il caso di molti immigrati), oppure può fare parte di una comunità che è bilingue nel suo complesso.
A livello di società, una comunità linguistica si dirà bilingue se i suoi componenti usano regolarmente, o hanno la possibilità di usare, più di una lingua interagendo fra loro. In questo senso le diverse tipologie di bilinguismo diventano un strumento per individuare comunità linguistiche diverse, a prescindere da criteri di tipo geografico, amministrativo o etnico. Così, all’interno di una più ampia comunità linguistica italiana, generalmente monolingue, che utilizza l’italiano per la comunicazione tra i suoi membri, possiamo riconoscere una serie di comunità bilingui caratterizzate dalla presenza di (almeno) due sistemi linguistici (o codici). Accanto all’italiano, infatti, vi può essere un dialetto italoromanzo (ad es., il veneto), una lingua di minoranza di antico insediamento (ad es., l’albanese) o una lingua di minoranza di recente immigrazione (ad es., il rumeno).
Quando in una comunità siano compresenti due lingue non differenziate funzionalmente e perciò utilizzabili sena distinzione in qualunque contesto comunicativo, si parla di bilinguismo sociale. In società complesse il bilinguismo sociale implica che entrambe le lingue siano standardizzate ed elaborate, parimenti utilizzabili in ogni contesto formale, inclusi gli usi scritti, scolastici, scientifici e tecnologici. È evidente come una situazione di questo tipo sia abbastanza rara, almeno nei termini citati, fra l’altro perché poco funzionale e ridondante.
Un’altra distinzione utile è quella fra bilinguismo monocomunitario e bilinguismo bicomunitario. Il primo si ha quando la compresenza di due lingue (per lo più con gradi diversi di competenza e di uso) è diffusa in tutta la comunità sociale e la caratterizza (come, per es., in Valle d’Aosta, con italiano e francese). Il bilinguismo bicomunitario, invece, costituisce il risultato della presenza sul medesimo territorio di due comunità linguistiche, entrambe riconosciute e autorizzate a parlare e scrivere la propria lingua in tutti gli ambiti d’uso (è il caso di tedesco e italiano in Alto Adige). Il bilinguismo bicomunitario non implica quindi bilinguismo individuale dei membri della comunità, ma la coesistenza di due comunità potenzialmente monolingui.
Il termine diglossia deve la sua fortuna a un articolo di Charles Ferguson nel quale si trattava, per la prima volta in modo sistematico, di «un tipo particolare di standardizzazione in cui due varietà di una lingua esistono fianco a fianco nella comunità, ciascuna con un ruolo definito» (Ferguson 2000: 185). E proprio in questa distinzione di ruoli e funzioni, associata a una compartimentazione gerarchica complementare delle varietà, si caratterizza il ➔ repertorio linguistico di una comunità diglottica. La diglossia prevede che la varietà alta (H[igh] o A) e la varietà cosiddetta bassa (L[ow] o B) non si sovrappongano funzionalmente: mentre la prima è standardizzata, viene trasmessa dalla scuola ed è usata nello scritto e nei contesti formali (la liturgia, l’università, l’amministrazione, buona parte dei mezzi di comunicazione), la varietà B viene acquisita spontaneamente come lingua prima ed è usata nella conversazione ordinaria e in tutti i contesti informali. La nozione di diglossia è esemplificata da Ferguson con quattro casi che, ovviamente, riflettono la situazione sociolinguistica dell’epoca: arabo classico ed egiziano, tedesco e svizzero tedesco in Svizzera, francese e creolo di Haiti, katharévusa e dhimotikí in Grecia.
La diglossia tende ad essere stabile se le condizioni sociali che l’hanno generata restano tali, fra l’altro se la comunità continua a riconoscere nella varietà A un veicolo di valori nazionali, religiosi, culturali. Viceversa, una maggiore diffusione dell’alfabetizzazione, maggiori possibilità di mobilità e di comunicazione, così come un mutato orientamento ideologico, sono alla base di uno sfaldamento della diglossia secondo percorsi abbastanza prevedibili. Da un lato ci può essere l’affermazione della varietà alta come veicolo principale di comunicazione anche nei contesti bassi, dall’altro, invece, la varietà (o meglio, una varietà) B prende il sopravvento ampliando la propria gamma di funzioni.
Per secoli (almeno a partire dal Cinquecento e fino ai primi decenni del XX secolo) l’italiano ha conosciuto sì una diffusione estesa a tutta la penisola, ma assai limitata per quanto concerne gli ambiti d’uso e la stratificazione sociale. In tutti i contesti di comunicazione informale e parlata i codici in uso hanno continuato a essere i dialetti e le lingue di minoranza presenti sul territorio. Come nota De Mauro (19995: 34), la «lingua comune, insomma, non si offriva al singolo come una realtà ‘naturale’, immediatamente acquisibile vivendo la vita associata di ogni giorno, privata o pubblica». La descrizione che De Mauro dà dell’Italia al momento dell’unità (e che resta tutto sommato valida, seppure in lento dinamismo, fino alla seconda guerra mondiale), sembra corrispondere bene alla definizione di diglossia. Mutando le condizioni sociali del paese, e con il diffondersi dell’italiano a fasce sempre più estese della popolazione, la rigidità del modello diglottico viene meno sviluppandosi verso un tipo di repertorio, tipico dell’Italia contemporanea, che Berruto (1987) ha chiamato «dilalìa». Diversamente dalla diglossia, nella dilalìa (in cui pure si hanno una varietà A e una B) vi è sovrapposizione funzionale tra le varietà nei domini d’uso informali, così come nella socializzazione primaria, mentre l’italiano (lingua A) resta l’unica possibile nei domini funzionalmente alti: in un certo senso si può dire che l’italiano sia ‘sceso’ erodendo mano a mano lo spazio del dialetto e sovrapponendosi ad esso.
Si noti invece come il processo che aveva portato all’imporsi del fiorentino come lingua scritta comune in Italia costituisca un esempio di esito diverso di una situazione di diglossia precedente; in questo caso, infatti, era stato un volgare (per quanto colto e prestigioso come il fiorentino) ad essere ‘salito’, andando a occupare gli ambiti che erano propri di un’altra lingua (il latino), in coincidenza con i primi tentativi di standardizzazione e di codificazione linguistica. A proposito di casi di questo tipo, caratteristici di fasi storiche di ridefinizione identitaria e di processi di standardizzazione, nei quali sia la varietà B ad acquisire sempre più rilevanza e a occupare sempre più spazi, andandosi a sovrapporre ad A nei domini scritti e formali, è stato proposto il termine «diacrolettìa» (Dell’Aquila & Iannaccaro 2004: 171).
Il termine diglossia ha esteso la sua applicazione a contesti anche molto diversi fra loro. Da un lato il modello a due livelli si è complicato, prevedendo, per es., la triglossia, con una varietà M (media) fra A e B; o una distinzione, applicata da John Trumper alla situazione italiana sulla base della ‘forza’ della varietà B, fra macrodiglossia e microdiglossia (cfr. Berruto 1995: 227-250). Dall’altro la nozione di diglossia, assieme a quelle da essa derivate, si è estesa a includere, oltre alla compresenza di varietà di lingua imparentate e prossime, anche la compresenza, purché funzionalmente differenziata, di lingue diverse, strutturalmente distanti fra loro.
Nel contesto italiano ciò si traduce spesso in repertori tripartiti nei quali la lingua di minoranza (ad es., l’albanese) si contrappone al dialetto italoromanzo della zona (ad es., il calabrese) ed entrambi si trovano subordinati all’italiano in un rapporto di diglossia o di dilalìa.
Il fatto che due varietà (o lingue o lingua e dialetto) siano sufficientemente diverse e indipendenti, e ritenute tali dai parlanti stessi, sembra essere una condizione necessaria per parlare di diglossia. Il restringersi della distanza linguistica fra i codici produce invece una situazione di tipo diverso, il «bidialettismo» (Berruto 1995: 248). Qui il rapporto fra i codici è più fluido e possono sussistere sia varietà intermedie fra A e B, sia pratiche linguisticamente miste. Come casi di bidialettismo in Italia vengono spesso considerate le situazioni della Toscana e di Roma.
Un tentativo di incrociare i concetti di bilinguismo e diglossia si trova in Fishman (1975) che ha identificato quattro repertori logicamente possibili:
(a) bilinguismo e diglossia: tutta la comunità padroneggia entrambe le lingue ma le usa in modo funzionalmente differenziato;
(b) diglossia senza bilinguismo: comunità con forti disparità sociali, nelle quali molti parlanti non hanno accesso alla lingua A;
(c) bilinguismo senza diglossia: fasi transitorie durante le quali vige incertezza circa l’uso delle lingue; di solito seguite da una sopraffazione di una lingua sull’altra;
(d) né bilinguismo né diglossia: tipo raro, riscontrabile solo in comunità molto piccole e isolate.
Per quanto ampiamente accolta in sociolinguistica, questa tipologia presenta una serie di punti critici che rischiano di indebolire la portata teorica delle nozioni stesse di bilinguismo e diglossia. In questo modello, infatti, il bilinguismo perde la sua accezione di bilinguismo sociale, logicamente incompatibile con un modello di diglossia (una comunità o è bilingue o è diglottica rispetto alle stesse due lingue), venendo di fatto a coincidere con la competenza bilingue dei parlanti. Un punto invece importante della classificazione di Fishman (1975) è la necessità di rendere conto dell’accessibilità o meno dei due (o più) codici linguistici all’intera comunità: ciò vale tanto per il bilinguismo sociale (il che determina il tipo mono- o bicomunitario), quanto per la diglossia. La diglossia è infatti molto diversa se è l’intera comunità ad essere diglottica (come, ad es., nella Svizzera tedesca) o se invece ad ampi settori della società è di fatto interdetto l’accesso alla lingua o varietà A (come, ad es., in Italia all’epoca dell’unità nazionale). In questo senso la diglossia può essere vista come un riflesso dell’asimmetria dei rapporti sociali, diventando essa stessa strumento di potere.
Per quanto riguarda i fenomeni di contatto linguistico riscontrabili a livello discorsivo, la ➔ commutazione di codice sembrerebbe incompatibile con la diglossia, e probabilmente anche con il bilinguismo bicomunitario, per il quale si può invece riscontrare un’alternanza di codice funzionale a cambiamenti nella situazione comunicativa: interlocutore, argomento, mezzo. È invece altamente probabile che nelle comunità dilaliche la pratica della commutazione di codice sia frequente, vista la sovrapposizione funzionale di A e B; così come dovrebbe accadere in contesti di bilinguismo monocomunitario. Insomma, quanto minore è la differenziazione funzionale fra i codici all’interno di una comunità, tanto maggiore e intimo sarà prevedibilmente il grado di commistione linguistica.
Nel contesto italiano, la lingua nazionale e i diversi dialetti o lingue di minoranza sono compresenti nel discorso, all’interno di conversazioni informali, secondo una tipologia di commistione molto varia. Si vedano, ad es., questi due brevi frammenti di italiano-novarese: avevi sempre paura del padrone ca t ciapéisa «... che ti prendesse» (il passaggio dall’italiano al dialetto coincide con il confine fra la frase principale e la dipendente); tüc’ gli anziani «tutti gli anziani» (il passaggio dal dialetto all’italiano è interno al sintagma nominale).
I fenomeni di contatto che interessano invece i sistemi linguistici, quali, ad es., ➔ prestiti lessicali, prestiti occasionali (in particolare interiezioni, segnali discorsivi, particelle modali, ecc.) e interferenze sintattiche, possono costituire un importante indicatore dei rapporti fra i codici. Una delle caratteristiche di tali fenomeni, infatti, è l’unidirezionalità del processo che va dalla lingua dotata di maggior peso e prestigio a quella che, per una serie di ragioni, gode di minore prestigio. Si noti come anche in contesti di bilinguismo rigidamente regolamentato sia di solito solo una delle due lingue a fungere da modello per prestiti e interferenze. Così avviene, ad es., in Alto Adige, dove ai rari prestiti culturali dal tedesco all’italiano (come strudel o lederhosen) fanno da controparte i molteplici prestiti e occasionalismi dall’italiano al tedesco: dai ben noti Carabiniere e Patent («patente di guida», invece di Führerschein), ad aggettivi di uso comune come [ʃ]tuff «stufo», imprecazioni come o[ʃ]tia!, fino ad avverbi come magari.
Bilinguismo e diglossia trovano un riflesso indiretto nella letteratura italiana, la quale ha sì attinto al pluralismo linguistico del paese, rielaborandolo in forme originali anche di elevato valore letterario, senza tuttavia riflettere necessariamente i rapporti sociolinguistici fra i codici. Non è, ad es., pertinente al tema di bilinguismo e diglossia tutta la letteratura dialettale che, dal Cinquecento in avanti, si pone in consapevole contrapposizione alla lingua unitaria e alle sue tendenze di fissazione e codificazione; né necessariamente l’utilizzo di regionalismi o dialettismi per connotare personaggi o situazioni, caratteristica che si trova già nel Decameron con l’uso di veri e propri blasoni linguistici.
Esempi di bilinguismo nella letteratura italiana sembrano derivare piuttosto da casi di ‘bilingui isolati’, cioè da episodi di bilinguismo individuale dovuti a biografie linguistiche particolarmente ricche, non a caso spesso legate all’esperienza migratoria dell’autore stesso. Esempio emblematico è quello di Luigi Meneghello che ne Il dispatrio ripercorre i suoi primi anni in Inghilterra facendo ampio uso dell’inglese in prestiti culturali, occasionalismi, citazioni di interi frammenti di conversazione: «“Ma dopo il lunch, tra il lunch e il tè, non si lavora?” “Goodness me, no” mi disse Sir Jeremy» (p. 35). Un caso per così dire rovesciato è quello di Elvira Dones, albanese, e di altri autori di origine straniera che scrivono in italiano. In Vergine giurata sono numerosi i prestiti culturali dall’albanese (fis «casata», qofte «polpette», kulla «casa tradizionale», ecc.), mentre esempi più vicini alla commutazione di codice sono, forse non sorprendentemente, molto rari: «Tungjatë Mark. Semplicemente così», «ciao ... » (p. 43).
Casi di vero ➔ mistilinguismo nella letteratura italiana recente tendono a configurarsi più che altro come usi sperimentali del linguaggio. Uno per tutti è quello del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Si noti che l’origine più letteraria che reale del bilinguismo del protagonista spiega forse la poca plausibilità linguistica di molti enunciati mistilingui, come, ad es.: «dopo che i tedeschi haunted sporadicamente il main hotel» (p. 25).
La diglossia emerge sporadicamente, ad es., nei romanzi di Fruttero e Lucentini, molto sensibili alla variazione linguistica, per cui all’alta borghesia torinese de La donna della domenica, italofona ma propensa all’anglofonia e alla francofonia come vezzo di classe («Mi piace. Mais ça n’empêche. Tu, fai quello che ti pare, io sai dove vado? Qui dietro, dal boucher», p. 78) si contrappone la coralità del ‘popolino’ in A che punto è la notte?, tendenzialmente dialettofono: «A l’è chiel! – si sentì sussurrare tra i parrocchiani degli ultimi banchi. – È lui!».
Infine, si possono citare almeno due esempi, molto diversi tra loro, di bidialettismo: la mescolanza di dialetti vari e italiano di registri multipli nel Pasticciaccio di ➔ Carlo Emilio Gadda e Ragazzi di vita di ➔ Pier Paolo Pasolini. In quest’ultimo, alla varietà romanesca usata nel discorso diretto si contrappone una narrazione perennemente in bilico fra l’italiano letterario e la stessa varietà popolare usata dai personaggi: «Amerigo era ubbriaco. “Scegnemo qua ar Forte”, fece al Caciotta, che l’ascoltava deferente» (p. 83).
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Fenoglio, Beppe (1968), Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi.
Fruttero, Carlo & Lucentini, Franco (1972), La donna della domenica, Milano, Mondadori.
Fruttero, Carlo & Lucentini, Franco (1979), A che punto è la notte, Milano, Mondadori.
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Pasolini, Pier Paolo (1955), Ragazzi di vita, Milano, Garzanti.
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